È forse la prima volta in questo sito che la vera introduzione a una canzone viene affidata piuttosto al blog che alla pagina che la contiene e, in fondo, non ve n’è nessuna precisa ragione. Del resto, di fronte a Piero Ciampi, alla sua vita e alle sue canzoni è sempre bene non invocare troppe ragioni e troppa logica; anche perché chi scrive ha fin troppo ben presenti i luoghi della canzone, i Fossi, i Domenicani, i Bottini dell’Olio e tutto il resto. Abitava, sempre chi scrive, a pochi metri da dove Piero Ciampi era nato; e ha conosciuto pure lui certe lunghe, lunghissime notti briache e senza meta, concluse con due o tre ponci e micidiali panini al prosciutto e melanzane sott’olio alle cinque e mezzo di mattina a pochi metri da quell’Osteria dei Terrazzini, o Enoteca Mannari, dove un sei di marzo Piero fu, si dice, visto per l’ultima volta nella sua vita a Livorno. Quando ciò fu risaputo, ne nacque pure una canzone, intitolata appunto 6 Marzo, scritta da Alberto Cantone e dai Marmaja. Quando abitavo a Livorno, ogni sei di marzo l’oste dei Terrazzini organizzava una gigantesca frittura di pesce accompagnata da ettolitri di vino bianco; un anno, chi scrive ne bevve talmente tanto da far concorrenza diretta a Piero Ciampi e rotolò poi senza fiatare le scale del sottopasso della stazione di Livorno, davanti agli occhi di un amico che era venuto da Roma e che ora fa il meteorologo alla televisione. E che è stato anche uno dei primi ad ospitare, sul suo sito, la primitiva raccolta delle Canzoni Contro la Guerra del 2003; quando si dice delle strade che si incrociano. Come vedete, sto parlando di me stesso. Piero Ciampi fa anche di questi scherzi, e ora parliamo della canzone, che poi è una poesia. O della poesia, che poi è una canzone. Un altro degli scherzi combinati da Piero Ciampi, nato a Livorno il 28 settembre 1934 e morto a Roma il 19 gennaio 1980.
Un delizioso e solenne scherzo organizzato da Pino Bertelli, un altro anarchistaccio toscano, con la Ballata di Piero dei fossi. La Ballata, messa in musica da Massimo Panicucci, parla principalmente di due cose: di Livorno, e di Pino Bertelli. Parla di Pino Bertelli come parla di Riccardo Venturi, e di chiunque abbia avuto a che fare, direttamente o in sogno, con Piero Ciampi e con una Livorno che non è mai la città che si vede ora. Quando Livorno viene infilata nella Poesia, non ci possono essere troppa realtà; ci devono essere Piero Ciampi, Amedeo Modigliani, Angelo Froglia. Deve essere battuta da navi che portano nelle stive le mani mozzate di Víctor Jara e l’asma del Che Guevara, mentre i ‘Vattro Mori fanno i porci nelle cabine dei Bagni Pancaldi e Piero gioca al ciuco coi palombari, con la gentile partecipazione di un altr’òmo di mare, un genovese come genovese s’era fatto un altro poeta livornese, Giorgio Caproni:
Piero dei fossi
che giocavi con le carte al “ciuco” con i palombari
e i Quattro Mori nelle cabine svergognate dei Pancaldi
quando l’Amerigo Vespucci portava nella stivale mani tagliate di Victor Jara legate a un granello di sabbia
e l’asma libertaria di Ernesto “Che” Guevara, e un cantore
dei diseredati diceva che dai diamanti non nasce nulla
e dal letame nascono i fiori degli umiliati e degli offesi.
La Ballata di Piero dei fossi è quindi un giro per la Livorno che non c’è, che però è anche l’Isola che c’è e lo è in ogni momento della sua storia. La città dei novantuno bombardamenti subiti a partire dal 28 maggio 1943, quando anche Piero Ciampi dovette sfollare con la famiglia per ritrovare quella Livorno rasa al suolo del Dopoguerra, che rappresenta il tempo sospeso delle sue canzoni, allungato fino alla metà degli anni ’70. Diceva Piero Ciampi che Livorno era la città più difficile; come dargli torto. E, così, Pino Bertelli si getta a capofitto in questa difficoltà, che è la difficoltà del vivere e anche il resoconto stesso degli antidoti forniti dalla luce della Poesia e, why not, da litrate di vinaccio che prima o poi ti spediranno al creatore.
È la stessa vita dei ragazzi di borgo che si vendevano sul viale Carducci, dei pazzi, delle corse dei cavalli, del gioco, dei calendarietti dei barbieri con le donne gnude, e dei modi in cui tutto questo, passando attraverso il genio disperato di un uomo magro, esile, altissimo e briaco dentro a un fosso, viene trasformato in Poesia. Ma, si faccia attenzione: non una Poesia fine a se stessa, non uno sciorinare di lirismi senza scopi precisi: lo scopo, precisissimo, di Piero Ciampi, va sotto il nome di Libertà, totale, assoluta, senza compromessi.
Piero dei fossi
è lì che è stata abolita la tortura e la pena di morte
è lì che ogni esule o errante ha il suo cimitero di rose
e ogni eretico evangelico la sua isola incantata che c’èlì dove anche i lebbrosi hanno avuto un padre
lì dove ogni uomo trovava un tetto di rosse speranze
quando le barricate erano di carretti, tavoli e letti
e le donne giocavano a nascondino nel bosco coi soldati.
Ed è così che la Ballata sembra assumere il tono di un’apologia e, forse, anche quello di una specie di agiografia; ma è soltanto un modo per mettere chiunque di fronte al disassamento che coglie quando Piero Ciampi (anche conoscendolo direttamente per una sola breve notte, come Pino Bertelli stesso racconta) ti irrompe addosso in modalità non superficiali. Per questo Piero Ciampi è sempre stato infinitamente più pericoloso di tanti solforosissimi versificatori e cantori più direttamente “politicizzati”; e il pericolo che ha espresso traendolo da se stesso e da una situazione sociale, personale e collettiva, che viveva in ogni momento sulla sua pelle, è stato probabilmente la causa principale della sua sconosciutezza, della sua emarginazione, del suo dimenticatoio dal quale fatica tuttora a uscire. Troppo libero per essere noto. Troppo incazzato. Troppo fragile. Troppo adolescente, e viene a mente non di rado il ragazzino di Charleville. Troppo briaco lui di persona, troppo ladro e troppo puttana mentre altri facevano i soldi cantando di briachi, ladri e puttane. Troppo tutto. Troppo Piero Ciampi; e di tutti questi troppi parla la Ballata di Pino Bertelli, uno che ha capito.
Proporla qua dentro? Si è proposta da sola, con la sua Livorno dopoguerresca, con la sua Anarchia, con la Storia e con la Geografia che racconta. Forse anche per questo ho preferito parlarne più compiutamente non direttamente sulla pagina; e, come sempre mi accade, ho piuttosto affidato l’oceano di cose che mi percorrevano ad una traduzione.
Piero Ciampi, chissà, avrebbe forse preferito che una canzone che parlava di lui fosse tradotta in francese, lingua che conosceva e che rappresentava per lui, anzi, una parte della sua vita e della sua cultura poetica. Ho scelto, però, di tradurla in inglese; un po’ perché mi è venuto di far così, e un po’ per una qualche ingenua voglia di “diffondere”. Tradurre un testo come questo in una qualsiasi lingua è comunque una follia totale; ne è venuta fuori questa cosa. Ci ho messo quasi una settimana a farla, non occupandomi praticamente di altro ed assumendo presto la facies del traduttore disperato. Ma tanto dovevo a Piero Ciampi, a Pino Bertelli, e a Livorno. Quella città che si fa sempre inventare assieme alle vite di chi ci è nato o vissuto. Si diffidi sempre da chi intende “raccontare” Livorno, perché per raccontarla sul serio occorre trasfigurarla; e per trasfigurarla ci vuole parecchio, parecchio vino.
Ed è così che Piero dei fossi ci parla. Anni fa, abitando oramai molto lontano da Livorno e in un luogo parecchio differente oltre che distante, organizzai persino la sua Resurrezione; ma non ce n’è alcun bisogno. Piero Ciampi è vivo e trinca assieme a noi e anche ar tegame di tu’ mà. Talmente pierociampi, che in mezzo a tutto il suo vino, com’è bello il vino, bevo un litro molto amaro e sono dentro un’osteria eccetera, nell’unica sua foto conosciuta dove beve qualcosa si sta tracannando una bottiglietta di birra.
Riccardo Venturi.
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