Nella primavera del 1949, i comunisti perdono la guerra civile in Grecia; un gruppo di andartes si rifugia con le loro famiglie in un villaggio poco fuori la cittadina di Grevenà, nella Macedonia ellenica; comincia così una storia di emigrazione, perlopiù sconosciuta anche agli stessi greci. Nella Grecia del 1949, quel che attende gli sconfitti è la fucilazione o l’internamento in qualche isola come Makronissos; nel gruppo si trova Evangelia Chondroyannis assieme alla madre e ai cinque fratelli, che ha raccontato questa storia alla rivista Themata in un articolo pubblicato il 1° dicembre 2013 con un sottotitolo piuttosto significativo: In questi giorni la Grecia accoglie profughi da paesi dove infuriano guerre. Sessant’anni fa molti greci abbandonarono la loro patra per la lontana Polonia. Una storia sconosciuta della Grecia post-guerra civile.
La lontana Polonia? Mi alzo dalla sedia e prendo un libro che ho da non so quanti anni, un corso di greco moderno scritto, appunto, in polacco. Intensiwny kurs języka nowogreckiego, redatto da Małgorzata Borowska e pubblicato nel 1991 dal Wydawnictwo Naukowe PWN di Varsavia. C’è addirittura ancora attaccato il prezzo, 90.000 złoty di allora. Forse, ora, capisco un po’ meglio il remoto perché di quel libro, a parte naturalmente il normale desiderio che ogni polacco può avere di imparare il greco moderno. Dei greci che scapparono dal loro paese come profughi politici per rifugiarsi in Polonia; o meglio, nella Polska Rzeczpospolita Ludowa di quei tempi. Dice Evangelia Chondroyannis: “Prima passammo in Jugoslavia, ma poi andammo in Albania [l’Albania di Enver Hoxha, ndr]. Passammo circa quattro mesi a Tirana, ma si trattava solo di una tappa. La destinazione finale era la Polonia.”
Dall’Albania, una nave portò i profughi greci a Gibilterra, e da lì in Gran Bretagna. Qui devo avvertire che il racconto avrà una particolarità: l’articolo greco da cui lo riprendo riporta i nomi delle località polacche traslitterate nell’alfabeto greco. Risalire all’esatta forma polacca sarebbe un’impresa improba; ma, forse, Christoforos Voronas potrà dare una mano… Riporto dunque questi nomi traslitterandoli dal greco così come appaiono nell’articolo, a parte quelli facilmente individuabili.
Evangelia Chondroyannis aveva nove anni. Si ricorda che, dalla Gran Bretagna, attraverso il Mar Baltico i greci arrivarono nella cittadina polacca di Tzívnof. Un viaggio lunghissimo, ma tranquillo e sicuro date le condizioni. In tutto, dicono le statistiche, arrivarono in Polonia 14.500 ifugiati politici comunisti greci, comprese donne, bambini, anziani e feriti. Per loro, a Tzívnof, che si trova sulla costa baltica, fu aperto un ospedale apposito. I profughi speravano di poter tornare in Grecia dopo la guarigione, ma non accadde mai. Rimasero in Polonia.
Come spiega Mietsisláf Vogiéfski (credo sia un Mieczysław Wojewski), insegnante di economia nonché presidente dell’Associazione di Amicizia Polacco-Greca (o Greco-Polacca), “Si era nella guerra fredda e il mondo non doveva sapere che la Polonia aveva aiutato il movimento della sinistra greca”. I greci scappati in Polonia erano considerati come dei traditori dalle autorità greche, ed erano stati privati della cittadinanza.
I polacchi, sembra, trattarono benissimo i profughi greci nonostante la Polonia fosse appena venuta fuori dalla II Guerra Mondiale e mancasse più o meno di ogni cosa. I greci, a loro volta -ricorda Evangelia Chondroyannis- erano letteralmente assetati di istruzione; e qui fa tutta una lunga digressione sulla sua storia personale e su tutto il suo corso di studi in Polonia, particolarmente a Cracovia. Si sposò mutando il suo nome in Loútsko, ma afferma che nessuno dei greci credeva ancora che la loro permanenza in Polonia sarebbe durata ancora a lungo. Evangelia tornò per la prima volta nel suo paese in Grecia dopo 28 anni passati in Polonia; e racconta quanto segue: “Quando tornai nel mio paese in Grecia dopo ventotto anni, allora capii quali e quante cose avevano fatto i polacchi per noi. I greci del mio paese sapevano a malapena leggere e scrivere in greco; io parlavo indifferentemente il polacco e il greco, avevo studiato, mi ero laureata; avevo 37 anni, e i miei coetanei e coetanee al paese ne dimostravano sessanta.”
Pare che i quattordicimila greci emigrati alla fine degli anni ’40 nella perfida Polonia comunista si siano trovati molto bene; sono cittadini polacchi, hanno prosperato, si son fatti le loro famiglie e dicono di essere stati trattati molto meglio di quanto non lo siano stati i greci nella libera e democratica Germania Occidentale del dopoguerra, dov’erano stati messi a fare i Gastarbeiter nelle fabbriche.
La maggior parte dei profughi greci in Polonia era stata sistemata nella città di Zgorléts, al confine con l’allora DDR. Furono poi trasferiti a Polítse, vicino a Stettino, dove fu pure aperto un grande centro pediatrico riservato ai bambini greci, e fu riservato ai profughi un intero quartiere costruito dai tedeschi durante la guerra per i loro “lavoratori”. In tutto, nel centro pediatrico furono curati circa 2500 bambini greci. A Polítse furono costruiti per i greci un teatro, una mensa e un edificio culturale per la comunità. Si formò una compagnia teatrale greca e tante altre cose. Solo che nel resto della Polonia non se ne sapeva generalmente nulla, ricorda un altro profugo, Thanasis Alexiou, 76 anni. Laddove i greci erano presenti, però, dice Alexiou, i polacchi dimostravano una grande simpatia verso di loro. Non passò molto tempo che, come è logico che sia, la maggior parte dei greci divenne polacca a pieno titolo, dissolvendosi nella realtà del nuovo paese. Cioè integrandosi pienamente, come si dice adesso. Numerosissimi furono i matrimoni misti.
E’ andata a finire che i discendenti di quei profughi comunisti / stalinisti / eccetera, sono diventati e rimasti polacchi. I più, polacchi e basta. Finito il comunismo, adieu alla Polska Rzeczpospolita Ludowa, Solidarność, Lech Wałęsa (anzi, Leh Vaouénsa, Λεχ Βαουένσα), il boom economico, i gemelli Kaczyński. E’ cambiato tutto in Polonia e è cambiato tutto in Grecia, per il meglio o per il peggio che sia; ma fatto sta che i greci, in Polonia, ci sono rimasti eccome. Non moltissimi, a quanto sembra, sentono ancora molto le famose “radici”; ma qualcuno sì, ancora. Né la Polonia di adesso sembra essersene dimenticata. Ad esempio, al 21° Ginnasio di Stettino, si insegna il greco moderno (e chissà che non venga utilizzato quel Kurs che non mi ricordo nemmeno più come mi sia capitato in mano col suo prezzo ancora attaccato, visto che in Polonia non l’ho comprato di certo). Il 23 ottobre, il medesimo Ginnasio stettinese (o stettiniano?) organizza la “Giornata Greca”, alla quale partecipano pure gli adesso anzianissimi profughi della prima ora, quelli rimasti. A Polítse ogni anno viene festeggiato il 25 marzo, che è la festa nazionale ellenica. Il sindaco polacco di Polítse, vale a dire Vládislaf Diakoún, dice di non riuscire neppure a immaginarsi la sua città senza i greci. Strano posto l’Europa, no?
L’articolo di Themata è firmato in coppia, da una signora polacca, Elżbieta Biś, e da una signora greca, Dimitra Kyranoudi. Forse sarebbe finita qui, questa storia di profughi una volta tanto finita bene. Però, certo, dimenticavo questa canzone qua, quella di questa pagina.
La storia dei profughi polacci in Grecia sarà stata anche e pressoché ignota sia in Polonia che in Grecia; però, sicuramente, nel 1977 era nota a Kostas Virvos, il quale è morto a 89 anni il 6 agosto 2015 nella sua casa di Paleò Fàliro. Era nato a Trikala il 29 marzo 1926; era stato, in gioventù, membro della Resistenza e poi dell’EAM/ELAS e aveva passato i suoi bravi anni di guai, senza però emigrare né in Polonia, né altrove. Dal 1954 al 1985 aveva fatto l’impiegato statale, il poeta e il cantautore. La prima canzone la aveva scritta nel 1948, annataccia senz’altro, e gliela aveva cantata nientepopodimeno che Markos Vamvakaris.
Come Kostas Virvos conoscesse la storia dei profughi greci in Polonia, sinceramente non lo so. Questa canzone del 1977 gliela cantò però un altro mostro sacro della canzone greca, Charàlambos Garganourakis. La canzone si trova in un album che si chiama, toh, “Gli sradicati”. Parla di un profugo greco in Polonia, appunto, che vede dissolversi la Grecia in suo figlio che non gli parla in greco, dice niema (“no” in polacco, o meglio, “non c’è”), ha sposato una polacca che era stata rinchiusa a Auschwitz e che riconosce quanto fatto dalla Polonia: le case, i giardini. Solo che c’è un problema: la Scuola Greca (sì, perché ci dovevano essere pure quelle) è lontana miglia. E suo figlio è diventato polacco. Succede sempre così, ed è il sugo di tutta la storia.
Quando mio figlio mi dice niema
e non mi parla in greco,
mi si gela il sangue dentro
e lente scendono nere lacrime amare.In tutto siamo una manciata di greci
in questo paese qui in Polonia.
Abbiamo le nostre case, abbiamo un giardino,
ma la scuola greca è miglia lontana.Quando mio figlio dice niema
tiro un sospiro, e soffro.Viene dal lager di Auschwitz
la mia bella moglie,
una madre dolce come la mia,
ma non sa una parola di greco.In tutto siamo una manciata di greci
in questo paese qui in Polonia.
Abbiamo le nostre case, abbiamo un giardino,
ma la scuola greca è miglia lontana.Quando mio figlio dice niema
tiro un sospiro, e soffro.
Ora vado a rimettere a posto il corso di greco scritto in polacco, che per la cronaca, sullo scaffale sta infilato tra la Gramàtica catalana di Pompeu Fabra, esule antifranchista, e un corso di lingua feroese, An Introduction to Modern Faroese, scritto in inglese da un tizio, William B. Lockwood, che lo ha dedicato a suo fratello 21 enne scomparso in guerra nelle acque dell’Atlantico settentrionale. [RV]
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