Antiwar Songs Blog

il Blog delle Canzoni contro la guerra

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Canzoni pro-guerra

By Antiwar Songs Staff on 1 Aprile 2014

Trombettiere

La cosa era nell’aria e da oggi è realta: Il nostro sito si trasforma.

Dopo 21.000 canzoni circa, siamo lieti di annunciare che, da oggi, passiamo dall’altra parte della barricata lanciando CANZONI PRO GUERRA / PRO-WAR SONGS (CPG/PWS).

Ritenendo oramai esaurite le canzoni contro la guerra, che per 11 anni siamo andati a scovare veramente di sotto terra, abbiamo deciso di far diventare questo sito il ricettacolo mondiale delle canzoni militariste, di esaltazione bellica, delle marce militari e degli inni dei battaglioni d’assalto.

Certi che apprezzerete questa grande novità e che continuerete a seguirci con interesse e passione, vi salutiamo sugli attenti augurandovi un felice 1° aprile.

fishino

Posted in Articoli | Tagged Canzoni militariste, Marce militari

Benvenuti nel ghetto

By Antiwar Songs Staff on 24 Marzo 2014

Moni Ovadia

“Eppure – chissà – là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo.” Yannis Ritsos / Γιάννης Ρίτσος, frammento da “Ελένη”, 1970.

Tra l’aprile e il maggio del 1943 gli ebrei del ghetto di Varsavia — uomini e donne, vecchi e bambini — si ribellavano alla violenza delle SS e tenevano loro testa, armi in pugno, per quasi un mese. Si tratta del primo episodio di resistenza armata contro i nazisti; un episodio tanto più significativo perché a esserne protagonisti — in condizioni di disperata inferiorità militare e di quasi totale isolamento — sono le vittime designate della persecuzione razzista e del genocidio, i “subumani senza onore” dai quali le truppe di Hitler si attendevano solo viltà e sottomissione.

Lo spettacolo “Benvenuti nel ghetto” realizzato dagli Stormy Six insieme a Moni Ovadia, in occasione dei 70 anni dall’insurrezione del ghetto di Varsavia, raccoglie  undici canzoni  che rievocano lo storico episodio da diverse angolature.

1. Canzone del tempo e della memoria
2. Canto dei sarti ebrei della Wehrmacht
3. Devarìm (dal Deuteronomio)
4. Umschlagplatz
5. Benvenuti nel ghetto (Cocktail Molotov)
6. Mordechai Anielewicz
7. Mein name ist Stroop, durch zwei ‘o’
8. Viene un giorno (da Malachia)
9. Il sole sottoterra
10.Es gibt
11.Invocazione

Posted in Album | Tagged Ghetto di Varsavia, Moni Ovadia, Polonia, Shoah, Stormy Six

Si estirem tots, ella caurà…

By Antiwar Songs Staff on 12 Marzo 2014

Lluis Llach Camp Nou 1985

Da oggi L’estaca è una delle canzoni fondamentali di questo sito: una canzone che non cessa ancora oggi di essere una delle principali canzoni di libertà del mondo: nata nella Spagna oppressa dal Franchismo, ha attraversato i regimi di qualsiasi (finto) “colore”, dalla Polonia fino alla rivolta tunisina e alla Russia dello “zar” Putin.

Composta da Lluís Llach nel 1968, in piena dittatura franchista, la canzone è riuscita ad essere un inno universale di liberazione da ogni tipo di regime autoritario e oppressivo; cosa del resto naturale, se si considera la sua natura di chiamata all’unità di azione per liberarsi da ogni costrizione e per ottenere la libertà. Una canzone che si è trasformata in simbolo di lotta per la libertà con la sua metafora del palo che deve cadere se lo si tira tutti assieme.

Il vecchio Siset mi parlava
di buon’ora sul portone
mentre aspettavamo il sole
e vedevamo passare i carri

Siset, non vedi il palo
al quale siamo tutti legati?
Se non riusciamo a liberarcene
non potremo mai camminare

Siset è il diminutivo di Narcis. Narcís Llansa era il barbiere del paesino di Besalú nella provincia di Girona. Il negozio del barbiere era il centro delle discussioni politiche e sociali. Era un fervente repubblicano e anticlericale, caratteristiche ereditate dal padre Esteve.
Quando fu proclamata la Repubblica nel 1931, Narcís Llansa fu eletto consigliere per la ERC (Esquerra Republicana de Catalunya) di Francesc Macià e Lluís Companys. In seguito alla sconfitta repubblicana nella guerra civile, subì il dileggio dei vincitori: fu obbligato a pulire la chiesa e ad assistere alla messa. Siset era sempre riuscito a evitare la messa adducendo come scusa che la domenica era il giorno che aveva più lavoro e che doveva andare in campagna a tagliare i capelli ai contadini. Tuttavia durante la Guerra Civile, nonostante fosse costretto a vivere nascosto, radeva regolarmente il parroco del paese che non lo denunciò mai.

Llach conobbe Siset quando quest’ultimo si trasferì a Verges. Era già anziano, gli tremava il polso e non poteva continuare il suo mestiere di barbiere. Viveva con una delle due figlie, la madre di Ponç Feliu, e uno dei ragazzini amici del nipote era Lluís Llach, il figlio del medico e sindaco franchista del paese.
Narcís Llansa era appassionato di pesca e l’adolescente Lluís lo accompagnava spesso nei caldi pomeriggi d’estate. “Siset mi guardava sempre con uno sguardo fermo e con gli occhi luminosi da persona buona”.

Quei pomeriggi erano occasioni di lunghe e magnifiche lezioni di vita, grazie alle quali Siset aprì gli occhi e la mente di un giovane Lluís che ancora credeva nelle virtù del franchismo, che aveva imparato a casa e a scuola. La canzone è quindi anche una metafora del passaggio di consegne dalla vecchia generazione di repubblicani sconfitti nella guerra civile alle generazioni nate dopo la vittoria fascista e che avevano vissuto tutta la vita sotto la dittatura.

Se tiriamo tutti insieme cadrà
e non può durare a lungo
di sicuro cade, cade cade
già dev’essere ben marcito

Se io tiro forte di qui
e tu tiri forte di là,
sicuro che cade, cade, cade
e potremo liberarci

La metafora riuscì in un primo tempo ad ingannare la censura, tanto che inizialmente la canzone non fu proibita. Tuttavia la prima volta che fu eseguita in pubblico, i presenti capirono immediatamente che il palo marcito rappresentava il regime franchista. Lo capirono però anche i censori, e L’estaca passò immediatamente ad essere la canzone più proibita in Spagna. In un concerto del 1970, registrato nel disco dal vivo Ara i aquí, Llach spiega di non poter cantare la canzone. La attacca poi in una versione strumentale (gli era stato proibito di cantarla, non di suonarla). Immediatamente il pubblico intona la canzone in coro.

Tomba l'estaca

Se una canzone può essere definita mitica, L’estaca lo è. Forse la canzone più famosa in  lingua catalana, è stata tradotta in una tale moltitudine di lingue, che in parecchi paesi la si considera come una canzone autoctona; ad esempio in Polonia, dove il rifacimento di Jacek Kaczmarski, Mury, è stato uno degli inni del libero sindacato Solidarność. Il testo della canzone polacca è completamente autonomo e usa una metafora diversa (il muro invece del palo)  per esprimere la stessa cosa: la lotta contro un regime autoritario.

Strappa le sbarre delle grate ai muri!
Spezza le catene, rompi la frusta!
Ed i muri cadranno, cadranno, cadranno
E seppelliranno il vecchio mondo!

Dima dima, la versione araba de L’estaca scritta da Yasser Jradi, che oltre al musicista fa il calligrafo, ha accompagnato la “primavera tunisina” che ha portato, nel 2011, alla caduta del regime di Ben Ali, il dittatore preferito dal fu Bettino Craxi.

Dalla Russia proviene ciò che al tempo stesso, a nostro parere, è il documento più impressionante e la testimonianza più precisa della natura libertaria di questa canzone: un gruppo di persone canta la versione russa della Gruppa Arkadij Koc, subito dopo essere state arrestate, dentro un cellulare della Polizia. Un video che è un simbolo.

Posted in Canzoni, CCG Fondamentali | Tagged Catalogna, Jacek Kaczmarski, Lluís Llach, Polonia, Russia, Spagna, Tunisia

Intervista alle CCG

By Antiwar Songs Staff on 8 Marzo 2014

borsi velio singola bis

Nel maggio del 2008 la rivista Musica & Parole pubblicava un’intervista di Antonio Piccolo a due amministratori del sito “Canzoni contro la guerra”. La riproponiamo oggi nella speranza che possa essere ancora interessante, avvertendo che alcuni riferimenti sono per  forza di cose datati

Raccontatemi un po’ la storia del vostro sito internet. Come, quando e perché è nata l’idea del sito “Canzoni contro la guerra”?

Riccardo Venturi: Fu un’iniziativa del tutto spontanea; ad un certo momento, all’approssimarsi della grande manifestazione planetaria contro la guerra del 15 febbraio 2003, l’idea venne quasi da sola. Data simbolica quella del 15 febbraio, che è infatti la data di nascita (anno 1954) della prima canzone della raccolta, la più famosa di tutte le epoche, ovvero Le Déserteur (Il disertore) di Boris Vian e Harold Berg. All’inizio, il sito fu un contenitore esclusivo di testi, commenti e traduzioni, tanto che già nelle 600 canzoni “primitive” vi sono testi in lingue come il ceco, il bretone, lo svedese…e altre. In seguito è diventato una vera e propria enciclopedia della canzone antimilitarista e pacifista di tutte le epoche e di tutti i paesi. Inoltre, il sito si è sviluppato oramai in funzione del tutto multimediale, con la possibilità di scaricare mp3 e videoclip, oltre che di inserire commenti che possono svilupparsi in vere e proprie discussioni.

A cosa servono le canzoni contro la guerra?

Lorenzo Masetti: Se è vero che “a canzoni non si fan rivoluzioni”, tanto meno le canzoni possono riuscire a fermare una guerra. Anche se, come sempre, esistono le eccezioni: Grândola vila morena di José Afonso diede il segnale per l’avvio della Rivoluzione dei Garofani che in Portogallo mise fine a cinquant’anni di dittatura fascista e di guerre colonialiste. Ma soprattutto le canzoni, come altre forme d’arte, ci aiutano a capire meglio il mondo in cui viviamo. Per questo, pur senza pretese di completezza o di accademicità, possiamo affermare che il nostro è un sito che parla di Storia e di Memoria, che cerca di mantenere il ricordo del passato per tentare di migliorare il presente.

RV: Servono ad avere orrore. Non tanto della “guerra”, ma di chi se ne serve come suprema forma di oppressione. Servono ad esprimere quel che viene espresso nella strofa finale di una delle più famose canzoni antimilitariste di tutti i tempi, Masters of War di Bob Dylan. Servono a desiderare fortemente che i signori della guerra, delle divise, delle polizie, dei caporalati, delle xenofobie, dei razzismi e di tutto il resto vengano, nei nostri cuori e nelle nostre menti, seppelliti senza appello. Servono a creare in noi stessi ribellione e opposizione. E tutte possono servire a questo compito, anche le più blande.

Sull’home page del sito c’è un elenco, una sorta di segnalazione, in cui ci sono quelle che voi indicate come le “Canzoni fondamentali” (tra cui Le Desertéur e Masters of War già citate).  Perché sono le fondamentali?

La scelta di queste canzoni è del tutto soggettiva: sono state scelte perché particolarmente famose, particolarmente importanti nella storia o anche perché particolarmente belle, e sono state oggetto di vivaci discussioni tra gli amministratori al momento di ampliare la lista. Le due che hai citato sono probabilmente le canzoni contro la guerra “per eccellenza” nel mondo della canzone francofona ed anglofona.
Abbiamo preferito dare più risalto alla rabbia di Masters of War rispetto ad un’altra canzone ancora più famosa di Dylan come Blowin’ in the wind perché esprime meglio quel sentimento di rabbia verso chi dalla guerra trae profitto. Per quanto ci raccontino storie di guerre etniche, di religione, o di civiltà, a ben vedere dietro ad ogni conflitto ci sono dei signori della guerra che si arricchiscono. Ma “i soldi che hanno accumulato non ricompreranno la loro anima”.
Abbiamo voluto includere tra le fondamentali La guerra di Piero e Auschwitz, forse le più importanti nella canzone d’autore italiana,  Imagine, una canzone con un testo assolutamente rivoluzionario la cui forza si è forse un po’ persa per il fatto di essere stata utilizzata anche a sproposito (mi ricordo con orrore Gianni Morandi che davanti a papa Wojtyla intona la strofa in cui si invoca un modo senza religioni), Self Evident, una recente e splendida poesia-canzone di Ani DiFranco sull’11 settembre 2001 e la guerra preventiva, Lili Marleen, una canzone nella guerra, che fu cantata dai soldati su entrambe le linee, riuscendo a unire persone che condividevano lo stesso terribile destino.
Sconfinando nel campo della classica, abbiamo voluto includere tra le fondamentali anche l’Inno alla gioia, con il quale Beethoven voleva testimoniare, nel 1824 e in piena restaurazione, la sua fedeltà agli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità universali espressi nel poema di Schiller.

Parlando strettamente della canzone d’autore italiana, quali cantautori si sono espressi meglio, secondo voi, con le canzoni contro la guerra e perché?

Sicuramente Fabrizio De André che, a partire da due delle sue prime canzoni, La ballata dell’eroe e La guerra di Piero fu tra i primi ad affrontare in Italia la tematica antimilitarista. Oggi non ci rendiamo probabilmente conto della dirompenza che potevano avere quelle parole in quegli anni. Basti pensare che nel 1965 Don Milani veniva processato per aver scritto la sua celebre lettera ai cappellani militari toscani.
Ma l’antimilitarismo è una componente fondamentale di quelle “poche idee ma in compenso fisse” che De André ha coerentemente espresso in tutta la sua vita. Alla sua produzione più recente appartengono due capolavori della canzone contro la guerra, non solo italiana. Sidùn, da Creuza de ma, – il toccante lamento di un padre per il figlio ucciso nell’attacco delle truppe del generale Sharon – e Khorakhané, da Anime Salve, ricorda l’olocausto dimenticato del popolo rom,  Vorrei anche ricordare un’esperienza, certamente estremamente di nicchia, ma per certi versi fondamentale per la canzone d’autore e popolare italiana: quella dei Cantacronache.

Per chiudere, di fronte ad un’esperienza così vasta, potete farmi un quadro di un’ipotetica storia della canzone contro la guerra?

Le canzoni “contro la guerra” più antiche sono per lo più canzoni popolari che possiamo definire “canzoni nella guerra”, cantate cioè da chi in guerra è stato mandato. Racconti di guerra e contro la guerra si ritrovano nella tradizione orale di tutti i paesi, in particolare il nostro archivio contiene molti canti popolari italiani e ballate del folklore irlandese, scozzese ed inglese. Ma la canzone più antica che abbiamo reperito è cinese: risale al II secolo a.C. e racconta di un soldato che, al ritorno a casa, trova nel suo villaggio soltanto rovina e solitudine. Nell’Italia del XVII secolo il fiorentino Piero Salvetti scriveva invece Sia maledetto chi ha trovato la spada, una vera e propria canzone decisamente antimilitarista la cui musica è purtroppo andata perduta.
In tempi più recenti e parlando invece di canzoni “d’autore”, è la Francia a fare da battistrada con Brassens, Ferré, Vian, Brel mentre negli Stati Uniti va  ricordata la sterminata produzione di Pete Seeger.
Una vera e propria esplosione (anche a livello commerciale) delle protest song si ha durante la guerra nel Vietnam, quando il movimento di opposizione di una generazione forse irripetibile trovò voce grazie agli interpreti del folk ma anche del rock alternativo. La chitarra distorta di Jimi Hendrix, che al festival di Woodstock nel 1969 trasforma l’inno americano in una potente rappresentazione sonora delle bombe e della mitragliatrice, segna in questo senso la fine di un’epoca.

Sono sempre i generi musicali innovativi a portare una ventata di freschezza nella musica di protesta: è il caso ad esempio del punk che, con un linguaggio essenziale e volutamente estremo, ha ben saputo esprimere il rifiuto verso i falsi miti patriottici di una società repressiva e militarista. Eredità “raccolta” a partire dagli anni ’90 dal rap e dall’hip hop.

E al giorno d’oggi?

La musica di protesta non ha più la stessa  diffusione – né lo stesso impatto sociale – avuta negli anni ’60. È vero però che le voci più disparate continuano ad esprimersi contro la guerra, spesso utilizzando l’arma della satira per attaccare la retorica militarista, a volte coniando nuovi slogan (“you can bomb the world to pieces/ but you can’t bomb it into peace”, come canta Michael Franti), a volte adattando vecchie canzoni (“Bring them home” di Pete Seeger riproposta recentemente da Springsteen).

“Solo domando a Dio / che la guerra non mi sia indifferente”, cantava León Gieco nel 1978. È questa anche la nostra speranza: che queste canzoni riescano a smuoverci dall’indifferenza.

Posted in Articoli | Tagged Beethoven, Bob Dylan, Boris Vian, Fabrizio De André, Intervista, Jimi Hendrix, John Lennon, José Afonso, Leon Gieco, Parlano di noi

Francesco Di Giacomo

By Antiwar Songs Staff on 28 Febbraio 2014

francesco-di-giacomo

Era la grande voce del progressive italiano, il simbolo di un’epoca aurea del rock italiano. Francesco Di Giacomo, imponente cantante del Banco del Mutuo Soccorso, è morto lo scorso 21 febbraio per le conseguenze di un grave incidente stradale accaduto a Zagarolo, in Via Valle Del Formale, nei pressi del centro sportivo.

Lo ricordiamo con Non mi rompete, una delle più autentiche canzoni contro la guerra (e il lavoro) che siano mai state scritte e cantate.

Non mi svegliate, ve ne prego,
ma lasciate che io dorma questo sonno,
sia tranquillo da bambino
sia che puzzi del russare da ubriaco.

Perché volete disturbarmi
se io forse sto sognando un viaggio alato
sopra un carro senza ruote
trascinato dai cavalli del maestrale,
nel maestrale… in volo.

Un capolavoro del vecchio “Banco”, e proveniente per giunta da quell’album-monstre contro la guerra e per la libertà che è Io sono nato libero. Non a caso. Che cosa ci può essere più contro la guerra, la schiavitù del lavoro e i mille e mille servaggi imposti da una società capitalistica, del dormire? Il sonno come atto di ribellione: Non mi rompete! Andate voi a farvele tutte le vostre “attivissime” stronzate, ma non mi svegliate dai miei bellissimi sogni. Tanto il giorno arriverà, e la realtà che si mostra agli occhi fa soltanto piangere..

Non mi svegliate ve ne prego
ma lasciate che io dorma questo sonno,
c’è ancora tempo per il giorno
quando gli occhi si imbevono di pianto,
i miei occhi… di pianto.

Fin dagli esordi il Banco del Mutuo Soccorso si era distinto per accompagnare al suono unico del progressive italiano, che niente aveva da invidiare alle grandi band inglesi, testi impegnati e poetici. A cominciare dalla famosa R.I.P. inno instancabile contro le violenze e gli abusi della guerra che come spesso si dice non fa vincitori ma solo vinti. Guerra che catapulta il soldato in un vortice di sangue, senza che egli si ponga il perché stia uccidendo con tanta rabbia un suo fratello. Guerra che loda, guerra che incanta, guerra che glorifica…guerra bastarda che ti fa dimenticare la bellezza della vita, guerra maledetta che ti fa rimpiangere la bellezza della vita…guerra che non perdona.

Su cumuli di carni morte
hai eretto la tua gloria
ma il sangue che hai versato su te è ricaduto
la tua guerra è finita

vecchio soldato.

Ora si è seduto il vento
il tuo sguardo è rimasto appeso al cielo
sugli occhi c’è il sole
nel petto ti resta un pugnale

e tu no, non scaglierai mai più
la tua lancia per ferire l’orizzonte
per spingerti al di là
per scoprire ciò che solo Iddio sa

ma di te resterà soltanto
il dolore, il pianto che tu hai regalato
per spingerti al di là
per scoprire ciò che solo Iddio sa.

o la bellissima melodia e i virtuosismi di Dopo… niente è più lo stesso

Per troppo tempo ho avuto gli occhi nudi e il cuore in gola.
Eppure non era poca cosa la mia vita.
Cosa ho vinto, dov’è che ho vinto quando io
ora so che sono morto dentro
tra le mie rovine
Perdio! Ma che m’avete fatto a Stalingrado ?!

Difensori della patria, baluardi di libertà!
Lingue gonfie, pance piene non parlatemi di libertà
voi chiamate giusta guerra ciò che io stramaledico!!!
Dio ha chiamato a sé gli eroi, in paradiso vicino a Lui…
Ma l’odore dell’incenso non si sente nella trincea.
Il mio vero eroismo qui comincia, da questo fango.

Posted in In ricordo | Tagged Banco del Mutuo Soccorso, Francesco Di Giacomo, Mort au travail, Progressive

Quaranta galere fa

By Antiwar Songs Staff on 25 Febbraio 2014

muratejail

24 febbraio 1974: Quaranta galere fa. Durante una rivolta al carcere delle Murate, a Firenze, gli agenti sparano sui detenuti che si trovano sul tetto e uccidono un giovane di vent’anni in carcere per un furto d’auto: Giancarlo Del Padrone. Poche ore dopo, il Collettivo Víctor Jara scrive Le Murate. A quarant’anni di distanza, ricordiamo ancora con rabbia.

E, ventiquattro febbraio
E, settantaquattro febbraio
Sparano i poliziotti
Sparano alle Murate
Muore Giancarlo del Padrone

E non si respira più
E non ci si vede più
Si fan le barricate
Tutti lanciamo sassi
Contro gli scudi del potere

da Infoaut:

É il 1974 e nel carcere delle Murate di Firenze si vivono giorni di tensione: la riforma carceraria è stata molte volte promessa nel tentativo di mantenere il controllo del complesso, ma i detenuti sono stanchi dell’attesa ed è ormai chiaro a tutti che ciò che chiedono non può trovare alcun appoggio nelle autorità carcerarie.

Così il 24 Febbraio la rabbia esplode e in breve travolge tutte le zone del penitenziario; un gruppo di detenuti sale sul tetto in segno di protesta ma la repressione non tarda ad arrivare, brutale e folle: un agente di custodia spara una raffica di mitra, uccidendo il ventenne Giancarlo Del Padrone e ferendo altri quattro carcerati.

Ma l’episodio non intimidisce i detenuti, anzi è come benzina gettata sul fuoco della loro rabbia, che li spinge a rimanere sul tetto in numero sempre crescente.

Nel frattempo l’eco della rivolta è giunta all’esterno del complesso e molte persone si radunano sotto il carcere per assediarlo; si intonano cori di solidarietà e gli stracci insanguinati di Giancarlo e i feriti vengono gettati dal tetto per farne degli striscioni.

Lotta Continua dà indicazione di rompere l’assedio delle Murate ma nemmeno i suoi militanti vi si attengono, confermando la rottura dei rapporti di collaborazione tra l’avanguardia carceraria e la Commissione carceri di LC, una rottura che era nell’aria già dal Luglio dell’anno precedente.

Particolare è la composizione sociale fra i detenuti fiorentini: un proletariato che quotidianamente vive di espedienti e per cui il carcere rappresenta, prima o poi, una tappa quasi obbligata.

Non sono “batterie” organizzate, bensì piccoli artigiani della rapina che hanno fatto propria la convinzione di doversi riprendere autonomamente i propri bisogni.

La nottata di assedio si conclude con duri scontri tra polizia e manifestanti e con l’intero quartiere di Santa Croce invaso dal fumo dei lacrimogeni e dai rastrellamenti degli agenti.

Ma il problema delle condizioni di vita nel carcere non può più essere circoscritto alle celle delle Murate: la questione è stata posta e la notizia è destinata ad avere un forte impatto ideologico anche sull’esterno.

Posted in Canzoni | Tagged Chiara Riondino, David Riondino, galere, Murate

Per i 4 NO TAV accusati di terrorismo

By Antiwar Songs Staff on 19 Febbraio 2014

liberi_ChiaraClaudioNiccoloMattia

In queste settimane avete sentito parlare di loro. Sono le persone arrestate il 9 dicembre con l’accusa, tutta da dimostrare, di aver assaltato il cantiere Tav di Chiomonte. In quell’assalto è stato danneggiato un compressore, non c’è stato un solo ferito. Ma l’accusa è di terrorismo perché “in quel contesto” e con le loro azioni presunte “avrebbero potuto” creare panico nella popolazione e un grave danno al Paese. Quale? Un danno d’immagine. Ripetiamo: d’immagine. L’accusa si basa sulla potenzialità di quei comportamenti, ma non esistendo nel nostro ordinamento il reato di terrorismo colposo, l’imputazione è quella di terrorismo vero e volontario. Quello, per intenderci, a cui la memoria di tutti corre spontanea: le stragi degli anni ’70 e ’80, le bombe sui treni e nelle piazze e, di recente, in aeroporti, metropolitane, grattacieli. Il terrorismo contro persone ignare e inconsapevoli, che uccideva, che, appunto, terrorizzava l’intera popolazione. Al contrario i nostri figli, fratelli, sorelle hanno sempre avuto rispetto della vita degli altri. Sono persone generose, hanno idee, vogliono un mondo migliore e lottano per averlo. Si sono battuti contro ogni forma di razzismo, denunciando gli orrori nei Cie, per cui oggi ci si indigna, prima ancora che li scoprissero organi di stampa e opinione pubblica. Hanno creato spazi e momenti di confronto. Hanno scelto di difendere la vita di un territorio, non di terrorizzarne la popolazione. Tutti i valsusini ve lo diranno, come stanno continuando a fare attraverso i loro siti. E’ forse questa la popolazione che sarebbe terrorizzata? E può un compressore incendiato creare un grave danno al Paese?

Le persone arrestate stanno pagando lo scotto di un Paese in crisi di credibilità. Ed ecco allora che diventano all’improvviso terroristi per danno d’immagine con le stesse pene, pesantissime, di chi ha ucciso, di chi voleva uccidere. E’ un passaggio inaccettabile in una democrazia. Se vincesse questa tesi, da domani, chiunque contesterà una scelta fatta dall’alto potrebbe essere accusato delle stesse cose perché, in teoria, potrebbe mettere in cattiva luce il Paese, potrebbe essere accusato di provocare, potenzialmente, un danno d’immagine. E’ la libertà di tutti che è in pericolo. E non è una libertà da dare per scontata.

Per il reato di terrorismo non sono previsti gli arresti domiciliari ma la detenzione in regime di alta sicurezza che comporta l’isolamento, due ore d’aria al giorno, quattro ore di colloqui al mese. Le lettere tutte controllate, inviate alla procura, protocollate, arrivano a loro e a noi con estrema lentezza, oppure non arrivano affatto. Ora sono stati trasferiti in un altro carcere di Alta Sorveglianza, lontano dalla loro città di origine. Una distanza che li separa ancora di più dagli affetti delle loro famiglie e dei loro cari, con ulteriori incomprensibili vessazioni come la sospensione dei colloqui, il divieto di incontro e in alcuni casi l’isolamento totale. Tutto questo prima ancora di un processo, perché sono “pericolosi” grazie a un’interpretazione giudiziaria che non trova riscontro nei fatti.

Questa lettera si rivolge:

Ai giornali, alle Tv, ai mass media, perché recuperino il loro compito di informare, perché valutino tutti gli aspetti, perché trobino il coraggio di indignarsi di fronte al paradosso di una persona che rischia una condanna durissima non per aver trucidato qualcuno ma perché, secondo l’accusa, avrebbe danneggiato una macchina o sarebbe stato presente quando è stato fatto.

Agli intellettuali, perché facciano sentire la loro voce. Perché agiscano prima che il nostro Paese diventi un posto invivibile in cui chi si oppone, chi pensa che una grande opera debba servire ai cittadini e non a racimolare qualche spicciolo dall’Ue, sia considerato una ricchezza e non un terrorista.

Alla società intera e in particolare alle famiglie come le nostre che stanno crescendo con grande preoccupazione e fatica i propri figli in questo Paese, insegnando loro a non voltare lo sguardo, a restare vicini a chi è nel giusto e ha bisogno di noi.

Grazie.

I familiari di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò

Posted in Appelli | Tagged No TAV

Sweatshop

By Antiwar Songs Staff on 18 Febbraio 2014

Abolish_child_slavery

Al Capitale piacciono le camicie: che siano nere o brune quando ha bisogno del fascismo poliziotto, o che siano tanto belline quando c’è da rendere schiavi nelle fabbriche che producono per la “moda”. Ce lo racconta esattamente, dalla sua breve e triste vita, Morris Rosenfeld, ebreo, immigrato, schiavo in uno Sweatshop newyorkese nel 1893.

Qui in officina, le macchine fanno un rumore così d’inferno
Che, spesso, nel frastuono dimentico chi sono;
Mi perdo nel rumore terrificante, e mi sento
Come vuoto dentro: divento una macchina.
Lavoro, lavoro e lavoro, senza sosta.
Si produce e fabbrica, fabbrica e produce all’infinito:
Per che cosa? E per chi? Non lo so e non lo chiedo,
Una macchina, come può mai pensare?…

Il testo in yiddish di questa canzone, faticosamente ricostruito per “dare voce a chi non l’ha più”, è stato scritto più di cento anni fa, ma al giorno d’oggi è cambiato poi molto? Una volta tradotto il testo ecco che appaiono le ombre di Morris Rosenfeld, che viveva di persona quel che scriveva, e dei suoi compagni di schiavitù; e appaiono le ombre degli schiavi di oggi, delle fabbriche che crollano in India e nel Bangladesh producendo inutile merda per il nostro mondo, dei lavoratori cinesi che bruciano ammassati in una fabbrica a Prato.

L’orologio in officina non si ferma mai,
Indica tutto, ticchetta tutto, tiene sempre svegli;
Mi ha detto uno, una volta, che cosa vuol dire
Quel suo indicare e tener svegli: c’è un motivo preciso.
Mi ricordo qualcosa, quasi fosse un sogno:
L’orologio risvegliava in me la vita e i sensi
E ancora qualcosa – ma non ricordo più, non chiedetemelo!
Non lo so, non lo so, io sono una macchina!…

Nella foto: due ragazze con la scritta “Abolire la schiavitù infantile” in inglese e in yiddish. La foto risale probabilmente al corteo del 1 maggio 1909 a New York.

Posted in Canzoni | Tagged Sweatshop, Yiddish | 1 Response

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