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Marco Valdo M.I.: Ora e sempre Resistenza

By Antiwar Songs Staff on 21 Settembre 2013

Chi segue il nostro sito si sarà spesso e volentieri imbattuto nelle belle traduzioni francesi e nei commenti di Marco Valdo M.I., spesso sotto forma di dialogo con l’asino Lucien (Lucien l’l’âne). Marco Valdo M.I. è certo un personaggio letterario, ma anche una persona in carne e ossa a cui il sito delle Canzoni contro la guerra deve molto. Lo presentiamo qui brevemente, a partire dalla sua “biografia provvisoria”:

Marco Valdo M.I. è una creatura letteraria, un eteronimo. È figlio delle opere di Carlo Levi e di Italo Calvino. Ha come maestri : dal ramo inglese Laurence Sterne, che per poco non fu arcivescovo di York, in un paese dove si diventa vescovi o arcivescovi di padre in figlio, dal ramo dell’Europa centrale, Joseph Roth e Franz Kafka, da parte spagnola si dice parente di Cervantes, in Lusitania di José Saramago, nell’Antichità, troviamo sue ascendenze in Lucio Apuleio di Madaura e infine Alexandre Vialatte per il ramo francese.

Come indica il suo nome ha una forte ascendenza nella persona di Valdo di Lione (1140-1206) che fondò la Fratellanza dei Poveri di Lione e che ispirò lo sviluppo della Chiesa valdese.

Non si sa molto della sua gioventù e la sua prima apparizione pubblica risale al 2005. In quel periodo rivendica il titolo di M.I.: manovale intelletuale, cioè, come il manovale Marcovaldo che spazzava il cortile della fabbrica, Marco Valdo M.I. spazza le idee e le parole in fondo al cortile. Saluta con un cenno della testa chi gli passa vicino. Sostiene di essere figlio di resistente, e di esserlo anche lui.
Il suo motto è: Ora e sempre Resistenza!

A questa biografia provvisoria aggiungiamo che Marco Valdo M.I. ha curato in collaborazione con la Fondazione Carlo Levi la mostra «Carlo Levi antifasciste italien – Peintre et écrivain» al museo di Mariemont in Belgo, e ha scritto un intero libro che serve da guida alla mostra ma che finisce con presentare l’intera opera dello scrittore e pittore antifascista torinese. Nella foto in alto lo vediamo in quell’occasione commentare un ritratto di Carlo Rosselli.

Per il nostro sito Marco Valdo ha scritto centinaia di canzoni, molte delle quali aspettano ancora i musicisti (perché  per Marco Valdo i musicisti sono in ritardo) e migliaia di traduzioni e commenti.

Giro d'Italia

Nel suo ciclo di canzoni Dachau Express illustrato da Nicolas De Cicco ricostruisce la storia di Giuseppe Porcu, giovane resistente sardo che diserta per non servire il fascismo. Ha scritto canzoni ispirate dalle opere di Carlo Levi e Günter Grass, molte parodie e varie canzoni originali.

Lo trovate anche sul suo blog “Canzones“.

Posted in Artisti | Tagged Carlo Levi, Marco Valdo M.I. | 2 Responses

Tutta colpa degli ebrei? La tecnica del capro espiatorio

By Antiwar Songs Staff on 20 Settembre 2013

Una canzone satirica, probabilmente una delle più famose in assoluto in lingua tedesca: An allem sind die Juden schuld (“È tutta colpa degli ebrei”). Non soltanto famosa, ma anche decisamente particolare sotto ogni suo aspetto; a cominciare dal suo autore, Friedrich Hollaender (1896-1976). Non capita spesso che chi è noto (e lo è rimasto) per essere un musicista di valore venga ricordato per aver scritto il testo di una canzone la cui musica è ripresa in realtà da un’opera lirica, nella fattispecie la Carmen di Georges Bizet; ma è il caso proprio di questa canzone, che Hollaender inserì nella rivista musicale Spuk in der Villa Stern (“Fantasmi a Villa Stern”), rappresentata per la prima volta al cabaret che gestiva a Berlino, il Tingel-Tangel-Theater, nel settembre del 1931 (la canzone fu eseguita per la prima volta da Annemarie Haase).

Friedrich Hollaender era nato a Londra da genitori ebrei tedeschi, ed apparteneva ad una famiglia di musicisti; ma musicisti parecchio “sui generis”. Il padre, Victor Hollaender, era direttore dell’orchestra del famoso circo Barnum; lo zio, Gustav Hollaender, era invece direttore del Conservatorio Stern di Berlino. Tornato in Germania all’età di tre anni, Friedrich Hollaender divenne anch’esso un musicista, e raggiunge la notorietà internazionale componendo, nel 1930, la colonna sonora di uno dei film più famosi della storia, L’angelo azzurro di Josef von Sternberg, con le sue canzoni cantate da Marlene Dietrich. Il film che è il simbolo stesso della Repubblica di Weimar, interpretato da una fiera antinazista e musicato da un ebreo (il protagonista maschile nonché primo premio Oscar della storia, Emil Jannings, flirtò invece poi col nazismo). 1930, 1931: gli ultimi anni di Weimar, l’irripetibile e liberissima atmosfera di quella Germania che stava scivolando a gran passi verso il baratro a passo di danza e nei fumi dei cabaret. In quanto ebreo, Friedrich Hollaender stava vivendo sulla propria pelle quell’atmosfera dove Hitler si accingeva a prendere il potere con il preciso intento di spazzare via la “corrotta e infernale” Repubblica di Weimar. L’antisemitismo tedesco, del resto, marciava a pieno regime, e l’interesse storico di questa canzone satirica risiede anche e soprattutto nel suo valore di testimonianza in un periodo in cui, in Germania, era comunque ancora permesso esprimersi liberamente da parte degli ebrei che vedevano montare la marea inarrestabile.

Hollaender scrisse quindi questa canzone usando un’arma particolarmente invisa ai nazisti e agli antisemiti tedeschi tutti: quella del ridicolo. Scelse, caricaturandola, una musica famosissima (quella della Carmen di Bizet, ed in particolare la sua aria più conosciuta, la Habanera), impiantandovi sopra un testo dove l’immagine antisemita dell’ebreo, considerato come alla base di ogni male, malvagità e disgrazia del mondo, è messa alla berlina mediante ogni sorta di esagerazione e elevando così all’assurdo le più tipiche argomentazioni antisemite. Gli antisemiti, e non soltanto i militanti nazisti, davano la “colpa agli ebrei” per ogni cosa, senza addurre ragioni o giustificando il tutto con argomenti impossibili da provare fino ad arrivare alla semplice colpa tautologica: “è tutta colpa degli ebrei perché è colpa loro”.

Se il telefono è occupato,
Se la vasca da bagno perde,
Se ti sbagliano la dichiarazione dei redditi,
Se il würstel sa di sapone,
Se la domenica manca il pane,
Se il Principe di Galles è un finocchio,
Se la notte cigolano i mobili,
Se il tuo cane se ne sta lì impalato:

È tutta colpa degli ebrei!
Degli ebrei è tutta la colpa!
Come? Come mai è tutta colpa loro?
Baby, non capisci, è colpa loro!
Ma in culo ci vada lei! È tutta colpa loro!
È proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei!
Se non ci credi, ti dico che è colpa loro,
È proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei!
Cazzo!

Agli inizi degli anni ’30, del resto, nelle sue riviste musicali Hollaender ci andava giù duro; nella stessa rivista satirica Fantasmi a Villa Stern, della quale questa canzone fa parte, fa dire ad esempio al Fantasma stesso, al momento della sua apparizione: Huhu! Tutù! Sono un piccolo Hitler e mordo senza preavviso! Vi metterò tutti in quel dannato sacco! Huhu! Hihi! Haha! Baubau! Al Barone di Münchhausen, che pure compare tra i personaggi, Hollaender fa dire: Bugie! Bugie! Bugie! Bugie! Bugie! Tutto quel che l’uomo ha visto, sono bugie; però le racconta talmente bene!, e così via. La canzone consta invece di strofe contenenti, in staccato, tutte le principali accuse contro i “giudei”, colpevoli, ad esempio, di tutte le catastrofi mondiali (la guerra mondiale, la rivoluzione russa del ’17 e la crisi economica del dopoguerra). Da queste accuse, che venivano formulate autenticamente e quotidianamente, si passa a quelle totalmente ridicole che formano, inutile dirlo, la vera forza dirompente della canzone. E’ colpa degli ebrei, ad esempio, che Greta Garbo abbia un dente cariato, oppure che la neve sia “terribilmente bianca e, per giunta, fredda”, oppure che il fuoco bruci, che gli alberi stiano nel bosco o che una cipolla non sia una rosa. Si capisce così che accuse del genere non hanno certamente minor fondamento di quelle più “serie”, come del resto avviene oggigiorno (“gli immigrati rubano il lavoro agli italiani”, “gli zingari rapiscono i bambini”, “i rumeni stuprano le donne perché è nella loro cultura”). La canzone, quindi, è un perfetto simbolo della stupidità universale di massa, principale brodo di coltura di tutti i fascismi, i razzismi e quant’altro.

La canzone fa parte di quella dozzina scarsa, tra quelle pubblicate tra il 1930 e il 1936, dove viene menzionata l’omosessualità; in una delle strofe, è quindi colpa degli ebrei se il Principe di Galles è un “finocchio” (uso qui il termine politicamente scorretto traducendo alla lettera il tedesco “schwul”). Hollaender si riferiva a Edoardo VIII d’Inghilterra, di cui era nota l’omosessualità già dal 1926 quando se ne era occupata la rivista tedesca Freundschaftblatt (“Rivista dell’Amicizia”). La cosa assolutamente da notare è che la rivista in questione era una rivista gay: nella Germania di Weimar la pubblicazione era libera. Va da sé che la canzone di Hollaender divenne un successo clamoroso, nonché una sorta di inno antinazista in un momento in cui, con le elezioni del ’30, l’insignificante partitino di Hitler era diventato la seconda forza del Parlamento. La canzone fu affidata a Annemarie Haase, anch’essa di origine ebrea, la quale, data la melodia, in funzione ancor più satirica la interpretò con un finto accento “spagnoleggiante”. Pur essendo ovviamente il testo di Hollaender totalmente diverso dal libretto della Carmen, la relazione tra i due testi è più stretta di quel che sembra: nel testo dell’aria lirica, infatti, si afferma che “tutto l’amore proviene dai gitani”, mentre nella canzone tutto il male proviene dagli ebrei.

Secondo il musicologo Dietmar Klenke, la canzone di Hollaender è un perfetto esempio del meccanismo della cosiddetta “proiezione del capro espiatorio”; parlando dell’effetto che fece la satira di Hollaender, lo stesso Klenke afferma che “i contemporanei, durante l’epoca di Weimar, associavano la melodia al mondo dei gitani con un testo in cui una giovane gitana si esprime in modo amorale sul tema della sessualità. Mettendo la canzone in bocca a un nazista, il compositore lo ridicolizza agli occhi dei contemporanei colti. La melodia inappropriata aiuta a considerare le opinioni naziste come immature e infondate. La forza provocatoria della canzone può essere ancor meglio compresa tenendo conto del clima di scontro e ostilità tra le varie componenti durante la Grande Depressione”. [RV]

Posted in Canzoni | Tagged antisemitismo, satira

Per Killah P. assassinato dai fascisti di Alba Dorata

By Antiwar Songs Staff on 19 Settembre 2013

killahp

E così ce l’hanno fatta a spegnere un’altra voce antifascista. Pavlos Fyssas era uno dei più noti rapper greci, “Killah P” (“Killah” sta per “killer”), nonché militante nel gruppo antifascista di sinistra Ανταρσία (“Resistenza”, ma con un termine che riporta agli αντάρτες, i partigiani greci della resistenza contro l’occupazione nazifascista e nella successiva guerra civile). Aveva pubblicato numerosi album, tra i quali Μια μαλακία και μισή (“Una stronzata e mezzo”, ma anche, volendo, “Una sega e mezzo”) dal quale è tratta questa canzone Να με θυμάσαι (Ricordati di me) che, a due giorni dal suo assassinio, presentiamo incompleta nel testo. Solo questo (la seconda strofa) abbiamo potuto per ora reperire in rete, ma le ricerche continuano di questa e altre canzoni. E’ il nostro modo perché la parola “solidarietà” non resti, appunto, una parola; far sì che le parole e le canzoni di un antifascista ammazzato in quanto tale siano conosciute. E questo pur breve brano, un frammento di una canzone, ci fa capire meglio come mai Killah P sia stato assassinato. Leggendo il testo di quest’altra canzone, invece, non si può non avere il senso come di una tragica profezia da parte di Killah P.:

E quelli che mi hanno minacciato con catene roventi
voglio che sappiano che non avrò paura.
Che vengano a trovarmi quassù in cima alla montagna,
li sto aspettando e non avrò paura.

Mi hanno detto di non fare sogni pazzi
e di non osare di guardare le stelle,
ma non li ho mai presi sul serio,
ho preso il mondo intero nelle mie braccia.

Non piangerò e non avrò paura.
Non lascerò che rubino i miei sogni,
io volo libero, lassù in alto, altissimo
e loro invidiano le mie ali fiere e indipendenti.

Σιγά μην κλάψω, σιγά μη φοβηθώ

Nelle prime ore di mercoledì 18 settembre 2013, Pavlos Fyssas, 34 anni, è stato provocato da una persona in un bar di Amfiali, nel municipio di Keratsini al Pireo. I media riportano che la discussione sarebbe iniziata su questioni calcistiche, per poi proseguire su questioni politiche; qui è avvenuto l’assassinio. Tutto però lascia credere che Killah P, noto per la sua militanza, abbia subito un’azione premeditata da una squadraccia fascista: l’assassino, innanzitutto, è un 45enne che ha dichiarato subito dopo l’arresto di essere membro di “Alba Dorata” (Χρυσή Αυγή), il partito neonazista greco che, sguazzando nella devastante crisi greca, è riuscito ad ottenere sempre più consensi e seggi in parlamento. All’assassinio di Killah P hanno partecipato, secondo le testimonianze, da cinque a quindici altre persone. Una squadraccia vera e propria, quindi: Pavlos Fyssas è stato accoltellato a morte sotto gli occhi delle unità DIAS (la polizia in moto). Un omicidio non casuale, programmato, che arriva proprio nel momento in cui i movimenti riprendevano slancio, con lo sciopero a oltranza dei professori (adesioni sopra il 90%) e lo sciopero generale di 48 ore (oggi e domani) convocato contro gli ennesimi licenziamenti, di circa 25.000 lavoratori. Già stamattina ci sono stati i primi assalti alle sedi del partito nazista. A Creta, decine di antifascisti hanno assaltato gli uffici di Alba Dorata e si sono scontrati con la polizia. A Patrasso, la sede del partito è stata data alle fiamme. Durante gli scontri un uomo ha minacciato con un’arma i manifestanti. Dopo il suo arresto si è scoperto che si tratta di un ufficiale della marina italiana.

Un delitto infame, ma anche un delitto ampiamente annunciato, perché al di là di luogo, circostanza e identità della vittima era purtroppo soltanto questione di tempo perché l’escalation di violenze da parte del partito neonazista greco, Alba Dorata, sfociasse nell’omicidio. Aggressioni a migranti, gay e militanti della sinistra sono ormai all’ordine del giorno e soltanto una settimana fa è stata sfiorata la tragedia, allorché un gruppo di militanti del KKE (partito comunista greco) è stato aggredito a freddo e a suon di sprangate.

D’altronde, i neonazisti sono galvanizzati dal consenso che riescono a canalizzare in una Grecia devastata dalle politiche d’austerità della Troika (siedono in Parlamento e i sondaggi li danno al 13% delle intenzioni di voto) e dalle ampie complicità di cui godono all’interno della polizia greca. Insomma, sono un fenomeno in preoccupante crescita, come ci ricorda anche l’ottima inchiesta di Leonardo Bianchi, Nazisti sull’orlo del potere. Il caso Alba Dorata, pubblicata pochi giorni fa su MicroMega. [RV]

Posted in Artisti, Canzoni | Tagged Alba Dorata, antifascismo, Grecia, Killah P

Héctor Germán Oesterheld e l’Eternauta

By Antiwar Songs Staff on 18 Settembre 2013

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Una delle opere più belle dedicate alla libertà e alla resistenza è un fumetto: l’Eternauta. Non a caso uscì negli anni ’50, a ridosso dell’esperienza europea di resistenza al nazismo. La fantascienza di matrice americana è stata identificata come una sublimazione della paranoia collettiva degli Stati Uniti, in cui l’Alieno era un alias del comunismo. L’Eternauta, opera argentina, si colloca invece su un altro versante; l’invasione aliena è solamente uno scenario, entro il quale sono protagonisti gli uomini. L’umanità, sull’orlo del disastro, riesce a dare il meglio di sé nel tentativo di resistere all’invasore.

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Questa storia di fantascienza è stata vista come una sorta di profezia, in cui lo sceneggiatore Héctor Oesterheld precorreva quello che sarebbe stato il triste destino del suo paese: la dittatura autoritaria di Jorge Videla, gli stadi usati come campi di concentramento, i trentamila desaparecidos. Forse proprio per questa sua lungimiranza, Oesterheld fu uno di quei trentamila. E a lui, e al concetto di libertà, Rocco Rosignoli ha dedicato la canzone Oesterheld, contenuta nel cd Testuggini.

E mentre ancora manchi all’appello
con trentamila dopo la bufera
su Buenos Aires cade la neve:
da novant’anni non si vedeva.

Posted in Canzoni | Tagged Argentina, Eternauta, Héctor Oesterheld, Libertà, Rocco Rosignoli

Sólo le pido a Dios e una cover che non ti aspetti

By Antiwar Songs Staff on 17 Settembre 2013

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Scrive Mercedes Sosa, storica interprete di Sólo le pido a Dios, di Leon Gieco:

Sólo le pido a Dios, di León Gieco, è la canzone che non passerà mai di moda: è un tema di sempre e per sempre e un successo internazionale con parole che dobbiamo tutti tenere molto presenti, soprattutto quando dicono: solamente chiedo a Dio che la guerra non mi sia indifferente.
Nelle guerre tutti perdono. Cosa è successo nella guerra delle Malvine, in Vietnam, in Iraq? In tutti i conflitti non ci sono vincitori né vinti; tutti perdono

ed è lo stesso autore a spiegare il messaggio di questa bellissima canzone:

Credo che dio sia nella gente… dio lo inventiamo tra tutti noi… per questo la canzone “Solamente chiedo a Dio” sta a significare solamente chiedo alla gente… che non ci sia indifferente la guerra, che non ci sia indifferente la gente che deve andarsene dai paesi latinoamericani per la repressione militare… chiedo a dio o alla gente che la vita non mi sia indifferente…

Bruce Springsteen

E’ di oggi la notizia che Bruce Springsteen, in chiusura della tappa argentina del suo tour ha voluto dedicare al popolo argentino, in un video pubblicato ufficialmente, la sua interpretazione di questa storica canzone.

There is a song I planned to sing at our Buenos Aires concert that I learned from the wonderful Argentine singer, Mercedes Sosa. I wasn’t quite prepared that evening so I’m glad to send this out now to all of our friends and fans in Argentina.

– Bruce Springsteen

Solo domando a Dio
che la guerra non mi sia indifferente,
è un mostro feroce che calpesta ferocemente
tutta la povera innocenza della gente

Testo e traduzioni

Posted in Canzoni, CCG Fondamentali | Tagged Argentina, Bruce Springsteen, Leon Gieco, Mercedes Sosa

La lettera di Chaim

By Antiwar Songs Staff on 16 Settembre 2013

Memoriale

Chaim, un ragazzo un ragazzo di 14 anni rinchiuso nel campo di sterminio di Pustków scrive una lettera ai genitori. Chaim lancia la lettera, scritta in yiddish, oltre il filo spinato del campo;  fortunosamente viene raccolta e conservata fino alla liberazione. Chaim fu ucciso nel 1944. La lettera viene raccolta nel volume “Lettere dei condannati a morte della Resistenza Europea”. La trova Ivan dela Mea e la trasforma una toccante canzone, forse una delle più belle dedicate alla Shoah in lingua italiana. Era il 1965, solo un anno prima Francesco Guccini aveva scritto “La canzone del bambino nel vento” (Auschwitz).

Se il cielo fosse bianco di carta
e tutti i mari neri d’inchiostro
non saprei dire a voi, miei cari,
quanta tristezza ho in fondo al cuore,
qual è il pianto, qual è il dolore
intorno a me.

“Se il cielo fosse bianco di carta…” è un’espressione derivante dal Talmud. In ebraico, il nome Chaìm significa “vita”[חיים].

Recentemente la canzone è stata riproposta dal gruppo goriziano  ‘Zuf de Žur.

Senza nulla togliere né alla testimonianza che esprime né tantomeno alla canzone che ne è stata tratta, bisogna dire che l’autenticità della lettera di Chaim è stata messa da alcuni in dubbio. E’ un problema che sembra investire tutte le famose “Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea”; Clemente Galligani, però, nel suo approfondito studio L’Europa e il mondo nella tormenta. Guerra, nazifascismo, collaborazionismo, resistenza (Armando Editore) tende a considerarla “spontanea e autentica”.

Testo completo e traduzioni

 

Posted in Canzoni | Tagged Ivan della Mea, Shoah

Yugo 45: dove è finito tutto quanto un paese?

By Antiwar Songs Staff on 15 Settembre 2013

Yugo 1999

Il nome della band, Zabranjeno Pušenje, significa “Vietato Fumare” ma era naturalmente ironico perché, da buoni bosniaci, fumavano come turchi… Dopo la guerra in Bosnia il gruppo si è diviso in due. Una parte si è trasferita a Belgrado e si è unita al regista Emir Kusturica (che aveva occasionalmente suonato il basso con la band originale) per formare la “No Smoking Orchestra”, un gruppo in stile Bregović che ha fatto storcere il naso ai fan della prim’ora. Gli altri sono rimasti fedeli al sound rock originale e nel 1999 pubblicano questa canzone intitolata Yugo 45.

Dicono che sono la meraviglia del mondo le piramidi africane
Dicono che sono la meraviglia del mondo i grandi fiumi indiani
Ma nessuna meraviglia era grande come
quando papà ha parcheggiato la Yugo 45 nel cortile
Si è raccolto tutto il vicinato e metà parentado
L’altra metà non poteva, non poteva dal disgusto
La mamma ha preparato qualcosa da masticare, ha cotto un po’ di hurmašice
Papà è andato al Granap a prendere altra roba

Quelli erano bei tempi
Tutto a credito, tutto in fiducia, che roba…
Versa un po’ di brodo in macchina, e via a Trieste a prendere i jeans
Quelli erano bei tempi
un po’ a fare picnic, un po’ al mare
In casa tante risate
E in cortile la Yugo 45

La “Yugo 45” era un modello di successo della Zastava, al pari della Zastava 750 “Fića”, la famosa copia della Fiat 600. Era insomma uno dei simboli più famosi della Jugoslavia, e rappresenta quindi in questa canzone tutto un periodo, quello appunto dei migliori anni della vecchia Jugoslavia.
La canzone è pregna di significato, perché in maniera non palese (e quindi intelligente ed efficace) ricorda uno stile di vita e fatti quotidiani che accomunavano tutti gli jugoslavi, quindi quella cultura jugoslava che è effettivamente esistita, e che legava nelle esperienze serbi, croati e bosniaci.

Nella prima strofa, quando i vicini si raccolgono a casa del protagonista per vedere la nuova macchina, la madre prepara da mangiare per tutti (l’ospitalità era e resta molto importante nei Balcani): prepara delle hurmašice, che sono tipici dolcetti da forno bosniaci, biscotti inzuppati in un denso e dolcissimo sciroppo di acqua e zucchero (sono dolci che come la baklava derivano dalla tradizione turca e orientale). L’altra spiegazione d’obbligo riguarda il termine “granap”: i granap (GRAdsko NAbavno Preduzeće – Ditta Fornitrice Cittadina), erano negozi collettivi istituiti nel dopoguerra nei quali si comprava di tutto, ma con gli anni si sono divisi e confluiti in altre realtà, scomparendo, ma rimanendo di fatto nel gergo quotidiano: “andare al granap” significava semplicemente andare a fare la spesa quotidiana spiccia, insomma mandare i figli piccoli a comprare pane e latte.

Nella seconda strofa si accentua il fattore del benessere economico, e della possibilità di viaggiare oltre confine liberamente (la Jugoslavia era l’unico paese dell’Est che permetteva il libero transito). Era prassi comune quella di oltrepassare il confine per fare shopping in Italia, soprattutto in vestiti e accessori: dal punto di vista dei consumi e della moda la Jugoslavia era un paese occidentale.

Nella terza strofa i nomi Franjo, Momo, Mirso non sono scelti a caso: rispettivamente sono nomi tipici croato, serbo e bosniaco (il fatto che Mirso sia lo zio indica che il cantante è bosgnacco, ossia bosniaco mussulmano). Il fatto che tutti e tre questi personaggi guidassero la stessa macchina indifferentemente è significativo.

Il video stesso di questa canzone, che segue passo passo la storia narrata, è molto eloquente: dalla fine degli anni ’70 agli anni ’90, attraverso la tv ripercorre le vicende che hanno segnato la Jugoslavia. C’è una vena ironica, come quando il padre del cantante viene invitato a Brioni (residenza estiva di Tito) dalla moglie del Maresciallo, Jovanka, per suonare, e nell’accentuare pose e caricature dello jugoslavo medio (nei gesti, nei vestiti di una borghesia benestante, ma fondamentalmente molto comunitaria e bonacciona). L’inquadratura finale su una discarica di macchine è molto eloquente: è dove, insieme a una Yugo 45, è finito tutto quanto un paese.

Siamo scappati via una mattina con giusto due sacchetti di plastica
Attraverso via Lenin e poi giù per Via Lubiana
Oggi va molto meglio, nuova città e nuovo appartamento
Papà è diventato un pezzo grosso, un ministro cantonale
Ma io ho in testa sempre quella stessa immagine, lo stesso flash
Vecchia casa, vecchio cortile, e lì dentro la Yugo 45
Ma quella stessa immagine ancora resta, lo stesso flash
Vecchia casa, vecchio cortile, e lì dentro la Yugo 45

Introduzione alla canzone a cura del nostro amico e collaboratore Filip Stefanović

Posted in Canzoni | Tagged Jugoslavia, Zabranjeno Pušenje

Sidone – la fine civile e culturale di un piccolo paese

By Antiwar Songs Staff on 14 Settembre 2013

PAR114740

e gli occhi dei soldati cani arrabbiati
con la schiuma alla bocca
cacciatori di agnelli
a inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico
non gli ha spento la voglia
e dopo il ferro in gola i ferri della prigione
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
perché di nostro dalla pianura al molo
non possa più crescere albero né spiga né figlio

Sidùn dall’album in genovese “Creuza de mä” è uno dei capolavori di Fabrizio De André dedicato alla città di Sidone in libano, teatro della guerra civile che sconvolse il Libano, campo di battaglia di Siria e Israele.

«Certo, navigando non è che si incontrino soltanto Jamine o tavole imbandite con gatti in salmì spacciati per conigli selvatici, come si dice nella canzone Creuza de mä. Ci si può trovare anche di fronte alla tragedia, magari alla tragedia altrui, anche se condivisa, in quanto fratelli o figli della stessa cultura.

È il caso di Sidone, Sidùn in genovese. Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all’uso delle lettere dell’alfabeto anche l’invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l’attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz’età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grasse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza.

La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.»

Fabrizio De André, intervista alla trasmissione “Mixer” (1984)

Nel 2004 Mauro Pagani (autore delle musiche dello storico album di De André) ha reinterpretato la canzone facendola cantare a Mouna Amari in arabo
Emil Zhrian in ebraico.

Posted in Canzoni | Tagged Fabrizio De André, Libano, Mauro Pagani, Palestina

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