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1968: Primavera di Praga

By Antiwar Songs Staff on 14 Settembre 2013

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Sono i tempi della contestazione, della strage di Piazza Fontana con l’avvio della “strategia della tensione”, dell'”autunno caldo” del 1969, del tentativo di golpe fascista da parte del repubblichino Junio Valerio Borghese (8 dicembre 1970). Inutile ricordare quello che sta accadendo nel mondo, dalla guerra nel Vietnam in pieno svolgimento al Maggio Francese. Truppe del patto di Varsavia a Praga nell’ agosto 1968. È in questi anni di crisi, che si inserisce l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, per soffocare l’esperimento di “socialismo dal volto umano” (in pratica una vera e propria liberalizzazione e democratizzazione della vita politica) portata avanti dai dirigenti comunisti di quel paese a partire dalla fine del 1967, in primis da Alexander Dubček (che, per inciso, non era praghese ma slovacco di Bratislava). Tale esperimento, che fu presto chiamato la “Primavera di Praga”, spazzò via in pochi mesi la stagnazione ed il conformismo tipici dei paesi socialisti del periodo brezhneviano: Praga era veramente ridiventata la “mitica” città mitteleuropea con la sua vita culturale vivacissima, la sua ironia (cui non è certo estraneo il retaggio ebraico) ed i suoi celebrati misteri. Come terminò tale esperimento lo sappiamo più o meno tutti: fra il 20 ed il 21 agosto 1968 i carri armati sovietici e di altri paesi del Patto di Varsavia invasero il paese per “ristabilire l’ordine”. Dubček per un po’ fu mantenuto nominalmente a capo del Partito, poi fu sostituito dal ligio Gustav Husák. Come racconta Milan Kundera, i primi tempi dopo l’invasione furono un periodo di “fibrillazione”: tutti si sentivano in qualche modo coinvolti, dal podista Emil Zátopek che faceva la staffetta per portare messaggi nella città invasa (i cui cittadini avevano rimosso le targhe stradali in una notte per disorientare gli invasori), alle ragazze che esibivano davanti ai carristi russi delle minigonne da capogiro, ai professionisti (medici, avvocati, ingegneri) che, ridotti spesso a semplici impiegati (Dubček stesso si adattò a fare il giardiniere), venivano ancora clandestinamente consultati dai propri clienti. A tutto questo seguirono il grigiore e la stagnazione di ogni “normalizzazione”.

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La sera del 16 gennaio 1969 un giovane studente di filosofia praghese, Jan Palach (in realtà era nato a Všetaty l’11 agosto 1948) si recò in Piazza San Venceslao. Teneva nascosta nel cappotto una bottiglia piena di benzina. Proprio all’inizio della grande piazza, davanti al Museo, con calma si tolse il cappotto, si versò addosso la benzina e si diede fuoco, senza un grido. Quando gli chiesero chi gli avesse fatto una cosa del genere, Jan rispose semplicemente: “Sono stato io”. Non disse altro. Accorsero immediatamente gli agenti della Bezpecnost’ e il ragazzo fu trasportato in ospedale, dove morì poco dopo. Il giorno dopo un trafiletto di poche righe avvertiva dell’ “insano gesto di uno squilibrato”, ma fu subito a tutti chiaro quale significato avesse il gesto disperato di Ján Pálach. I suoi funerali furono seguiti da migliaia di persone (circa 600.000 arrivati da tutto il paese) in silenzio, proprio come si racconta nella canzone di Francesco Guccini.

Dimmi chi era che il corpo portava,
la città intera che lo accompagnava:
la città intera che muta lanciava
una speranza nel cielo di Praga.

Il punto dove Jan Palach si diede fuoco è stato sempre coperto di fiori. Prima del 1989, delle “solerti” mani provvedevano a rimuoverli ogni giorno; adesso vi sorge una piccola lapide con la foto del ragazzo. Nessuno toglie più i fiori, ma ce ne sono molti meno di prima.

“Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zparvy (il giornale delle forze d’occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà”.

Il gesto di Jan Palach non rimase isolato: almeno altri sette studenti, tra cui il suo amico Jan Zajíc, seguirono il suo esempio. In realtà Palach non era stato il primo. Già nel settembre 1968 l’ex membro dell’esercito di liberazione polacco Ryszard Siwiec (1909-1968) si era immolato per protestare contro l’invasione della Cecoslovacchia (a cui avevano partecipato anche truppe polacche). Siwiec compì questo gesto allo stadio di Varsavia in occasione della sagra del raccolto. Nonostante il suo suicidio fosse ripreso da una telecamera e tutto fosse avvenuto alla presenza dei capi del partito comunista polacco e di moltissimi spettatori, il suo gesto non ebbe riscontro nei mezzi di comunicazione di massa e il suo nome rimase pressoché sconosciuto. In pochi si resero conto di ciò che egli avesse voluto ottenere con il suo sacrificio. Solo dopo la caduta del regime gli fu dedicato un film documentario girato dal regista polacco Maciej Drygas (Usłyszcie mój krzyk – Udite il mio grido) e gli furono conferite onorificenze ceche, slovacche e polacche.

In Cecoslovacchia la canzone Modlitba pro Martu (La preghiera per Marta) di Marta Kubišová, composta nel periodo immediatamente precedente alla Primavera di Praga, divenne simbolo della resistenza all’invasione sovietica.

Marta Kubisova

Il giorno che fu programmata la registrazione della canzone, Brabec (l’autore del testo) portava il testo nello studio dove lo stava aspettando Marta Kubišová, ma durante il tragitto la sua auto fu danneggiata dai soldati sovietici e non gli fu possibile raggiungere il posto. Dettò quindi il testo alla cantante per telefono. Marta riuscì a trasportare la registrazione nella sede della radio cecoslovacca. Originariamente la canzone fu destinata per una puntata della serie televisiva Píseň pro Rudolfa III. (Una canzone per Rodolfo III). La puntata però andò in onda solo un anno dopo, e durante la scena conclusiva accompagnata dalla canzone dovette apparire un sottotitolo con la spiegazione che essa non avesse nulla a che vedere con i fatti di attualità. Negli anni 70, nel periodo della cosiddetta normalizzazione, la canzone fu del tutto vietata, come anche l’attività artistica della sua interprete.

La pace resti d’ora in avanti con questa terra.
L’ira, l’invidia, il rancore, la paura e la discordia –
– essi svaniscano, ormai svaniscano
ora che il tuo perduto potere sui tuoi affari
ritornerà da te, popolo, ritornerà da te.

Nel 1989, con la caduta del regime totalitario, la canzone ancora una volta accompagnò le vicende politiche e divenne simbolo della rivoluzione di velluto. Marta che in quei giorni tornò subito attiva, la cantò dal vivo a Praga, nella piana di Letná, davanti a centinaia di migliaia di spettatori

Tutte le canzoni sulla Primavera di Praga

Posted in Percorsi | Tagged Francesco Guccini, Jan Palach, Marta Kubišová, Primavera di Praga

Cantiere d’estate

By Antiwar Songs Staff on 13 Settembre 2013

Nel 1981 i Malicorne di Gabriel Yacoub sono in crisi profonda al loro interno, e in via di separazione. Il gruppo ha alle spalle album interi dove le canzoni tradizionali francesi più antiche sono state legate al più raffinato rock psichedelico e progressive; un’operazione particolare che ha consentito di raggiungere sia delle autentiche vette musicali, sia la riproposizione di una tradizione vista come fonte inesauribile di modernità e di sperimentazione. Nel loro periodo di crisi seguito al “periodo d’oro” degli anni ’70, i Malicorne decidono di rompere con quella che oramai viene avvertita come un’operazione in via di esaurimento, e pubblicano un album interamente formato da brani originali: è Balançoire en feu, dalla stupefacente copertina.

Per l’album, i Malicorne compiono una scelta radicale: si fanno infatti scrivere tutte le canzoni da Étienne Roda-Gil, che è uno dei più noti parolieri francesi ma anche un poeta e un anarchico. Figlio di un militante spagnolo nella Guerra Civile e nato come Esteve Roda Gil (assumerà in seguito la forma francese di “Étienne”), è a sua volta un libertario dichiarato e sostenitore della CNT anarcosindacalista. Suo padre era stato membro della Colonna Durruti prima, e della resistenza francese poi. Dopo un’infanzia difficilissima e tribolata, tra ristrettezze e malattie (sua madre lo salva dallo scorbuto con una piccola razione di succo di limone che ottiene a prezzo di enormi privazioni), il giovane Roda-Gil riesce a laurearsi in lettere e, per vivere, fa il rappresentante di medicinali negli ambulatori. Nel ’68 parigino, all’età di 27 anni, incontra il cantante Julien Clerc ed inizia con lui una collaborazione che si interromperà soltanto nel 1980; una delle domande che Roda-Gil si pone è la seguente, “A cosa serve una canzone se è disarmata?”. Scrive per France Gall, Claude François, Juliette Gréco, Barbara, Françoise Hardy e Riccardo Cocciante; ma scrive anche il testo francese della Makhnovscina e collabora con Roger Waters. Étienne Roda-Gil è morto il 28 maggio 2004.

L’album Balançoire en feu, dapprima, sconcerta i fan e il pubblico dei Malicorne. Le musiche scritte da Gabriel Yacoub (che interpreta tutte le canzoni) e dal bassista Olivier Zdrzalik-Kowalski sono come sempre raffinatissime e molto belle, ma ai testi di Roda-Gil si fa fatica ad abituarsi. Solo col tempo, l’album diverrà un vero e proprio classico dei Malicorne, nonché uno dei migliori album di rock psichedelico prodotto in Europa. Questa lunga introduzione serve a “preparare” a questa canzone, che nasce da una sorta di visione e visionaria rimane pur nell’estrema chiarezza delle sue motivazioni.

cantiere

La scena è un cantiere edile in piena estate, da dove si vede una spiaggia assolata. Un operaio lavora da solo, quasi in un tempo rarefatto, e vede due donne che prendono il sole nude; il contrasto tra la sua vita d’inferno e le due donne incuranti di ogni cosa “sotto il sole dell’universo”. Mentre l’operaio lascia la sua vita “nel cemento pallido” e nel “mare d’intonaco e rena grigia”, si sente come minacciato: quell’immagine di bellezza e libertà che gli si affaccia davanti con le due donne gli fa autenticamente vedere la vita, mentre si ammazza di lavoro nel sole cocente dell’estate. Vita che gli fa piantare una “bandiera soggetta al vento, al desiderio e alla pioggia”. Vale a dire: un atto di ribellione che fa seguito alla “minaccia” rappresentata dalla sua visione. La minaccia di una vita diversa che lo faccia scendere dalle impalcature del cantiere, che lo faccia recedere da un lavoro da schiavo nel quale la sua vita è precipitata.

Il testo di Roda-Gil, affidato al canto particolarissimo di Yacoub, è semplicissimo. Formato da pochissime parole, che bastano a fissare la visione in chiunque ascolti questa straordinaria canzone dove la nudità, cioè la vita, brilla nel sole come una pistola. Nessuna canzone dev’essere disarmata, diceva Roda-Gil, e questa ne è la dimostrazione perfetta perché le due donne nel sole agiscono davvero come un’arma che riesce a scardinare la schiavitù dell’operaio nel cantiere. La bandiera che pianta “al vento, al desiderio e alla pioggia” è vessillo di coscienza mutata per sempre, di rifiuto della morte, di incontro alla vita opposta alla sua negazione rappresentata dal lavoro. Bisognerebbe ascoltarla ad occhi chiusi, questa canzone. Oppure su una spiaggia da soli. Oppure in un cantiere mentre si lavora, sognando e dicendo no. Sognando che ci sia una strada diversa che porti a quella spiaggia immersa nel sole e nell’estate. Sognando che si può. [RV]

Testo e traduzioni

Posted in Album, Canzoni | Tagged Malicorne

Giù fino al collo nel pantano…

By Antiwar Songs Staff on 13 Settembre 2013

Pete Seeger

La guerra nel Vietnam provocò in Pete Seeger un’autentica opposizione a tutto campo, che si concretizzò nel suo celebre e violento attacco televisivo alla politica di guerra del presidente Lyndon Johnson, avvenuto durante il popolare “Smothers Brothers Comedy Hour”, dove Seeger cantò anche quella che è una delle prime canzoni contro la guerra vietnamita, “Waist deep in the big muddy” (“Giù fino al collo nel grande pantano”). La canzone raccontava la storia di un capitano folle che ordinava ai suoi di avanzare in un fiume pericolosamente profondo, ma il riferimento alla politica di Johnson in Vietnam era evidente.

La canzone fu tagliata una prima volta dai censori televisivi, e la trasmissione interrotta, ma Seeger comparve di nuovo la settimana dopo al programma e riuscì a cantarla per intero.

Well, I’m not going to point any moral;
I’ll leave that for yourself
Maybe you’re still walking, you’re still talking
You’d like to keep your health.
But every time I read the papers
That old feeling comes on;
We’re — waist deep in the Big Muddy
And the big fool says to push on.

Testo completo e traduzione

Posted in Canzoni | Tagged Lyndon Johnson, Pete Seeger, Vietnam

En tiempos de ignominia

By Antiwar Songs Staff on 12 Settembre 2013

Una bellissima poesia di José Agustín Goytisolo con cui Paco Ibáñez introduce spesso i propri concerti…
“En tiempos de ignominia”, scritta nel 1994, è stata pubblicata solo dopo la morte del grande scrittore e poeta spagnolo (Barcellona, 1928 – 1999) nell’omaggio intitolato “Goytisolo – Veintisiete voces para un único poema, veintisiete miradas para un mismo rostro” (1999).

En tiempos de ignominia como ahora
a escala planetaria y cuando la crueldad
se extiende por doquier fría y robotizada
aún queda mucha buena gente en este mundo
que escucha una canción o lee un poema:
ellos saben muy bien que la Patria de todos
es el canto, la voz y la palabra; única Patria
que no pueden robarnos ni aún poniéndonos
de espalda contra un muro
y deshaciéndonos en mil pedazos.

Por eso digo una vez más: que nadie piense y grite:
no puedo más y aquí me quedo. Mejor mirarles
a la cara y decir alto: tiren hijos de perra
somos millones y el planeta no es vuestro.

In italiano:

In tempi di ignominia come ora
su scala planetaria e quando la crudeltà
si estende ovunque fredda e robotizzata
c’è ancora tanta gente buona a questo mondo
che ascolta una canzone o legge una poesia:
loro sanno molto bene che la Patria di tutti
sono il canto, la voce e la parola; l’unica Patria
che non possono rubarci nemmeno mettendoci
con la schiena al muro
e facendoci in mille pezzi.

Per questo dico ancora una volta: che nessuno pensi e strilli:
“Non ne posso più, mi fermo qui”. Meglio guardarli
in faccia e dire ad alta voce: “Sparate, figli di puttana,
siamo milioni e la Terra non è vostra!”

Testo completo

Posted in Poesie | Tagged José Agustín Goytisolo, Paco Ibáñez

Verità evidenti

By Antiwar Songs Staff on 11 Settembre 2013

Ani DiFranco

e dunque è ora di esaminare le macerie
ripulire le strade e rinfrescare l’aria
costringere il governo
a tirar fuori il suo grosso uccello dalla sabbia del deserto di qualcun altro
rinfilarselo nei pantaloni
e farla finita con gli slogan ipocriti di libertà duratura
perché quando quell’unico telefono ha chiamato
nel 2001 alle nove e dieci il 911
che è il numero che tutti abbiamo chiamato quando quell’unico telefono ha squillato
dietro la parete dalla nostra scrivania
fino al corridoio
lungo le scale interminabili
di un edificio così alto
che il mondo intero si è voltato
solo per vederlo cadere.

Ani DiFranco, Self Evident

Ani vuole sbrogliare la matassa di ipocrisie e convenzioni, fare emergere la “metafora” per poi liberarsene con uno sforzo di estrema razionalità e pietà umane. All’indomani della tragedia delle Torri gemelle – DiFranco propone, chiede, una scossa e una pausa di silenzio; quando tutti invocano l’unità nazionale, mette in dubbio la legittimità democratica del presidente Bush, che già nell’agosto del 2002 preannunciava la prossima avventura bellica, confessando spudoratamente di non riuscire a trovare un motivo valido per convincere l’opinione pubblica della bontà delle ragioni di questa nuova scelta sanguinaria; nel momento in cui il concetto di ‘civiltà’ viene utilizzato come discriminante rispetto al mondo arabo, Ani afferma che “George. Bush non è il nostro presidente: negli Stati Uniti c’è tanta gente arrabbiata, molta più di quanto la media facciano credere. Ma chi ne parla in paesi come l’America o l’Italia nei quali i governi hanno il monopolio dell’informazione?”. La sistematica e cinica manipolazione dei mezzi di informazione – che con l’ultima guerra all’Afganistan è giunta al massimo livello di ‘oscuramento’ – fa dire ad Ani che l’unica arma in nostro possesso è reagire a questa ennesima truffa, con i mezzi di cui ognuno dispone

Semptember 11
Ani DiFranco si dichiara “carica di vergogna” per il suo Paese, l’America degli aerei e dell’individualismo usato come alibi dell’affarismo: l’America che s’è schiantata contro le Torri di New York, quella che porta la guerra in giro per il mondo. L’America sognata da Ani DiFranco è quella dei treni, quelle interminabili teorie di vagoni che solcavano il paese da una costa all’altra col paesaggio riflesso sui finestrini, quella in cui velocità e profitto non erano le uniche priorità. In una delle strofe più poetiche di Self Evident, Ani sogna di andare in tour come un tempo faceva Duke Ellington: con la sua carrozza personale. Sogna l’attesa del treno sulla banchina di una grande stazione mentre l’aria le accarezza il viso. “Dove sono finiti i nostri treni e le nostre navi?”, ti dice. “Li abbiamo sacrificati per rendere florida l’industria automobilistica e siamo diventati drogati di petrolio, che poi è un’altra ragione per cui interveniamo in Medio Oriente… Non so se l’America dei treni e di Ellington era migliore della mia: per certi versi sì, per altri no. Ma almeno c’era ancora fiducia nell’idea stessa di democrazia e i politici discutevano di idee rilevanti per la gente, non erano una facciata per gli affari delle multinazionali. Un Paese di “mera facciata”, come dice lei, un governo che in Self Evident è rappresentato come una bestia col pene ben piantato in qualche deserto mediorientale. Un’immagine forte. Del resto, nella discografia di DiFranco, specie nei primi album, il potere è sempre maschio e sopraffattore.

La domanda è: la gente ha il potere di cambiare le cose? Ani risponde con entusiasmo che “abbiamo tantissimo potere e non lo usiamo. Lo sperimentiamo nella vita di tutti i giorni, nelle piccole scelte che siamo chiamati a fare. So che non è facile, ma so anche che una volta che prendi posizione contro gli abusi del potere, qualcun altro ti seguirà. Dobbiamo essere disposti a sacrificare un po’ del nostro benessere.”

(Monica Pintucci)

Tutte le canzoni sull’11 settembre 2001

Posted in Anniversari, Canzoni, CCG Fondamentali | Tagged 11 settembre 2001, Ani DiFranco

Cile, 11 settembre 1973

By Antiwar Songs Staff on 11 Settembre 2013

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Non vedo alcuna ragione per cui ad un paese dovrebbe essere permesso di diventare marxista soltanto perché il suo popolo è irresponsabile. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli.
(Henry Kissinger, premio Nobel per la pace 1973)

Racconta Miguel Littín, il regista cileno de “La tierra prometida” che, quando, nel 1985, tornò clandestino e travestito in Cile per girare un documentario di accusa sulla dittatura di Pinochet (“Acta general de Chile”), il primo giorno in cui tornò nella sua città, che non vedeva dalla sera del 12 settembre ’73 quando ne era fuggito assieme alla famiglia, inseguito dagli assassini fascisti, si mise a camminare per le strade di Santiago come in trance. Fu “risvegliato” proprio da un passante che, sottovoce, cantava Yo pisaré las calles nuevamente di Pablo Milanés.

E me ne andrò di nuovo per le strade
Di quel che fu Santiago insanguinata,
E in una bella piazza liberata
Mi fermerò a pianger per gli assenti.

A quarant’anni di distanza dal golpe, l’attuale presidente cileno Sebastián Piñera ha tranquillamente dichiarato che “fu il governo socialista di Unidad Popular a distruggere la legalità e lo stato di diritto”.

Per non dimenticare: le canzoni sul colpo di stato cileno e sulla dittatura di Pinochet.

Leggi anche Perché l’11 settembre 1973 nacque il mondo nel quale viviamo di Gennaro Carotenuto.

Posted in Anniversari | Tagged 11 settembre 1973, Cile, golpe, Kissinger, Pablo Milanés, Pinochet, Salvador Allende

Nessun uomo è un uomo qualunque

By Antiwar Songs Staff on 10 Settembre 2013

Nessun uomo è un uomo qualunque la si potrebbe chiamare, agevolmente, la premessa necessaria non soltanto delle “canzoni contro la guerra” (il che sarebbe una cosa abbastanza trascurabile), ma di tutta una serie di cose che regolano l’umanità intera. E’ una canzone terribilmente semplice, proveniente ironicamente da un cantautore che è stato considerato tra i più ostici alla comprensione (parecchi hanno cantato “Anna di Francia” credendo che parlasse di una regina dell’ancien régime, naturalmente la consorte di quel coglione di Luigi Nono, o Louis IX). Dice, questa canzone, che non esiste la “gente”, ma esistono le persone; tutte con la loro vita e la loro storia. Dice che non si ha il diritto di non portare loro rispetto, e il rispetto non va attualmente per la maggiore (se mai c’è andato). Dice che la valigia di ognuno di noi è piena di alcune cose che andrebbero attentamente considerate, e che vengono minuziosamente elencate nel testo. Sciorinate una dopo l’altra. Un regalo, una rosa, un pigiama in galera. Una giacca logora (libertà e povertà in una sera). Un dolore che piega la schiena.

Così, si ascolta questa canzone e si tende prima o poi a esserne toccati, persino a commuoversi. Perché si applica tutto quanto a noi stessi, e ci si rivede in essa; noi uomini qualunque, ecco finalmente qualcuno che dice che nessuno è ordinario. Una consolazione. Siamo poi, però, gli stessi che facciamo fatica ad applicare i medesimi princìpi agli altri, princìpi che sono enunciati minuziosamente nelle loro essenze (la sofferenza, l’amore, la libertà). Non siamo così pronti a considerare speciale, e mai qualunque, chi ad esempio si getta su un gommone o su un barcone per venire a approdare da queste parti; la massa dei clandestini, degli immigrati soggetti a bossi-fini e CIE. Non-persone che non possono avere avuto, e avere, amori, dolori, regali, rose, giacche e libertà. Può quindi venire a mente, e così dovrebbe essere, che nessun uomo è qualunque come non è illegale. Può venire a mente che nelle galere non sta la “popolazione carceraria” fatta di statistiche, ma persone cui noialtri riserviamo le atroci ciance sulla “certezza della pena” e il forcaiolismo da bar. Può venire a mente che chi sta arrivando a Lampedusa o altrove non sono generici “profughi siriani”, ma Mohamed ibn-Qualcosa o Aisha bint-Qualcosaltro, che hanno lasciato regali, rose e tutto il resto da qualche parte che non rivedranno. Possono venire a mente ragazzi qualunque come Federico Aldrovandi, come Stefano Cucchi, come Marcello Lonzi, come Alexis Grigoropoulos, come Giorgiana Masi. Può venire a mente, in definitiva, che nessun uomo e nessuna donna sono qualunque, a condizione che non siano qua sotto casa a rompere i coglioni, sotto una forma non troppo gradevole. Che so io, in forma di zingaro, di matto, di dimenticato. O in forma di “fallito”, uno dei termini che la società capitalista ha diffuso applicando tipicamente la mentalità e la prassi commerciale alla vita e alla morte umana.

Attenzione, quindi, a commuovervi troppo quando avrete ascoltato questa canzone senza conoscerla. Proprio lei, quella del Lolli “palloso”. Potreste reagire come tutti e pensare esclusivamente alla vostra vita del cazzo, che vi urla “qualunque!” da qualunque angolo di un luogo qualunque di questo mondo. Quando comincerete a guardare chi vi passa accanto pensando alle persone come portatrici di unicità, allora vorrà dire che la avrete capita bene o, addirittura, assimilata. Potrebbe, questa cosa, farvi decidere alcune cose non propriamente gradite ai poteri e ai sistemi, per i quali è fondamentale che tutti noi siamo dei Qualunque proni all’obbedienza, alla massificazione, ai pensieri unici. L’unicità, invece, è pericolosissima: crea consapevolezza, forza e coraggio. Tre cose che, a loro volta, creano il no. Creano la ribellione.

landmesser

Buon ascolto. [RV]

Posted in Canzoni | Tagged Claudio Lolli

Che ce ne frega de ‘sto Bashir?

By Antiwar Songs Staff on 4 Settembre 2013

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Che ce ne frega
de ‘sta guerra
che ce ne frega
de ‘sto Bashir
Noi magnamo
noi semo vivi
che ce ne importa
de ‘sto crumir!

Questa filastrocca del nostro amico e collaboratore Krzysiek ci sembra fotografi benissimo la situazione relativa alla guerra civile siriana. Realmente non gliene frega nulla a nessuno.

Chi “parteggiava” per i ribelli si è ritrovato una bella parte degli oppositori ad Assad completamente putridi; chi “parteggiava” per Assad si è ritrovato, come sempre, con Assad. Nel bel mezzo: atrocità commesse da entrambe le parti, quasi facendo a gara, rimpalli delle suddette a seconda della convenienza politica, l’ “occidente” che mette il gas ner-vino (forse vuole fare il Lambrusco…), Assad che mostra “armi chimiche” dei “ribelli” (saranno quelle che non si sono trovate in Iraq?) e così via.

Si dice che sulla guerra siriana “non si capisce niente”, e può essere vero; nel frattempo, mentre ci sforziamo poderosamente di capire, i civili siriani crepano a migliaia (molti dei quali per fare da vetrina “geopolitica”) e a centinaia di migliaia scappano. L’inverno arabo. Allora ci si rinchiude agevolmente in ciò che la filastrocca di Krzysztof Wrona esprime benissimo: ce ne freghiamo altamente, se la vedano un po’ loro. Tra un po’ salta pure il Libano, tanto, loro, al tutti-contro-tutti ci sono già abituati; e il capitalismo vola ad ali spiegate verso la sua conclusione naturale: la guerra globale. Non importa chi abbia “ragione” e chi abbia “torto”, l’importante è che ci sia la guerra.

Nel caso siriano, persino con rarissime canzoni. Anzi, quasi nessuna, direi. Nessun Bush, persino il parlamento inglese boccia l’intervento, e nemmeno lo straccetto di un cantautore lussemburghese che dedichi una canzone a ‘sti disgraziati che pagano con un inferno il “riassetto dell’area”. Meglio allora, infinitamente meglio, la filastrocca di Krzysiek. [RV]

Commenti apparsi originariamente qui

Posted in Articoli | Tagged Bashar al-Assad, Obama, Siria

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