Antiwar Songs Blog

il Blog delle Canzoni contro la guerra

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Solo per una notte

By Antiwar Songs Staff on 9 Ottobre 2015

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Géza Áchim, nato a Gyón il 25 giugno 1884 (e dalla sua cittadina natale scelse il nom de plume: Gyóni significa “di Gyón”), proveniva da una famiglia di stretta osservanza luterana, e fu egli stesso teologo protestante. Non verrà mai annoverato tra i grandi della letteratura e della poesia magiara; lo si direbbe un “minore” o qualcosa del genere, di fronte a nomi come Sándor Petőfi, Endre Ady, Attila József, Mihály Vörösmarty e altri. Non fosse che per questa poesia, che è non solo una delle più famose del XX secolo in lingua ungherese, ma anche una delle più citate, musicate, riproposte e quant’altro. Una poesia, tra le altre cose, dal destino assai singolare, strettamente legato a colui che la scrisse: è, con tutta verosimiglianza, diventata la più celebre canzone ungherese contro la guerra, vera icona del pacifismo e dell’antimilitarismo, ed il suo inserimento in questo sito colma veramente una grossa lacuna.

Destino singolare? Occorre conoscere, sia pure per grandi linee, la (breve) vita di Géza Gyóni, che non era affatto -almeno in origine- né un pacifista, né un antimilitarista. Tutt’altro. La vicenda umana del poeta, allo scoppio della I guerra mondiale, era intrecciata con l’accesissimo nazionalismo magiaro dell’epoca. La demagogia nazionalistica aveva fatto breccia in Géza Gyóni come in moltissimi altri ungheresi, che vedevano nella guerra la possibilità di affermare definitivamente la patria magiara; tant’è che era partito volontario. Uno di coloro, come fa giustamente notare Fulvio Senardi nel saggio sul quale si basa quasi totalmente questo articolo, “che Thomas Mann (La montagna incantata) e Italo Svevo (La coscienza di Zeno) ci descrivono in pagine indimenticabili mentre si avviano euforici verso il macello”. Géza Gyóni aveva aderito in modo totale alla follia collettiva; tradizionalista di cuore e di spirito, aveva in odio la famosa rivista Nyugat (“Occidente”), che propugnava ideali letterari e politici rivolti, come si evince dal suo stesso e evocativo nome, all’Occidente in contrapposizione al tradizionalismo popolare e rurale che impregnava ancora gran parte della cultura ungherese dell’epoca. I Nyugatisti erano per Géza Gyóni, “beffeggiatori di ideali e di patria” e nemici delle virtù nazionali in quanto “avvelenati dallo spirito decadente della cultura parigina, intrisa di cosmopolitismo e pacifismo, negatrice della tradizione in nome del miraggio di un radioso ‘santo Domani’” (Senardi). Alla rivista oggetto dei suoi strali, Géza Gyóni indirizzò peraltro durissime parole in una lettera aperta (Lével Nyugatra).

Questo per inquadrare non soltanto la figura del poeta, ma anche le sue motivazioni più profonde. Partito volontario per la guerra, si ritrovò assieme a migliaia e migliaia di suoi connazionali a combattere in Galizia: è l’assedio alla fortezza di Przemyśl. Przemyśl è uno dei sacrari degli ungheresi, forse il principale: vi trovarono la morte migliaia di soldati. Un autentico macello che cominciò a far mutare idea anche a Géza Gyóni, che scrisse proprio nell’infuriare dei combattimenti a Przemyśl, nel novembre del 1914, la sua famosissima poesia. Senza peraltro che le sue motivazioni cambiassero fondamentalmente oggetto: Csak egy éjszakára resta una poesia rivolta contro i Nyugatisti e gli “intellettuali decadenti”, scritta nell’ardita tessitura metrica (sette strofe di sette versi, doppi senari in rima baciata o assonanzata) tipica dello hősi hatos, il “canto eroico” della poesia tradizionale magiara. Ma nella poesia cominciano ad avvertirsi anche echi diversi, particolarmente contro “i retori patriottardi, i faziosi, gli speculatori” e contro un Paese che ha mandato coscientemente al massacro la sua gioventù migliore.

Solo per una notte mandateceli qui:
I faziosi, gli eroi dello zelo.
Solo per una notte:
Quelli che ad alta voce dichiarano: Noi non dimentichiamo
Quando la macchina di morte fa la musica sopra di noi:
Quando invisibile sta per scendere la nebbia,
E mortali rondini di piombo di sparpagliano in volo.

Géza Gyóni era stato anch’egli vittima della peculiare Kultur ungherese, che “odia allo stesso modo i miti occidentali (progresso, democrazia, umanitarismo) e l’oriente slavo, che vomita orde selvagge nella dolce terra ungherese”; una Kultur, come è facile osservare, che non ha cessato certo di esistere in Ungheria. Ebbe a scrivere, inascoltato, Endre Ady: “Il magiaro è un popolo sinistro e triste. / Visse nella rivolta e, per curarlo / gli recarono la guerra e l’orrore / i farabutti, maledetti nella tomba”. Cosa poi accadesse sul fronte di Galizia, dove Gyóni era stato acquartierato dopo l’arruolamento nell’autunno del ’14, è cosa ben nota: a Przemyśl, cittadina fortificata del fronte nord-orientale, dopo il fallimento dell’offensiva austriaca che inaugura la guerra sui Carpazi, cadono in mano ai russi il 22 marzo 1915 quasi 120.000 uomini; austriaci, ungheresi, italiani dell’Istria, del Trentino e di Trieste, ecc.: soldati tutti dell’impero multinazionale e plurilinguistico. Nel macello, il nazionalismo di Géza Gyóni cede il passo ad un sofferto sentimento di fratellanza universale.

gezagyooniCome quella di tanti altri, l’esistenza di Géza Gyóni si concluse nel modo più tragico: il 22 marzo 1915 quasi 120.000 uomini cadono prigionieri dei russi. Sono ungheresi, austriaci e anche numerosi italiani dell’Istria, del Trentino e di Trieste. “Comincia il calvario della prigionia siberiana, da cui Gyóni avrebbe potuto essere salvato se il suo nome fosse stato compreso nelle liste di scambio dei feriti e dei malati; ma ciò non avvenne.” (Senardi). Géza Gyóni, per una delle più classiche beffe del destino, muore a Krasnojarsk durante la sua prigionia nel giorno del suo 38° compleanno, il 25 giugno 1917. “I germi di una svolta pacifista e umanitaria della sua visione del mondo non erano sfuggiti all’Ungheria ufficiale, quella che leggeva con sospetto i suoi versi riportati in patria da avventurose missive. Risale ad allora una lirica, difficile a dirsi se più intrisa di dolore o indignazione: Gõgös Hunniában (Nella superba terra degli Unni, 1916), in cui Gyóni lamenta, non senza una punta di autocommiserazione, la sua sorte di cigno ferito e insanguinato condannato a morire a causa dell’odio e delle calunnie dei compatrioti. Accenti schietti e dolenti, come spesso nelle liriche di questa fase, le poesie degli anni di guerra e di prigionia che rappresentano in effetti, per la vibrazione di toccante autenticità, l’acuto della sua fragile vena: e si tratta delle raccolte Sui campi polacchi, presso il fuoco di bivacco (Lengyel mező kön, tábortűz mellett, 1914), Lettere dal Calvario (Levelek a Kálváriáról, 1916), e dei versi pubblicati postumi.” (Senardi)

Solo per una notte mandateceli qui:
I patrioti dalla lunga lingua latrante.
Solo per una notte:
E quando nasce la luce dalla stella accecante,
Che il loro visi si vedano nello specchio del fiume San,
E quando le acque ondeggiando trascinano nuvoli di sangue ungherese
Che loro gridino piangendo: Mio Dio, basta.

Mandateceli solo per una notte,
In modo che ricordino il tormento delle madri.
Solo per una notte:
Che si stringano l’un l’altro atterriti, rabbrividendo:
Che si contorcano, che recitino il mea culpa:
Che si strappino le vesti, che si battano il petto,
Che implorino piangendo: Gesù mio, che cosa ancora?

Inizia poi il percorso di Csak égy éjszakára; un percorso, come già accennato, che la porterà in territori molto lontani da quelli originari. Un percorso strettamente legato, però, al mutamento di prospettiva che lo stesso Géza Gyóni stava sempre più rendendo palese nei componimenti scritti durante l’assedio di Przemyśl e la susseguente, tragica prigionia siberiana; qualcosa che lo rende molto vicino a poeti, ad esempio, come Giuseppe Ungaretti. Csak egy éjszakára ha subito molto presto un processo di popolarizzazione passato necessariamente per il canto (la sua stessa struttura metrica è praticamente identica a quella di molti canti popolari ungheresi); ed il passaggio al canto ha accentuato a dismisura la sua intrinseca componente percettiva contro la guerra in sé. A prescindere dalle sue reali origini, Csak egy éjszakára è divenuta una canzone antimilitarista, in particolare rivolta contro ogni tipo di “trombone” e di grancassa bellicista mentre le masse sono mandate al macello; e così ha attraversato tutto il ventesimo secolo ungherese per approdare al secolo attuale, in un’Ungheria malamente tornata a certe sue storiche pulsioni oscurantiste, xenofobe e fasciste, come una vera e propria icona di qualsiasi movimento pacifista, solidaristico e persino anarchico. Prova ne sia che la versione musicale che qui si dà è assai recente e particolare, a cura della band punk anarchica HétköznaPICSAlódások (il cui nome significa sì “illusioni quotidiane”, con l’accorgimento grafico però che mette in lettere maiuscole in risalto il termine picsa “fica”, formato dall’ultima sillaba della prima parola e della prima della seconda). Abbiamo volutamente scelto di far rappresentare musicalmente questo testo da una band che si rifà espressamente ai Sex Pistols (il brano è pubblicato nell’album RIARIAANARCHIA del 2009) per rappresentare a dovere quanto una canzone possa andare lontano nella percezione e nella fruizione. [RV]

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Sullo stato di mente di Giovanni Passanante

By Antiwar Songs Staff on 26 Agosto 2015

passannante

Giovanni Passannante era un cuoco lucano di Salvia, un piccolo paese di circa mille abitanti vicino Potenza.

Il 17 novembre 1878, a Napoli, con un coltellino di poco conto, attenta – in nome della “Repubblica universale” – alla  vita di Umberto I, re d’Italia, che riporta una piccola ferita ad una gamba. L’attentatore, che qualche ora prima, ha venduto al mercato dei panni vecchi la giacca per poter acquistare il coltello, viene subito arrestato e torturato perché sveli un’inesistente congiura.

Scatta in tutto il paese la repressione, ma molti esprimono solidarietà al giovane gridando “Viva Passannante”. Intellettuali, deputati e opinione pubblica di sinistra si schierano con il cuoco salviano; tra questi il poeta Giovanni Pascoli che per aver composto e letto pubblicamente una poesia per l’attentato, “col berretto d’un cuoco faremo una bandiera” (“Ode a Passannante”), subisce quattro mesi di prigione.

La madre e le sorelle di Passannante vengono rinchiuse nel manicomio di Aversa.

Il paese che ha dato i natali all’anarchico deve chiedere scusa al re e deve cambiare denominazione: così il 13 maggio il consiglio comunale di Salvia, per riabilitarsi nei confronti della casa regnante, chiede che le fosse cambiato il nome da Salvia in Savoia di Lucania, cosa che fu sancita dal regio decreto del 3 luglio 1879, nome che conserva ancora oggi, a settant’anni dalla caduta della monarchia..

 

[Quella che segue – ci scrive l’amica Maria Cristina Costantini –  è una sintesi e parziale trascrizione della perizia psichiatrica cui fu sottoposto Passannante su richiesta dell’avvocato difensore: nella sua stesura ho evitato giudizi o commenti personali, cercando di dare conto del suo contenuto nella maniera più oggettiva possibile, dato che un documento ridotto è già di per sé manipolato. Ma c’è un altro motivo, un aspetto che mi ha colpito: questa perizia, pubblicata anche come articolo accademico, si presenta come oggettiva, ed è, in effetti, una disamina scientifica, fredda, persino impietosa; se dei sentimenti vi sono sottesi non sono certo a favore del reo: non mancano esecrazioni dell”orrendo delitto”, né ossequi all’”amato sovrano”, che con “cuore paterno” e “impulso generoso” ha concesso la grazia al suo attentatore; si sottolineano le umili origini di Passannante, la sua mancanza di istruzione alta, le carenze sintattiche e culturali dei suoi scritti. Nonostante ciò, l’uomo che emerge da queste pagine non è poi così distante dalla sua rappresentazione cinematografica, contro la quale il rappresentante dei Savoia ha ritenuto di scagliarsi con una foga morale degna, forse, di miglior causa: è un uomo acceso da idee rivoluzionarie, ma non pazzo, il suo pensiero è forse utopistico, ma non irrazionale, ha una scarsa cultura, ma è capace di difendere le sue idee con prontezza e lucidità di ragionamento, non è pentito di nulla ma neppure esaltato, argomenta senza perdere la calma, dimostrandosi capace di razionalità e consapevolezza. Tra le righe, si coglie persino, da parte dei periti, una sorta di condiscendente stupore.]

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Il sedici di agosto, sul far della mattina

By Antiwar Songs Staff on 16 Agosto 2015

sacas«Signori giurati, non è la mia difesa che vi voglio esporre, ma una semplice esposizione del mio atto. Dopo la mia prima giovinezza, ho cominciato a conoscere che la nostra Società è mal organizzata e che tutti i giorni ci sono degli sfortunatiche, spinti dalla miseria, si suicidano, lasciando i loro figli nella più completa miseria. A centinaia e centinaia, gli operai cercano lavoro e non ne trovano: invano la loro povera famiglia richiede del pane e durante il freddo, soffre la più crudele miseria. Ogni giorno i poveri figli domandano alla loro sfortunata madre del pane che quest’ultima non può dare loro, perché a lei manca di tutto: i vecchi abiti che si trovavano in casa sono stai giù venduti od impegnati al Monte di Pietà: sono allora ridotti a chiedere l’elemosina ed il più delle volte vengono arrestati per vagabondaggio. Quando tornavo al paese dove sono nato, è là soprattutto dove spesso mi mettevo a piangere, vedendo dei poveri bambini di appena otto o dieci anni, obbligati a lavorare 15 ore al giorno per la miserabile paga di 20 centesimi: dei ragazzi di 18 o 20 anni o delle donne in età più avanzata, lavorare ugualmente 15 ore al giorno, per un paga irrisoria di 15 soldi. E questo succede non solo ai miei compatrioti, ma a tutti i coltivatori del mondo intero. Obbligati a restare tutto il giorno sotto i raggi di un sole cocente, e mentre col loro lavoro ingrato, producono il sostentamento per migliaia e migliaia di persone, non hanno, tuttavia, mai niente per loro stessi. Sono per questo obbligati a vivere nella miseria più dura ed il loro nutrimento giornaliero consiste in pane nero, in qualche cucchiaiata di riso e dell’acqua, per cui arrivano a malapena all’età di 30 o 40 anni sfiniti dal lavoro, muoiono negli ospedali. Inoltre, come conseguenza di questa cattiva nutrizione e dell’eccessivo e faticoso lavoro, questi sfortunati, a centinaia e centinaia, finiscono per morire di pellagra, una malattia che i medici hanno riconosciuto colpire coloro che nella vita, sono soggetti a cattiva nutrizione ed a numerose sofferenze e privazioni. Riflettendo io mi dicevo che se ci sono tante persone che soffrono di fame e di freddo, e vedono soffrire i loro piccoli, non è per mancanza del pane o dei vestiti: poiché io vedevo numerosi e grandi negozi pieni di vestiti, di stoffe e di tessuti di lana: come dei grandi depositi di farina, di granoturco e frumento, per tutti quelli che ne hanno bisogno. Mentre, d’altra parte vedevo migliaia e migliaia di persone che non facendo nulla e non producendo nulla, vivono sul lavoro degli Operai, spendendo tutti i giorni migliaia di franchi per i loro divertimenti ed i loro piaceri, deflorando le ragazze del povero popolo, possedendo dei palazzi di 40 o 50 camere, 20 o 30 cavalli, numerosi domestici, in una parola tutti i piaceri della vita. Ahimè! come soffrivo vedendo questa Società così mal organizzata!… e molte volte maledicevo coloro che accumulavano i loro patrimoni, che sono attualmente alla base di questa ineguaglianza sociale. Quando ero un ragazzo, mi hanno insegnato ad amare la patria ma quando ho visto migliaia e migliaia di operai lasciare il loro paese, i loro cari figli, le loro mogli, i loro genitori, nella più spaventosa miseria, ed emigrare in America, in Brasile, o in altri paesi, per trovare il lavoro, è allora che mi sono detto: “La Patria non esiste per noi poveri operai: la Patria per noi è il mondo intero. Coloro che predicano l’amore per la patria, lo fanno perché qui essi trovano i loro interessi ed il loro benessere. Anche gli uccelli difendono il loro nido, perché lì si trovano bene.” Io credevo in un Dio, ma quando ho visto tale disuguaglianza fra gli uomini, è allora che ho riconosciuto che non è Dio che ha creato l’uomo, ma sono gli uomini ad aver creato Dio: non come dicono quelli che hanno interesse a far credere all’esistenza di un Inferno e di un Paradiso, nell’intento di far rispettare la proprietà individuale e per mantenere il Popolo nell’ignoranza. Per questo motivo sono diventato ateo. Dopo gli avvenimenti del primo maggio 1891, cioè quando tutti i lavoratori del mondo domandavano una festa internazionale, tutti i Governi, non importa di quale colore, sia i monarchici che i repubblicani, hanno risposto con dei colpi di fucile e con la prigione: causando dei morti e dei feriti in gran numero, così come numerosi incarcerati. È a partire da questo anno che sono diventato anarchico, perché ho constatato che l’idea anarchica corrisponde alle mie idee. È fra gli anarchici che ho trovato degli uomini sinceri e buoni, che sapevano combattere per il bene dei lavoratori: fu così che cominciai a fare della propaganda anarchica, e non ho tardato a passare dalla propaganda ai fatti, considerato ciò che abbiamo avuto dai Governi. Non è tanto che mi trovo in Francia, e tuttavia questo tempo mi è stato sufficiente per riconoscere che tutti i Governi sono uguali. Ho visto i poveri minatori del Nord, che non prendevano una paga sufficiente per le loro famiglie, protestare contro i loro padroni, facendo lo sciopero: dopo una lotta di più di tre mesi, sono stati obbligati a riprendere il lavoro con la stessa paga, avendo bisogno di mangiare. Ma i Governanti non si sono occupati di queste migliaia di minatori, perché essi erano occupati in grandi banchetti ed in grandi feste date a Parigi, Tolone e Marsiglia, per l’alleanza fra la Francia e la Russia. I deputati hanno dovuto votare delle nuove tasse, per pagare i milioni di franchi spesi per quelle feste, e questi qui hanno venduto le loro penne e le loro coscienze alla borghesia (intende dire i giornalisti) scrivendo dei bellissimi articoli per far credere che l’alleanza fra la Francia e la Russia avrebbe portato grandi benefici per i lavoratori; nel frattempo noialtri poveri lavoratori ci troviamo sempre nella stessa miseria, obbligati a pagare delle nuove tasse, per saldare il conto di queste grandi feste dei nostri governanti. E se poi noi domandiamo del pane o del lavoro, ci rispondono con dei colpi di fucile e con la prigione, com’è capitato ai minatori del Nord, ai coltivatori della Sicilia, ed a migliaia d’altri. Non è da molto che Vaillant ha lanciato una bomba alla Camera dei Deputati, per protestare contro questa infame Società. Egli non ha ucciso nessuno, non ha ferito nessuno, e malgrado ciò, la Giustizia borghese l’ha condannato a morte: non soddisfatti d’aver condannato il colpevole, cominciano a dare la caccia a tutti gli anarchici, arrestando a centinaia coloro che non avevano neanche conosciuto Vaillant, colpevoli unicamente di aver assistito ad una conferenza, o di aver letto dei Giornali o dei volantini anarchici. Ma il Governo non pensa che tutta questa gente ha mogli e bambini, e che durante il loro arresto e la loro detenzione in prigione per quattro o cinque mesi, seppure innocenti, non sono i soli a soffrire: [il Governo] non ha figli che chiedono del pane. La Giustizia borghese non si occupa di questi poveri innocenti, che non conoscono ancora la Società e che non sono colpevoli se il loro padre in trova in prigione: essi non domandano altro che di mangiare quando hanno fame, mentre le mogli piangono i loro mariti. Si continua dunque a fare delle perquisizioni, a violare il domicilio, a sequestrare giornali, volantini, la stessa corrispondenza, ad aprire le lettere, ad impedire le conferenze, le riunioni, ad esercitare la più infame oppressione contro noi anarchici. Oggi stesso stanno in prigione in centinaia, per aver tenuto nient’altro che una conferenza, o per aver scritto un articolo su qualche giornale, o per aver esplicitato idee anarchiche in pubblico: e sono in attesa che la Giustizia borghese pronunci le loro condanne per Associazione a delinquere. Se dunque i Governi impiegano i fucili, le catene, le prigioni, e la più infame oppressione contro noi anarchici, noi anarchici che dobbiamo fare? Cosa? Dobbiamo restare rinchiusi in noi stessi? Dobbiamo disconoscere il nostro ideale che è la verità? No!… Noi rispondiamo ai Governi con la Dinamite, con il Fuoco, con il Ferro, con il Pugnale, in una parola con tutto quello che noi potremo, per distruggere la borghesia ed i suoi governanti. Emile Henri ha lanciato una bomba in un ristorante, ed io mi sono vendicato con il pugnale, uccidendo il Presidente Carnot, perché lui era colui che rappresentava la Società borghese. Signori Giurati, se volete la mia testa, prendetela: ma non crediate che prendendo la mia testa, voi riuscirete a fermare la propaganda anarchica. No!.. Fate attenzione, perché colui che semina, raccoglie. Quando i Governi cominciarono a fare dei martiri (vi voglio parlare degli impiccati di Chicago, dei garrotati di Jerez, dei fucilati di Barcellona, dei ghigliottinati di Parigi) le ultime parole pronunciate dagli stessi martiri, intanto che andavano alla morte, furono queste: “Viva l’Anarchia, Morte alla borghesia”. Queste parole hanno attraversato i mari, i fiumi, i laghi: sono entrate nelle città, nei paesi, e sono penetrate nelle teste di milioni e milioni d’operai, che oggi si ribellano contro la Società borghese. È la stessa massa di lavoratori che finora si sono lasciati guidare da coloro che si proclamano partigiani delle otto ore di lavoro, della festa del 1º maggio, delle Società operaie, delle Camere sindacali, e da altre mistificazioni, che hanno servito solamente le loro ambizioni, per farsi nominare Deputati o Consiglieri Municipali, con la mira di poter vivere bene senza fare nulla. Ecco i Socialisti!… Ma essi hanno finito ora per riconoscere che non sarà che una rivoluzione violenta contro la borghesia, che potrà riconquistare i diritti dei lavoratori. Quel giorno, non ci saranno più gli operai che si suicideranno per la miseria, non ci saranno più gli Anarchici che soffriranno la prigione per anni e anni, non ci saranno più anarchici che saranno impiccati, garrotati, fucilati, ghigliottinati: ma saranno i borghesi, i Re, i Presidenti, i Ministri, i Senatori, i Deputati, i Presidenti delle Corti d’Assise, dei Tribunali, ecc. che moriranno sulla barricate del popolo, il giorno della rivoluzione sociale. È da lì che splenderanno i raggi d’una Società nuova, cioè dell’Anarchia e del Comunismo. Sarà solamente allora che non ci saranno più né sfruttati, né sfruttatori, né servi, né padroni: ciascuno darà secondo la propria forza e consumerà secondo i propri bisogni».

Sante Ieronimo Caserio.
Motta Visconti (Milano), 8 settembre 1873
Lione (Francia), 16 agosto 1894.

Le ballate su Sante Caserio presenti nel sito:

La ballata di Sante Caserio, di Pietro Gori

Le ultime ore e la decapitazione di Sante Caserio (Il sedici di agosto), di Pietro Cini

Caserio passeggiava per la Francia

Sante Caserio uccisore di Sadi Carnot

Sante Caserio (Antologia di canti popolari)

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Schiavi e liberi

By Antiwar Songs Staff on 6 Agosto 2015

Leonardo Sciascia

Chi, sia pure sommariamente (come noi: tanto per mettere le mani avanti), conosce la storia dell’atomica, della bomba atomica, è in grado di fare questa semplice e penosa constatazione: che si comportarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per condizioni oggettive non lo erano; e si comportarono da schiavi, e furono schiavi, coloro che invece godevano di una oggettiva condizione di libertà. Furono liberi coloro che non la fecero. Schiavi coloro che la fecero. E non per il fatto che rispettivamente non la fecero o la fecero – il che verrebbe a limitare la questione alle possibilità pratiche di farla che quelli non avevano e questi invece avevano – ma precipuamente perché gli schiavi ne ebbero preoccupazione, paura, angoscia; mentre i liberi senza alcuna remora, e persino con punte di allegria, la proposero, vi lavorarono, la misero a punto e, senza porre condizioni o chiedere impegni (la cui più che possibile inosservanza avrebbe almeno attenuato la loro responsabilità), la consegnarono ai politici e ai militari.

E che gli schiavi l’avrebbero consegnata a Hitler, a un dittatore di fredda e atroce follia, mentre i liberi la consegnarono a Truman, uomo di «senso comune» che rappresentava il «senso comune» della democrazia americana, non fa differenza: dal momento che Hitler avrebbe deciso esattamente come Truman decise, e cioè di fare esplodere le bombe disponibili su città accuratamente, «scientificamente» scelte fra quelle raggiungibili di un paese nemico; città della cui totale distruzione si era potuto far calcolo (tra le «raccomandazioni» degli scienziati: che l’obiettivo fosse una zona del raggio di un miglio e di dense costruzioni; che ci fosse una percentuale alta di edifici in legno; che non avesse fino a quel momento subito bombardamenti, in modo da poter accertare con la massima precisione gli effetti di quello che sarebbe stato l’unico e il definitivo…).

Madre e figlia a Hiroshima, 1945.

La struttura organizzativa del « Manhattan Project» e il luogo in cui fu realizzato per noi si sfaccettano in immagini di segregazione e di schiavitù, in analogia ai campi di annientamento hitleriani. Quando si maneggia, anche se destinata ad altri, la morte – come la si maneggiava a Los Alamos – si è dalla parte della morte e nella morte. A Los Alamos si è insomma ricreato quello appunto che si credeva di combattere. Il rapporto tra il generale Groves, amministratore con pieni poteri del «Manhattan Project», e il fisico Oppenheimer, direttore dei laboratori atomici, è stato di fatto il rapporto che frequentemente si istituiva nei campi nazisti tra qualcuno dei prigionieri e i comandanti. Per questi prigionieri, il «collaborazionismo» era un modo diverso di esser vittime, rispetto alle altre vittime. Per gli aguzzini, un modo diverso di essere aguzzini. Oppenheimer è infatti uscito da Los Alamos annientato quanto un prigioniero «collaborazionista» dal campo di sterminio di Hitler.

Il suo dramma – che non ci commuove affatto, a cui soltanto riconosciamo un valore di parabola, di lezione, di ammonizione per gli altri uomini di scienza – è propriamente il dramma, vissuto a livello individuale, soggettivo, di un nefasto «collaborazionismo» che molte migliaia di persone hanno vissuto (nel senso che ne sono morte) oggettivamente, in quanto ne sono stati oggetto, bersaglio. E speriamo che altre e più vaste vendemmie di morte non vengano da questo, non ancora infranto, «collaborazionismo».

(Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana, 1975)

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Les CCG présentent les Chansons contre la Guerre.

By Antiwar Songs Staff on 21 Luglio 2015

Boris Vian

Les Canzoni contro la Guerra (souvent abrégées C.C.G. pou CCG), qui sont nées en italien dans la nuit du 20 mars 2003, au moment-même où l’aviation étazunienne bombardait l’Irak, avaient depuis longtemps le projet de créer un portail en langue française, qui logiquement s’appellerait : Chansons contre la Guerre (profitant ainsi des mêmes abréviations).

Le voici donc, ce fameux portail, vrai sésame d’accès à ce qui est sans doute le plus grand labyrinthe de chansons du monde.

S’il a tant tardé à venir, c’est en raison-même de l’ampleur des tâches qui incombent à la petite équipe (essentiellement italienne – elle travaille à un site où les canzoni – songs – chansons et leurs versions et traductions se comptent en dizaines de milliers et fleurissent en 120 langues ou plus). Une petite équipe qui, contre vents et marées, a maintenu ce site à la face d’un monde encore trop encombré de guerres et de guerriers.

Il existait bien un portail en italien – cela va se soi – et un portail en anglais, c’était lié à son origine et au fait, que depuis des dizaines d’années, les armées de divers États de langue anglaise menaient des guerres dans toutes les parties du monde et conséquemment, voyaient naître dans leurs langues (anglais et étazunien ou anglo-américain) de très nombreuses chansons contre la guerre ou pour la paix. Chansons souvent imaginées, créées et chantées par leurs citoyens et souvent aussi, par leurs propres soldats. C’est encore le cas aujourd’hui.

Par parenthèse, mais une parenthèse nécessaire tant ce qui suit est fondamental, les CCG ont progressivement imposé l’idée que la guerre ne se faisait pas seulement avec des militaires et des armes, mais qu’elle était aussi une guerre sociale, économique, sociétale. Une chanson a tenté de synthétiser cette conception – fait remarquable – elle est en français – inversant en quelque sorte le concept élaboré par le théoricien de la guerre Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz, qui soutenait que : « La guerre n’est que le prolongement de la politique par d’autres moyens. » Cette chanson due à un collaborateur du site s’intitule : La Guerre de Cent mille ans. Dès lors, on apprendra ici que « La politique n’est que le prolongement de la guerre par d’autres moyens. » La finance, l’économie aussi… « La guerre est un acte de violence dont l’objectif est de contraindre l’adversaire à exécuter notre volonté. » , disait le même théoricien prussien : Voyez ce qui se passe en Grèce en cet été 2015.

In fine, on notera que ces CCG sont filles de la résistance au fascisme et au nazisme et pourraient bien avoir comme devise, tirée d’un texte lapidaire devenu chanson, Lo avrai camerata Kesselring :

Ora e sempre : Resistenza ! – en français : Maintenant et toujours : Résistance !

Au fil du temps, les CCG ont rassemblé un nombre assez important de chansons en langue française et un nombre aussi important de traductions ou de versions en langue française de chansons en de multiples langues.

Mieux encore : les Chansons contre la Guerre sont venues au monde au travers d’une chanson de Boris Vian, chanson française, longtemps interdite chez elle : Le Déserteur.

Par ailleurs relayée en de multiples langues, l’autre chanson-clé des C.C.G. n’est autre que L’Internationale, chanson en langue française et relayée elle-aussi dans un nombre considérable de langues. Ne sont-elles pas parmi les chansons les plus connues et les plus chantées dans le monde, on n’est pas loin de le penser.

Et le français a ainsi fait sa place dans ce site très international ; une place telle qu’un portail, une entrée en français s’imposait.

Les CCG se font une joie de pouvoir présenter les Chansons contre la Guerre.

Ainsi parlait Marco Valdo M.I.

Posted in Infrastruttura Web | Tagged Boris Vian, Francia, L'internationale, Marco Valdo M.I.

Rifiuto la guerra: intervista a Piero Purini

By Antiwar Songs Staff on 13 Luglio 2015

Rifiuto la guerra

Migliaia e migliaia di uomini provarono ad evitare la guerra: chi cercando di resistere alla montante esaltazione patriottica e alla propaganda bellicista, chi cercando semplicemente di sfuggire al fronte attraverso la diserzione o la renitenza, chi ancora rifiutando di eseguire gli ordini ed ammutinandosi. E’ una storia poco conosciuta e nascosta, come nascosti dalla propaganda dell’epoca furono le terribili condizioni dei giovani che vennero mandati a morire nelle trincee, gli episodi di fraternizzazione tra nemici, le rese di massa, le decimazioni e le esecuzioni “pour l’exemple”, il destino postbellico dei mutilati e degli “scemi di guerra”.

Rifiuto la guerra è uno spettacolo storico in cui si raccontano queste vicende poco note, accompagnate dalle canzoni di protesta e di rivolta che i soldati di tutte le nazioni coinvolte intonarono come atto di dissenso contro il conflitto. Accanto alla narrazione e alle musiche vengono proiettate immagini e filmati d’epoca in cui fotografie, manifesti, documenti originali, vignette satiriche mostrano quella che fu la vera faccia della guerra, in contrasto con la rappresentazione edulcorata ed eroica che ne diede la propaganda bellica.

Un doveroso omaggio a chi soffrì e morì in quell’immenso mattatoio che fu la grande guerra.

Proponiamo un’intervista con Piero Purini, storico e musicista, ideatore di questo importante spettacolo.

Come è nata l’idea di uno spettacolo del genere? E’ stato pensato in occasione del centenario? Perché hai scelto di utilizzare proprio le canzoni per raccontare quel periodo storico?

Passo spesso davanti al cimitero (non sacrario, lo sottolineo) di Redipuglia, perchè la mia compagna vive lì vicino. E, vedendo bandiere, picchetti e la tomba del fucilatore emanuele fliberto – minuscolo voluto – ogni volta non riesco a fare a meno di pensare a tutti quei contadini mandati al massacro per interessi completamente estranei alla loro vita, e al fatto che tutti quei morti vengano tutt’ora presi in giro da chi continua a rappresentare il patriottismo sulle loro tombe e sui loro resti. E la trovo una cosa veramente sconcia. Così, per la rabbia che mi scaturisce ogni volta, ho pensato di creare una rappresentazione in loro memoria. La musica mi ha dato il mezzo per esprimere questo sdegno.

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Cinquecento canzoni greche / Πεντακόσια ελληνικά τραγούδια

By Antiwar Songs Staff on 10 Luglio 2015

pendekosa

Con la canzone Παιδιά της Ελλάδος Παιδιά  (Figli, figli della Grecia), di Sofia Vembo la “Sezione Greca” (Ελληνικό Τμήμα) delle CCG/AWS raggiunge la sua cinquecentesima canzone.

Fino al 2009, la Sezione Greca di questo sito era sì consistente, ma abbastanza trascurabile. Nel 2009 è comparso su questo sito Gian Piero Testa, il mitico “3497” (dal suo codice d’autore in questo sito, perché di canzoni ne ha anche scritte e parecchie direttamente in greco).

E’ soprattutto grazie a Gian Piero Testa (senza dimenticare gli altri, in primis Giuseppina Dilillo la “Pioniera”, e poi Alessio Miranda, Max e altri), che la Sezione Greca raggiunge oggi questo traguardo che ne fa una delle prime sei sezioni di tutto il sito.

Gian Piero Testa, purtroppo, non può festeggiare assieme a noi questo traguardo. La mole di materiale che ha inserito e tradotto per il sito è immensa; ancora adesso, parecchie sue “Paginone”, come le chiamavamo, sono rimaste inesplorate. Non bisogna scordare che l’abitudine di Gian Piero di inserire album interi in una sola “paginona” fa sì che, in realtà, le canzoni greche presenti nel sito siano molte più di cinquecento. Ma rispettiamo la struttura del sito.

Per festeggiare questo traguardo, abbiamo pensato, per un giorno, di “resuscitare” il grande Gian Piero, che del resto è αθάνατος. Questa pagina è pienamente sua, in quanto formata da un suo commento ad un’antica canzone popolare greca, il Χορός του Ζαλόγγου, inviato il 17 marzo 2009.

Un modo per ricordare, anche a noi stessi, quanto Gian Piero Testa sia ancora presente in questo sito. Anche per questo, la pagina è stata inserita a suo nome.

gipptti Continue reading “Cinquecento canzoni greche / Πεντακόσια ελληνικά τραγούδια”

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La madre dell’ufficiale

By Antiwar Songs Staff on 16 Giugno 2015

matthieu cote

Matthieu Côte avrebbe potuto essere la novità della canzone francese. Teatrale, ironico, quasi un Jacques Brel  moderno, la sua carriera è stata tragicamente interrotta da un cuore malato che l’ha portato via a solo 29 anni.

Ha fatto tempo ad incidere solo un album solista in cui spicca La mère de l’officier, una canzone sarcastica e impietosa che ripercorre la vita di un ragazzo dell’alta borghesia francese

Un ragazzino, capelli biondi, la testa d’un angelo
gioca alla guerra, imita i fratelli che imitano gli uomini
Rosa e carino, come ogni bambino uscito dalle fasce
Gli occhi chiarissimi, gli occhi della madre, alto tre mele

Dal giocare alla guerra da bambini ad essere spediti all’Accademia Militare il passo è breve. Il percorso è inevitabilmente segnato, dalle pressioni sociali, dalla famiglia borghese e ultra-cattolica

Scuola privata, liceo privato e catechismo
E una faccia carina, gli ingredienti per riuscire
Testa rasata, giubbotto cerato e del carisma
E finalmente il giorno del famoso concorso all’Accademia Militare

Viene ammesso, viene iniziato, va a lezione
Lavora molto, le prende ma le sa anche dare
Viene promosso e riconosciuto, supera se stesso
ma n’è valsa la pena, arriva il giorno in cui prende il diploma

La vera protagonista della canzone è la madre, fiera della sua progenie…

E, in mezzo ai complimenti, sua madre che singhiozza, che lo abbraccia, che scherza
Felice, esaltata d’avere una discendenza di cui poter essere sì fiera
Dio, com’è bello suo figlio, gli tocca berretto, gli aggiusta il colletto
Non c’è niente che fa sognare più che un giovane ufficiale…. soprattutto in tempo di guerra

Ed è così che il giovane ufficiale si trova a dover fare i conti con la vera guerra, i veri nemici, la vera morte.

E un mattino, ritorna, il caro figliolo
E’ una bella giornata, il tempo si prende gioco dei luoghi comuni
Ritorna, in una bara i piedi in avanti
avvolto in una bandiera, confezione regalo, dell’Esercito

Mort pour la patrie

Il finale è un ritratto impietoso della madre che non si smentisce neanche davanti alla tragedia…

E la madre, sua madre distrutta, che pareva stupita di questa fine brutale
Pensava forse che il figliolo fosse immortale? Che credeva, l’idiota,
che il suo bambino ufficiale fosse immunizzato, che deviasse le pallottole ?
Il mondo è così crudele, s’affida al cielo, l’insopportabile bigotta,
Ma la cosa più rivoltante è che questa cara mamma, non si rivolta nemmeno
non vomita neanche contro Dio o lo Stato un legittimo veleno,
Il giorno del funerale, riceve degnamente la famiglia in lutto
che le stringe il braccio e che si dice sottovoce che il nero le sta bene…
E lei incrocia le braccia, e si ripete sottovoce… che il nero le sta bene.

Posted in Canzoni | Tagged Matthieu Côte

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