Nel 1981 i Malicorne di Gabriel Yacoub sono in crisi profonda al loro interno, e in via di separazione. Il gruppo ha alle spalle album interi dove le canzoni tradizionali francesi più antiche sono state legate al più raffinato rock psichedelico e progressive; un’operazione particolare che ha consentito di raggiungere sia delle autentiche vette musicali, sia la riproposizione di una tradizione vista come fonte inesauribile di modernità e di sperimentazione. Nel loro periodo di crisi seguito al “periodo d’oro” degli anni ’70, i Malicorne decidono di rompere con quella che oramai viene avvertita come un’operazione in via di esaurimento, e pubblicano un album interamente formato da brani originali: è Balançoire en feu, dalla stupefacente copertina.
Per l’album, i Malicorne compiono una scelta radicale: si fanno infatti scrivere tutte le canzoni da Étienne Roda-Gil, che è uno dei più noti parolieri francesi ma anche un poeta e un anarchico. Figlio di un militante spagnolo nella Guerra Civile e nato come Esteve Roda Gil (assumerà in seguito la forma francese di “Étienne”), è a sua volta un libertario dichiarato e sostenitore della CNT anarcosindacalista. Suo padre era stato membro della Colonna Durruti prima, e della resistenza francese poi. Dopo un’infanzia difficilissima e tribolata, tra ristrettezze e malattie (sua madre lo salva dallo scorbuto con una piccola razione di succo di limone che ottiene a prezzo di enormi privazioni), il giovane Roda-Gil riesce a laurearsi in lettere e, per vivere, fa il rappresentante di medicinali negli ambulatori. Nel ’68 parigino, all’età di 27 anni, incontra il cantante Julien Clerc ed inizia con lui una collaborazione che si interromperà soltanto nel 1980; una delle domande che Roda-Gil si pone è la seguente, “A cosa serve una canzone se è disarmata?”. Scrive per France Gall, Claude François, Juliette Gréco, Barbara, Françoise Hardy e Riccardo Cocciante; ma scrive anche il testo francese della Makhnovscina e collabora con Roger Waters. Étienne Roda-Gil è morto il 28 maggio 2004.
L’album Balançoire en feu, dapprima, sconcerta i fan e il pubblico dei Malicorne. Le musiche scritte da Gabriel Yacoub (che interpreta tutte le canzoni) e dal bassista Olivier Zdrzalik-Kowalski sono come sempre raffinatissime e molto belle, ma ai testi di Roda-Gil si fa fatica ad abituarsi. Solo col tempo, l’album diverrà un vero e proprio classico dei Malicorne, nonché uno dei migliori album di rock psichedelico prodotto in Europa. Questa lunga introduzione serve a “preparare” a questa canzone, che nasce da una sorta di visione e visionaria rimane pur nell’estrema chiarezza delle sue motivazioni.
La scena è un cantiere edile in piena estate, da dove si vede una spiaggia assolata. Un operaio lavora da solo, quasi in un tempo rarefatto, e vede due donne che prendono il sole nude; il contrasto tra la sua vita d’inferno e le due donne incuranti di ogni cosa “sotto il sole dell’universo”. Mentre l’operaio lascia la sua vita “nel cemento pallido” e nel “mare d’intonaco e rena grigia”, si sente come minacciato: quell’immagine di bellezza e libertà che gli si affaccia davanti con le due donne gli fa autenticamente vedere la vita, mentre si ammazza di lavoro nel sole cocente dell’estate. Vita che gli fa piantare una “bandiera soggetta al vento, al desiderio e alla pioggia”. Vale a dire: un atto di ribellione che fa seguito alla “minaccia” rappresentata dalla sua visione. La minaccia di una vita diversa che lo faccia scendere dalle impalcature del cantiere, che lo faccia recedere da un lavoro da schiavo nel quale la sua vita è precipitata.
Il testo di Roda-Gil, affidato al canto particolarissimo di Yacoub, è semplicissimo. Formato da pochissime parole, che bastano a fissare la visione in chiunque ascolti questa straordinaria canzone dove la nudità, cioè la vita, brilla nel sole come una pistola. Nessuna canzone dev’essere disarmata, diceva Roda-Gil, e questa ne è la dimostrazione perfetta perché le due donne nel sole agiscono davvero come un’arma che riesce a scardinare la schiavitù dell’operaio nel cantiere. La bandiera che pianta “al vento, al desiderio e alla pioggia” è vessillo di coscienza mutata per sempre, di rifiuto della morte, di incontro alla vita opposta alla sua negazione rappresentata dal lavoro. Bisognerebbe ascoltarla ad occhi chiusi, questa canzone. Oppure su una spiaggia da soli. Oppure in un cantiere mentre si lavora, sognando e dicendo no. Sognando che ci sia una strada diversa che porti a quella spiaggia immersa nel sole e nell’estate. Sognando che si può. [RV]
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