Sono i tempi della contestazione, della strage di Piazza Fontana con l’avvio della “strategia della tensione”, dell'”autunno caldo” del 1969, del tentativo di golpe fascista da parte del repubblichino Junio Valerio Borghese (8 dicembre 1970). Inutile ricordare quello che sta accadendo nel mondo, dalla guerra nel Vietnam in pieno svolgimento al Maggio Francese. Truppe del patto di Varsavia a Praga nell’ agosto 1968. È in questi anni di crisi, che si inserisce l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, per soffocare l’esperimento di “socialismo dal volto umano” (in pratica una vera e propria liberalizzazione e democratizzazione della vita politica) portata avanti dai dirigenti comunisti di quel paese a partire dalla fine del 1967, in primis da Alexander Dubček (che, per inciso, non era praghese ma slovacco di Bratislava). Tale esperimento, che fu presto chiamato la “Primavera di Praga”, spazzò via in pochi mesi la stagnazione ed il conformismo tipici dei paesi socialisti del periodo brezhneviano: Praga era veramente ridiventata la “mitica” città mitteleuropea con la sua vita culturale vivacissima, la sua ironia (cui non è certo estraneo il retaggio ebraico) ed i suoi celebrati misteri. Come terminò tale esperimento lo sappiamo più o meno tutti: fra il 20 ed il 21 agosto 1968 i carri armati sovietici e di altri paesi del Patto di Varsavia invasero il paese per “ristabilire l’ordine”. Dubček per un po’ fu mantenuto nominalmente a capo del Partito, poi fu sostituito dal ligio Gustav Husák. Come racconta Milan Kundera, i primi tempi dopo l’invasione furono un periodo di “fibrillazione”: tutti si sentivano in qualche modo coinvolti, dal podista Emil Zátopek che faceva la staffetta per portare messaggi nella città invasa (i cui cittadini avevano rimosso le targhe stradali in una notte per disorientare gli invasori), alle ragazze che esibivano davanti ai carristi russi delle minigonne da capogiro, ai professionisti (medici, avvocati, ingegneri) che, ridotti spesso a semplici impiegati (Dubček stesso si adattò a fare il giardiniere), venivano ancora clandestinamente consultati dai propri clienti. A tutto questo seguirono il grigiore e la stagnazione di ogni “normalizzazione”.
La sera del 16 gennaio 1969 un giovane studente di filosofia praghese, Jan Palach (in realtà era nato a Všetaty l’11 agosto 1948) si recò in Piazza San Venceslao. Teneva nascosta nel cappotto una bottiglia piena di benzina. Proprio all’inizio della grande piazza, davanti al Museo, con calma si tolse il cappotto, si versò addosso la benzina e si diede fuoco, senza un grido. Quando gli chiesero chi gli avesse fatto una cosa del genere, Jan rispose semplicemente: “Sono stato io”. Non disse altro. Accorsero immediatamente gli agenti della Bezpecnost’ e il ragazzo fu trasportato in ospedale, dove morì poco dopo. Il giorno dopo un trafiletto di poche righe avvertiva dell’ “insano gesto di uno squilibrato”, ma fu subito a tutti chiaro quale significato avesse il gesto disperato di Ján Pálach. I suoi funerali furono seguiti da migliaia di persone (circa 600.000 arrivati da tutto il paese) in silenzio, proprio come si racconta nella canzone di Francesco Guccini.
Dimmi chi era che il corpo portava,
la città intera che lo accompagnava:
la città intera che muta lanciava
una speranza nel cielo di Praga.
Il punto dove Jan Palach si diede fuoco è stato sempre coperto di fiori. Prima del 1989, delle “solerti” mani provvedevano a rimuoverli ogni giorno; adesso vi sorge una piccola lapide con la foto del ragazzo. Nessuno toglie più i fiori, ma ce ne sono molti meno di prima.
“Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zparvy (il giornale delle forze d’occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà”.
Il gesto di Jan Palach non rimase isolato: almeno altri sette studenti, tra cui il suo amico Jan Zajíc, seguirono il suo esempio. In realtà Palach non era stato il primo. Già nel settembre 1968 l’ex membro dell’esercito di liberazione polacco Ryszard Siwiec (1909-1968) si era immolato per protestare contro l’invasione della Cecoslovacchia (a cui avevano partecipato anche truppe polacche). Siwiec compì questo gesto allo stadio di Varsavia in occasione della sagra del raccolto. Nonostante il suo suicidio fosse ripreso da una telecamera e tutto fosse avvenuto alla presenza dei capi del partito comunista polacco e di moltissimi spettatori, il suo gesto non ebbe riscontro nei mezzi di comunicazione di massa e il suo nome rimase pressoché sconosciuto. In pochi si resero conto di ciò che egli avesse voluto ottenere con il suo sacrificio. Solo dopo la caduta del regime gli fu dedicato un film documentario girato dal regista polacco Maciej Drygas (Usłyszcie mój krzyk – Udite il mio grido) e gli furono conferite onorificenze ceche, slovacche e polacche.
In Cecoslovacchia la canzone Modlitba pro Martu (La preghiera per Marta) di Marta Kubišová, composta nel periodo immediatamente precedente alla Primavera di Praga, divenne simbolo della resistenza all’invasione sovietica.
Il giorno che fu programmata la registrazione della canzone, Brabec (l’autore del testo) portava il testo nello studio dove lo stava aspettando Marta Kubišová, ma durante il tragitto la sua auto fu danneggiata dai soldati sovietici e non gli fu possibile raggiungere il posto. Dettò quindi il testo alla cantante per telefono. Marta riuscì a trasportare la registrazione nella sede della radio cecoslovacca. Originariamente la canzone fu destinata per una puntata della serie televisiva Píseň pro Rudolfa III. (Una canzone per Rodolfo III). La puntata però andò in onda solo un anno dopo, e durante la scena conclusiva accompagnata dalla canzone dovette apparire un sottotitolo con la spiegazione che essa non avesse nulla a che vedere con i fatti di attualità. Negli anni 70, nel periodo della cosiddetta normalizzazione, la canzone fu del tutto vietata, come anche l’attività artistica della sua interprete.
La pace resti d’ora in avanti con questa terra.
L’ira, l’invidia, il rancore, la paura e la discordia –
– essi svaniscano, ormai svaniscano
ora che il tuo perduto potere sui tuoi affari
ritornerà da te, popolo, ritornerà da te.
Nel 1989, con la caduta del regime totalitario, la canzone ancora una volta accompagnò le vicende politiche e divenne simbolo della rivoluzione di velluto. Marta che in quei giorni tornò subito attiva, la cantò dal vivo a Praga, nella piana di Letná, davanti a centinaia di migliaia di spettatori
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