Let England Shake è un album del 2011, considerato il capolavoro della maturità della cantautrice inglese PJ Harvey. Lo presentiamo qui con l’aiuto di un articolo di Rachele Cinarelli apparso su Carmilla online. Sul sito trovate tutti i testi e la traduzione quasi integrale.
A 41 anni, PJ Harvey ha scritto il suo capolavoro. Si poteva affermare molto prima che ricevesse il Mercury Prize 2011 (il premio per miglior disco britannico dell’anno), come testimoniano le numerose recensioni entusiastiche all’uscita del disco.
Let England Shake è qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo allo stesso tempo. Può essere considerato un concept album per eccellenza, proprio nell’accezione classica di fine anni Sessanta e inizio Settanta, quando il long playing, con l’avvento della psichedelia, ha smesso di essere una collezione di singoli di successo e ha cercato di conquistarsi una propria dignità artistica legando i brani uno all’altro. Oggi assistiamo paradossalmente alla cancellazione totale di questa nozione, e la musica e il disco vengono riportarti a una collezione di brani singoli vendibili/scaricabili, di cui pochi a volte si ricordano il titolo o persino l’esecutore.
In questo senso quindi, Let England Shake riesce a rappresentare un’eccezione. Il concetto alla base di questo album, il filo rosso che lega tra loro tutti i brani è la guerra. O meglio, i cicli di conflitto che spesso riguardano gli stessi luoghi in tempi differenti, dove vediamo all’opera un aggressore ricorrente, il mondo occidentale. La lavorazione di questo disco è durata tre anni, in cui PJ Harvey ha ricercato testimonianze di guerra attraverso varie fonti, dai blog delle vittime della guerra in Iraq e in Afghanistan, fino ai resoconti e alle testimonianze della disfatta di Gallipoli del 1915, operazione fiasco guidata dalla Triplice Intesa durante la Prima Guerra Mondiale (la penisola turca era già stata teatro di guerra durante l’avanzata degli Ottomani nel 1366). Ha dichiarato che, contrariamente alla maggior parte delle volte, prima sono arrivati i testi e poi la musica. Testi influenzati da pilastri della letteratura anglosassone come Harold Pinter, TS Eliot, James Joyce, ma anche da quelli di canzoni folk russe (This Glorious Land, In The Dark Places). Ciò che colpisce è sicuramente l’assoluta chiarezza e pulizia della composizione, l’uso di un linguaggio letterario non familiare alla maggioranza delle composizioni pop-rock. Parole di cui Harvey si fa narratrice con una voce che risulta quasi neutrale da quanto eterea, e che sembra continuamente toccare i limiti della sua estensione vocale.
La morte era ovunque,
nell’aria
e nei suoni
provenienti dalle colline
di Bolton’s Ridge.
L’approdo della Morte.
Quando ti rollavi una sigaretta
o raccontavi una barzelletta,
nella risata
e nell’acqua da bere.
La morte si avvicinava alla spiaggia
mentre una sfilza di scialuppe,
affondava nel mare e si arenava.(All and Everyone)
La memoria della campagna dei Dardanelli riecheggia in brani come All And Everyone, The Colour Of The Earth, On Battleship Hill, mentre il richiamo al Medio Oriente è chiaro in Written On The Forehead (People throwing dinars/ at the belly dancers/ in a sad circus/ behind a trench of burned oil). Come la stessa autrice ha dichiarato riferendosi ai conflitti e ai teatri di guerra “non importa quando è successo, perché questo circolo perenne si ripete ancora, ancora e ancora”. Ci racconta che il conflitto è continuo e globale. Harvey si costruisce una posizione da narratrice che sembra enfatizzata anche in concerto, dove rimane a sinistra del palco rispetto allo spettatore, separata dal resto dei musicisti (Mick Harvey, John Parish, Jean-Marc Butty), e vestita di bianco o di nero, i due colori contrari e anche assoluti, poiché entrambi possono significare l’assenza di colore o la somma di tutti. L’insieme viene risaltato dalla corporatura ossuta, dai movimenti calcolatissimi, dai capelli neri decorati con piume di uccello che rimandano alla tradizione celtica, in cui l’uccello è il messaggero degli dei, il tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Gli uccelli vengono ripresi anche nella copertina dell’album, dove i gabbiani sembrano esplodere da una macchia d’inchiostro.
Gente che lancia monete
alle danzatrici del ventre
in una squallida tenda
illuminata da una lampada a petrolio[…]
Ho parlato a un vecchio
accanto al generatore
seduto sulla ghiaia
in riva a un fiume fetido,si è voltato verso di me
ha guardato il panorama
e poi mi ha detto “La guerra è qui,
nella nostra amata città”(Written on the Forehead)
L’elemento naturale richiamato nelle esibizioni dal vivo non è casuale. Nei testi, oltre agli esseri umani è vittima anche la Natura, ferita e violentata. In The Last Living Rose il cielo si muove, l’oceano brilla, la siepe si agita e l’ultima rosa tremola, in segno di qualcosa che sta per arrivare. In The Words That Maketh Murder gli arti macellati dei soldati stanno in mezzo agli alberi, e le mosche brulicano su tutto, mentre in The Colour Of The Earth, il colore della terra appunto è rosso sangue. I campi non vengono più arati con gli attrezzi, ma con i carri armati e le marce dei soldati, e i frutti della terra sono bambini orfani e deformati in This Glorious Land. Infine in On Battleship Hill, il profumo di timo portato dal vento ricorda che la natura crudele vincerà ancora, quasi a ribellarsi alla follia umana cercando di sanarla.
Cos’è che solca il suolo del nostro glorioso paese?
Non aratri di ferro
Cos’è che solca il suolo del nostro glorioso paese?
Non aratri di ferroLa nostra terra è solcata da carri armati e stivali
di soldati in marcia
La nostra terra è solcata da carri armati e stivali
di soldati in marcia(The Glorious Land)
Il vento si porta addosso l’odore del timo
e ti sbatte in faccia e ti costringe a ricordare
la natura crudele ha vinto di nuovoSulla collina di Battleship costellata di trincee
rimane appeso come un odore questo odio,
ancora oggi, ottant’anni dopo
la natura crudele
la natura crudele, crudele.(On Battleship Hill)
La musica che fa da base a questa narrazione universale ha in sé gli elementi della classica formazione rock: chitarra elettrica, basso e batteria. Le chitarre sono solo ritmiche, attutite da effetti di eco e riverberi, il basso è rafforzato da inserti di sassofono, e su questo scheletro si aggiungono strumenti come l’auto harp, lo xilofono, il piano, cori di voci maschili e femminili. Le ritmiche sono piene, circolari, sciancate: in esse si inseriscono elementi di reggae nero e bianco: il sample di Winston “Niney” Holness in Written on the Forehead e la batteria dei Police in This Glorious Land. Altri campionamenti inaspettati e disorientanti come il bugle della Regimental March (ancora This Glorious Land) e il canto popolare della Baghdad anni Venti Kassem Miro sulla traccia England, la citazione di Summertime Blues di Eddie Cochran in The Words that Maketh Murder. Qui l’ironico What if I take my problem to the United Nations? assume un significato serio e attualissimo. Campionamenti che sembrano provenire da una radio accesa da qualche parte nel mondo, pezzi di tradizioni musicali che si uniscono o sovrappongono a sottolineare il carattere globale delle tematiche trattate. Ma anche a dirci che, nonostante queste, Let England Shake è un disco fortemente melodico e incalzante nelle ritmiche, tanto far battere le mani, o canticchiare le parole.
Louis corse in avanti dalla prima linea
non l’ho più visto
Più tardi nell’oscurità
Mi sembrò di sentire la sua voce
che chiamava la madre, e poi me
Ma non ce l’ho fatta a raggiungerlo
È ancora lassù su quella collina
Vent’anni su quella collina
Nient’altro che un mucchio d’ossa
Ma ancora penso a lui
E se me lo chiedessero risponderei
che il colore della terra quel giorno
era un rosso opaco e bruno
il colore del sangue, direi(The Colour of the Earth)
A un primo ascolto, il disco può apparire ostico dal punto di vista musicale e anche troppo “patriota”. In realtà la continua menzione dell’Inghilterra non è affatto celebrativa, ma anzi, sembra enfatizzare la storia inglese, fatta di sanguinosi conflitti interni, colonialismo e imperialismo. È quindi un’esortazione alla nazione, come si percepisce chiaramente nel brano omonimo che apre il disco. Anche il progetto video che lo accompagna insiste su questo concetto. Per ogni traccia dell’album infatti è stato realizzato un video, con la collaborazione del fotoreporter Seamus Murphy, attivo in zone calde del pianeta, in cui si intrecciano scene di vita quotidiana britannica assieme a flash di immagini di guerra.
Let England Shake può essere considerato un disco combat-rock, ma è un disco che rinnova totalmente il genere di protesta. Compie questo passo importante perché riesce a liberarsi completamente dalla retorica, e arrivare al carattere di universalità delle diverse storie che formano la Storia. Uno scarto su cui molti folk singer di protesta e di professione che abbondano in Italia a vari livelli dovrebbero meditare.
Let England Shake – The Glorious Land – The Words That Maketh Murder – All and Everyone – On Battleship Hill – In the Dark Places – Bitter Branches – Hanging in the Wire – Written on the Forehead – The Colour of the Earth
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