Articolo di Alberto Crespi da L’Unita’ del 29/5/2004
Sono passati vent´anni e il “new world order”, il nuovo ordine mondiale, sembra cosa fatta. La citazione è rigorosamente di Bruce Springsteen, ma non è tratta da “Born in the U.S.A.“, il disco di cui ricordiamo il ventennale: viene da “The Ghost of Tom Joad”, un disco che di “Born in the U.S.A.” è il diretto discendente politico (anche se musicalmente si lega assai di più a “Nebraska”). Chissà se Bruce se lo sarebbe aspettato: lui, nelle canzoni, non fa mai dichiarazioni politiche “dirette”, anche se evocando lo spettro di Tom Joad (l´emigrante/bracciante/fuggiasco di “Furore”, libro di John Steinbeck e film di John Ford) aveva fatto chiaramente capire da quale parte stava. Dalla parte di chi cerca di attraversare il Rio Grande da Sud, per entrare nel Paese dei Balocchi (in un film sugli schermi in questi giorni, “The Day After Tomorrow” di Roland Emmerich, sono invece i “gringos” a tentare la traversata diretti a Sud, perché l´effetto-serra e il mancato rispetto del protocollo di Kyoto rischiano di sommergere gli Stati Uniti sotto una gigantesca e vindice inondazione). Forse, a distanza di tanti anni, Springsteen ha fatto un disco come “The Ghost of Tom Joad” per non essere frainteso. Perché tanto tempo fa, all´uscita di “Born in the U.S.A.”, il fraintendimento ci fu. Eccome. Erano anni di rambismo rampante (in realtà anche Rambo fu frainteso: il primo film, quello diretto da Ted Kotcheff, era tutt´altro che forcaiolo). Bruce ebbe la strabiliante forza poetica di comporre un brano – qui parliamo di “Born in the U.S.A.”, poi sarà utile allargare il discorso all´album – che era un lamento con la struttura musicale dell´inno. Infatti il pezzo divenne una delle più grandi canzoni da stadio di tutti i tempi: quando Bruce lo intonò, al concerto di San Siro (unica data italiana della tournée che fece seguito all´album, tra l´84 e l´85), lo spettacolo di 80.000 pugni levati fu semplicemente indimenticabile, riempì lo stadio di una forza e di un´emozione compatta e condivisa che nessuna partita di calcio (e San Siro, già leggendario di suo, ne ha viste non poche) era mai riuscita a creare. Sì, “Born in the U.S.A.” sembrava un inno: un inno americano alternativo a “The star spangled banner”, e non a caso il timbro delle chitarre distorte richiamava alla memoria il sound di Jimi Hendrix, storpiatore primario dell´inno Usa ufficiale. Solo che le parole non erano da inno: le parole erano un canto dolente sulla generazione dei reduci del Vietnam. Il protagonista della canzone torna a casa dalla guerra e non ha più lavoro; va a consultare il suo “v.a. man”, il consigliere per i veterani, una figura vicina al nostro assistente sociale, e quello gli dice “son, don´t you understand?”, figlio, non capisci?
E così il reduce, che era stato mandato in una “terra straniera” a combattere “l´uomo giallo”, e che aveva lasciato il fratello a Khe Sahn ritrovandosi come suo unico ricordo una foto con “a woman he loved in Saigon”, una donna che amava a Saigon, se ne rimaneva lì nella sua America industriale e devastata (il New Jersey, probabilmente) dove le fabbriche sono chiuse e sono dieci anni che lui “brucia lungo quella strada”: “nowhere to run, nowhere to go”, nessun posto dove andare.
Questo era il senso della canzone, nemmeno tanto riposto: e a quel furbetto di Ronald Reagan avremmo dovuto rispondere “son, don´t you understand?”, quando tentò di appropriarsi della canzone nella sua campagna elettorale (sarebbe stato rieletto, purtroppo) probabilmente senza averne mai letto il testo. Figliolo, non capisci? Questo non è uno che vota per te. Questo è uno che dal reaganismo ha avuto solo dolori, delusioni, disoccupazione. Eppure l´equivoco nacque. Un po´ per la musica, sicuramente: quel giro di sei accordi che apre la canzone, e sul quale poi si appiccica il titolo/ritornello, era perfetto anche per aprire i comizi di un uomo politico. Un po´, fu il titolo: mettete quella musica assieme al titolo, togliete il resto della canzone e potete ottenere un roboante grido di guerra.
Reagan la capì, o la volle capire, così. Non sapeva che il titolo veniva da lontano con quel suo significato neutro, da ufficio dell´anagrafe: nato negli U.S.A., càpita a un sacco di gente. Bruce l’aveva, diciamo così, “rubato” a un cineasta, il regista Paul Schrader (“American Gigolo”, “Blue Collar”, la sceneggiatura di “Taxi Driver” di Scorsese), che gli aveva passato un suo copione così intitolato, nella speranza che il cantante gli scrivesse la colonna sonora. Il film lì per lì non si fece, (nel cinema succede spesso), e sia Schrader che Springsteen hanno sempre raccontato che il copione era finito in un cassetto e il titolo riemerse dalla memoria di Bruce in modo quasi inconscio. Certo il regista ci restò male, ma Springsteen non negò mai l´accaduto e quando poi Schrader riuscì a “montare” il progetto gli regalò una canzone, “Light of Day”, rimasta a lungo inedita salvo la colonna sonora del film omonimo (dove la esegue Joan Jett, anche interprete accanto a Michael J. Fox). Era una storia di rockers operai, di gente che lavora duro e usa la musica come valvola di sfogo: molto “springsteeniana”, Schrader aveva visto giusto. Il film aveva una valenza duplice, come càpita quasi sempre nella cultura americana quando la critica sociale incontra il patriottismo: la prima sa essere dura, serrata, ma il secondo in America è una cosa maledettamente seria anche per i “radical” più arrabbiati, e questa è una cosa che noi europei (forse, soprattutto noi italiani, che della patria abbiamo un’idea molto calcistica e poco radicata) fatichiamo sempre a comprendere. “Born in the U.S.A.” è un titolo che può essere recitato, al tempo stesso, con amarezza e con orgoglio. Era così per Schrader ed era sicuramente così anche per Springsteen, anche se nella canzone, a leggere bene le parole, è l´amarezza a prevalere.
Per gli “springsteeniani” doc, club al quale l´autore di queste righe afferma senza pudore di appartenere, il dubbio non ci fu mai, la “captatio” di Reagan sembrò immediatamente una gaffe e la risposta di Bruce fu liberatoria ma scontata. Era ovvio che le cose stavano così! Però i media ci cascarono. Le immagini di Bruce in concerto, con la bandana (lo stesso indumento di Rambo!), contribuirono all’equivoco. Si cominciò a parlare di “rock reaganiano”. Ribadire oggi che non fu mai un problema nostro serve fino a un certo punto. In realtà il problema era anche nostro. Per due motivi, uno personale (quindi secondario) e uno globale. Quello personale – di tutti gli “springsteeniani”, non solo di chi scrive – era che con “Born in the U.S.A.” il nostro eroe diventava patrimonio comune. Succede sempre, quando un artista amato dagli adepti diventa una star mondiale: si è gelosi! Bruce era già famosissimo, ma “Born in the U.S.A.” diventò il secondo disco più venduto di sempre dopo “Thriller”, trasformando il suo autore in un fenomeno mondiale. E se noi, che conoscevamo Bruce dai tempi di Asbury Park, sapevamo bene che non era reaganiano e non si sarebbe mai venduto, i ragazzini che usavano “Dancing in the Dark” per ballare in discoteca che ne sapevano? Qui sta il nocciolo, e si arriva al problema globale: quando un disco vende milioni di copie in tutto il mondo diventa anche un fatto di costume, ed entra in un circolo mediatico che anche l´artista stesso fatica a controllare. Bisogna dire che Bruce fu, ed è ancora, bravissimo: la gestione oculata, non inflazionata, della propria immagine e delle proprie parole è una cosa in cui è veramente un fenomeno. Ma l’84 fu il momento della carriera in cui rischiò grosso: avesse sbagliato una mossa, avrebbe insidiato il trono di Madonna e di Michael Jackson, invece rimase se stesso e ormai, a 54 anni compiuti, non è più in pericolo.
Il vero aiuto gli venne da dentro, dalle canzoni, dalla musica, e dalla consapevolezza di sé. Usiamo “canzoni” al plurale perché, quando si passa a parlare di “Born in the U.S.A.”-disco, è giusto ricordare che si tratta di una raccolta di pezzi semplicemente mirabolante (non a caso quasi tutti divennero singoli di successo). E furono le altre canzoni a salvare “Born in the U.S.A.”-canzone, a illuminarne di riflesso il significato. Furono la paura di “Cover Me”, i ricordi adolescenziali di “Glory Days”, il manifesto generazionale di “No Surrender”, persino la sana ambiguità di “Bobby Jean” (il cui testo può essere riferito sia a una donna che a un amico, con spostamenti di senso e latenze omoerotiche estremamente stimolanti: la risposta migliore a chi accusa Bruce di essere “machista”). Fu, soprattutto, il brano-gemello di “Born in the U.S.A.”, “My Hometown“: il paesaggio è lo stesso, una città dove le fabbriche sono chiuse ed è arrivata la violenza (razziale, stavolta); ma il personaggio, anziché un reduce senza lavoro, è un padre di famiglia che il lavoro rischia di perderlo, e pensa (come Tom Joad!) di emigrare, di andare a Sud, ma intanto porta in giro il suo figlioletto in auto, lo fa sedere sulle sua ginocchia davanti al volante e gli dice di “take a good look around”, di guardarsi bene attorno: “this is your hometown”, questa è la tua città. Ed è già una “city of ruins“, una città di rovine, titolo di un pezzo che Bruce avrebbe scritto molti anni dopo.
Musicalmente, “Born in the U.S.A.” è un inno rock mentre “My Hometown” è una ballata che riprende, con un arrangiamento appena più ricco, le atmosfere di “Nebraska”: e quindi anticipa quelle di “Tom Joad”. Questo per ribadire che il disco oggi ventenne era, stilisticamente, molto eclettico: una sorta di catalogo di ciò che Bruce poteva e voleva fare con la E Street Band. C’era persino un brano quasi “disco”, l´unico che anche a distanza di vent’anni continuiamo a non amare: “Dancing in the Dark”. Però lo ama lui, e lo amano tanti ragazzi più giovani di noi, che ai concerti vogliono anche ballare, per cui va bene così: Bruce continua a riproporlo in concerto e ogni volta è una festa. Non è sicuramente un caso che anche il brano “Born in the U.S.A.” venga sempre suonato dal vivo, ma spesso in versione “unplugged”, voce e chitarra: così l´inno sparisce e rimane solo il lamento. Gli equivoci sono finiti. All´epoca, Bruce si salvò dall’omologazione e dall’edonismo reaganiano grazie ai suoi valori profondi e alla forza della musica. Oggi, vent’anni dopo, è vivo e vegeto e lotta sempre insieme a noi. I ragazzi del “new world order” fanno di tutto per farci sentire soli, ma finché noi abbiamo Bruce, e lui ha noi, non ci riusciranno.
NOTA: Abbiamo corretto una svista in quest’ottimo articolo di Alberto Crespi: l’inno americano è “The Star Spangled Banner” e non, com’era scritto nell’articolo originale, “Stars and Stripes” (quella è la bandiera…)
Sul nostro sito non perdetevi la versione livornese della title-track, che abbiamo letto addirittura in diretta su Controradio di Firenze anni fa.
Budello ‘ane so’ nato ‘n una città di morti
messo appena ‘n piede ‘n terra, giù carci peggio ‘a’a’n zomaro
dé, diventi peggio d’un cane smusato di nidio
e passi tutta la vita solo a cercà ‘n refugioPerché so’ nato nell’Uessé
So’ nato nell’Uessé
So’ ameriàno, dé!
So’ nato nell’Uessé…
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