di Gian Piero Testa
Sono già passati quarant’anni da quel 1973 che vide il grande risveglio della Grecia che si scuoteva di dosso le catene della dittatura militare. Ho ricordi abbastanza netti di quell’anno cruciale. Insegnavo al Liceo Scientifico di Como e nello stesso tempo avevo preso a dirigere la CGIL Scuola della mia provincia sindacale. Al principio dell’estate erano in corso i congressi delle categorie e delle camere del lavoro che sarebbero culminati, per la prima e l’ultima volta nella storia della confederazione, in un meeting nazionale nel profondo sud, a Bari, di cui conservo un bellissimo ricordo e la nostalgia di un sogno che fu impossibile realizzare. Quando toccò a noi di fare il congresso della nostra camera del lavoro, dal centro ci spedirono una delegazione greca, composta di due giovani, di cui ho dimenticato (o mai saputo) il vero nome ma non le personali caratteristiche.
Erano molto diversi l’uno dall’altro. Il più giovane aveva l’aria di uno studente in vacanza, con un’idea fissa, quasi una personale missione, da compiersi tra le delegate e gli angeli del ciclostile, che aveva poco a che fare con la politica propriamente detta. Si era tutti giovani, allora; e le nostre compagne, pur preferendo e contendendosi l’altro, sentivano comunque il fascino che allora emanava un perseguitato politico. L’altro, di poco più anziano, era invece profondamente compreso del compito di cui era incaricato. Serissimo, informatissimo, asceticamente frugale. Forse le differenti caratteristiche nascevano da differenti esperienze di “incontro” più o meno ravvicinato con il regime vigente, o forse da differenti collocazioni politiche (e relativi imprinting) ; ma non stemmo a indagare, perché in patria quelli avevano famiglia e compagni; in Italia non mancavano spie e fascisti complici della Giunta: e, in certe situazioni, meno si sa e meglio è. Li affidarono a noi della scuola, perché li intrattenessimo e facessimo loro conoscere le nostre ridenti plaghe lacustri. Passammo così diverse serate a casa mia, che allora avevo ampia e accogliente. Il più giovane si dedicava alla sua personale missione, discretamente coadiuvato dalle compagne. L’altro conversava con me e, naturalmente, si parlava di Grecia.
Si stavano muovendo, i Greci, specialmente gli studenti. Non più gesti individuali, quasi disperati, come quello dello studente liberale che qualche anno prima era venuto in Italia a darsi fuoco, imitando i bonzi del Vietnam e quel Jan Palach di Praga, sul lungomare di Genova. Il movimento stava diventando di massa e ardiva fare rivendicazioni politiche. Due anni prima la dichiarazione del poeta premio Nobel Seferis contro la dittatura; e soprattutto i suoi funerali, seguiti di lì a non molto, trasformandosi in una vera e propria manifestazione antifascista, come quelli di Palamas durante l’Occupazione, avevano mostrato che lo spirito democratico non era sparito dalla Grecia, pur rimanendo allo stato potenziale. Ma ormai gli studenti erano stanchi di vedersi privati della possibilità di organizzarsi, di eleggere i propri organismi, di riunirsi, di scendere in piazza, come i più anziani di loro erano abituati a fare prima del colpo di stato, e volevano chiedere quello che in tutto il mondo i loro coetanei stavano reclamando: pace, libertà politiche e individuali, svecchiamento culturale e antropologico, eccetera, eccetera.
E la scintilla accesa dagli studenti poteva trasformarsi in un grande incendio di popolo, capace di mettere alle strette i tiranni. I Colonnelli avevano steso una cappa di paura e di proibizioni sulla Grecia, che per alcuni anni aveva costretto tutti o a strisciare o a fuggire all’estero: ma ora ne stavano sollevando qualche lembo, anche grazie alla pressione internazionale alimentata dai grandi fuoriusciti greci: attori, musicisti, cantanti di vaglia che giravano il mondo per suscitare simpatia per il loro popolo in catene. E a quei leggeri spifferi d’ossigeno e a quei barlumi di luce la gente si stava rivitalizzando. Nei teatri, antico amore dei Greci, dopo anni di commedie scioccherelle aveva fatto irruzione Brecht, perché la censura – pur sempre in vigore – aveva un poco allentato i suoi lacci. Molti greci andavano e venivano dall’estero, perché il numero chiuso delle università li costringeva – quelli che ne avevano i mezzi – a emigrare per laurearsi. Molti lavoratori emigrati stavano da anni in Germania, e dalla Germania arrivavano in Grecia trasmissioni radio in lingua nazionale che molti avevano preso l’abitudine di ascoltare.
Insomma, pur sempre incapsulata, la Grecia aveva occhi aperti sul mondo, sapeva che cosa vi accadeva, e sapeva a chi attribuire le responsabilità della propria situazione. I maggiori imputati erano gli U.S.A. di Richard Nixon.
A febbraio gli studenti del Politecnico si erano messi in agitazione. L’abitudine dei Colonnelli di inviare al servizio militare forzato gli studenti riottosi, o anche solo dai capelli troppo lunghi, doveva finire un buona volta. Ne avevano militarizzati quasi un centinaio in base a una legge che avevano fatto apposta per ricattarli. Alla prima astensione dalle lezioni, all’inizio di febbraio, la polizia aveva violato l’immunità dell’istituto e aveva effettuato 11 arresti. Ma invece di stroncare l’agitazione, la repressione l’aveva rinvigorita e allargata. Verso la fine del mese erano migliaia gli studenti che occupavano la facoltà di Giurisprudenza, giurando di non mollare fino al ripristino delle libertà accademiche e del diritto di asilo, e alla revoca delle misure antistudentesche oppressive e ricattatorie. La polizia aveva ripetuto pesantemente l’irruzione nel territorio inviolabile per disperderli.
Così il compagno greco mi rappresentava la situazione, che gli sembrava in movimento e aperta a sviluppi futuri. Poi il congresso finì e con esso il soggiorno lariano dei greci, che mi auguro sia stato loro tanto gradevole, quanto fu interessante per me, che mi misi a seguire con maggiore attenzione e con crescente passione le notizie di là.
L’ 11 di settembre il putch cileno del generale Pinochet faceva però intendere che la linea degli americani non cambiava; e, mentre amaramente pensavo alla patria di Pablo Neruda, anche temevo che i colonnelli greci ne avrebbero tratto incoraggiamento per insistere nella loro ottusa e criminale oppressione. In più, inutile nasconderlo, temevo per il paese mio, che da quattro anni era evidente scenario delle mene degli americani e dei loro amici mediterranei, al punto che ogni nostra conquista sociale incontrava sanguinose repliche dal cuore oscuro dello Stato e dai rinati fascisti.
E, nell’ottobre, la guerra del Kippur non permetteva di aspettarsi dagli americani nessuna riconsiderazione dei comportamenti dei loro amici, che ben foraggiavano nel Mediterraneo orientale.
Eppure, alla metà di novembre, arrivarono le attese buone nuove dalla Grecia. Gli studenti avevano ripreso il movimento. Il 14 avevano occupato l’ Ellinikò Metsòvio Politechnìo di via Patissia, già teatro del primo conato di febbraio. La Grecia tornava a parlare la “nostra” lingua: quella della contestazione, degli slogan, delle occupazioni, cui ci eravamo da diversi anni assuefatti. Era come se rientrasse finalmente nel nostro mondo per raggiungerci nel punto in cui esso era avanzato pur senza di lei.
Mi colpì – non subito (poiché lì per lì percepivo il tutto solo come un “momento epico”), ma un po’ più tardi, quando ci ripensai avendo a disposizione molti particolari in più – la grande padronanza dei fattori comunicativi, sia sul piano tecnologico, sia su quello simbolico, che dimostravano quegli studenti. Sicuramente gente colta, esperta di quanto accadeva nel mondo, consapevole delle dinamiche rilevate altrove in situazioni simili, ma anche consapevole della storia e delle sensibilità proprie del suo Paese.
Non fu solo un fatto epico, né solo politico, ma più profondamente e largamente culturale – radici profonde e ampiezza di sguardo – nel quale convergevano il globale e il locale, il politico e lo psicologico, la sincronia e la diacronia, e l’uso sapiente di tutti i mezzi allora disponibili di comunicazione.
Subito, nel laboratori di elettrotecnica, fu allestita la stazione radio: ci pensò uno studente, Yorgos Kyrlakis, il cui nome venne fuori più tardi. Furono subito familiari in tutta Atene le voci del Politecnico: quelle di Maria Damanaki e di Dimitris Papachristos, due ragazzi che, come antichi pallikari di Makryiannis senza pane e senza carabine, non lasciarono la postazione se non quando, quasi un’ora dopo l’irruzione dei carri armati, vennero arrestati con in pugno i loro microfoni.
Io non se so ci fosse una regia, perché non ho abbastanza studiato l’avvenimento. Ma non lo credo. Una regia sovrimposta da un gruppo o da una parte, avrebbe visto all’istante vanificate le parole d’ordine per opera di altri gruppi, di altre parti: come spesso accadeva da noi, forse perché noi agivamo, e qualcuno anche ci giocava, in contesti magari aspri, ma assai meno drammatici di quello greco.
Penso piuttosto a un rarissimo caso di intuizione politica diffusa. Sul piano politico, gli avversari e gli obiettivi erano chiarissimi e chiaramente espressi.
Avversari, il potere dei militari e gli U.S.A.: gli U.S.A. non per pre-venzione, ma (lasciatemi inventare una parola) per… post-venzione. Non lo dicevano solo i brezneviani del ku-ku-e, ma erano tutti, proprio tutti, convinti che le levatrici dei Colonnelli erano rivestite di stelle e strisce. Per questo, nel rivedere nelle foto del tempo i cartelli appesi alle cancellate del Politechnìo, viene da pensare piuttosto a una manifestazione antiamericana, che a una battaglia per uno stato di diritto di tradizione occidentale.
Gli obiettivi: né angustamente corporativi, né spostati tanto avanti da compromettere il consenso più largo. Solo i fascisti non dovevano condividerli. Ecco perché la radio ripeteva continuamente:
«Edhò Politechnìo! Qui Politecnico! Popolo della Grecia, il Politecnico è il portabandiera della nostra lotta, della vostra lotta contro la dittatura e per la Democrazia».
Il messaggio era semplificato al massimo: ma inequivocabile nel suo significato politico, perché sfidava a viso aperto i Colonnelli, offrendo una parola d’ordine immediatamente fruibile e condivisibile da tutti i non fascisti: ripristino della democrazia rappresentativa, dei diritti umani, civili e politici. E in più «pane, istruzione, libertà», parole che ricorrono ancora nelle odierne commemorazioni del quarantennale, con evidente riferimento alla crisi e alle misure antipopolari prese da un governo proconsole di interessi stranieri.
La colonna sonora curava d’essere la più greca possibile, insistendo sull’inno nazionale – riduzione di quello alla Libertà del vate risorgimentale Dionisis Solomòs – e chiamando a presenziare cantanti popolari come Nikos Xylouris, che si esibì in “Quando verrà la bella stagione“, la spietata canzone cretese di lotta contro l’oppressione ottomana. Del resto più volte, attraverso la radio, gli occupanti si definirono “I liberi assediati”, come gli eroi della famosa difesa di Missolungi del poemetto incompiuto di Solomòs.
1973: Nikos Xylouris assieme agli studenti del Politecnico di Atene.
Il ricorso alle canzoni risorgimentali con il riferimento esplicito alle armi, che esse contengono, valeva come un appello a usare ogni mezzo per travolgere la Giunta. E, di fatto, l’incendio si estese rapidamente non solo alle altre università del Paese, ma agli stessi quartieri di Atene e della sua conurbazione, dove sorsero numerose le barricate e ci furono scambi di arma da fuoco.
La lotta, così impostata, era intelligente e di per sé vittoriosa, sia che venisse repressa nel sangue – come entro pochi giorni accadde – sia che la Giunta si risolvesse a fare concessioni. Non fu, al momento, risolutiva: ma, mostrando che la terra greca vacillava infida sotto il peso dei barbari pié, avrebbe spinto i barbari, l’anno dopo, al loro estremo atto di stupida infamia: il colpo di stato a Cipro, preludio della contromossa turca e del venir meno della fiducia americana nei loro confronti, con la conseguente fine del regime.
I Colonnelli si presero un paio di giorni, il tempo minimo per decidere e organizzare la risposta. Che fu l’unica concepibile dalle loro menti limitate: vendicativa, violentissima e vigliacca.
Alle tre del mattino del 17 novembre, tre carri armati AMX 30 si presentarono all’ingresso principale di via Patissia. Coprivano un folto commando di LOK, truppa addestrata a spericolati interventi tattici… in montagna; mentre la polizia andava ad occupare la via Sturnaras, su cui si apre un ingresso secondario del Politecnico. I carristi ascoltarono per un po’ l’inno nazionale cantato dagli studenti e i loro inviti alla disobbedienza. Poi, il primo carro sfondò la cancellata, senza fare vittime.
I LOK provvidero a rastrellare e riunire gli studenti per sospingerli fuori della porta di via Sturnaras, dove la Polizia, già schierata ad attenderli, li attaccò con tutta la brutalità di cui era ed è ancora assai capace.
Sparava anche dai tetti e dalle terrazze, prendendo la mira. Intorno al Politecnico gli uccisi furono una ventina.
Poi per tutto il giorno e per quello successivo fu caccia all’uomo e sparatorie per sgominare gli spazi police free dei quartieri.
Riprendendo dopo lunga pezza interesse a questo argomento, credevo di venire finalmente a capo del bilancio – sin dal principio controverso – dei morti e dei feriti del 17 – 18 novembre. Mi rendo conto – sempre che non mi sbagli – che non è così. A quarant’ anni di distanza, le cifre sono rimaste oscillanti. Si va da quelle, minimali, del primo rapporto stilato dalle autorità in carica il 19 novembre, a quelle accertate dal procuratore per il processo celebrato nel dicembre 1975 a carico dei maggiori responsabili dell’eccidio, che consentirono al tribunale di emettere dure sentenze – implicanti anche ergastoli plurimi – contro altissimi ufficiali di polizia e lo stesso capo del governo, Yorgos Papadopoulos, il quale, per questi fatti, si buscò 25 anni.
Ma lo scavo dei giornalisti e, soprattutto, il libro di Christos Lazos, il maggiore storico dei movimenti studenteschi greci dal 1821 al 1973 (edito nel 1987 e riedito nel 2007), dilatano assai la portata dello spargimento del sangue dei cittadini. Si arriva a contare 99 morti e almeno un paio di migliaia di feriti, compresi quelli delle forze armate, anche se gli elenchi mostrano dati anagrafici incompleti, che non lasciano escludere alcune sovrapposizioni di persona. E’ praticamente ancora impossibile analizzare dal punto di vista sociale il tipo di partecipazione alle sommosse. Sembrerebbe prevalere il ceto medio e professionale: ma c’è ancora troppo poco di certo per affermarlo.
Il fatto che dopo quarant’anni resti da compiere un bilancio certo e definitivo a me sembra inquietante. E’ come se una oscura mano sia riuscita per tutto questo tempo a tenere chiusi i cassetti e a rendere timidi molti parenti di quanti allora furono assassinati.
Dagli elenchi dei morti, tre nomi pungono il lettore di speciale pathos: quello di Dimitrios Theodoras, di anni 6, quello di Ekaterini Arghiropoulou, di 75 anni, e quello di Dimitrios Touloupas, sergente, che fu ucciso sul posto dal suo superiore per essersi rifiutato di sparare contro gli studenti.
Alle celebrazioni in corso stanno partecipando personaggi meritevoli, ex meritevoli, e immeritevoli. Come in tutte le celebrazioni della resistenza.
Per qualche giorno il Politecnico ha riaperto i battenti, chiusi da due mesi per l’agitazione del personale non docente contro i tagli e le soppressioni calati su tutto il settore dell’istruzione e dell’informazione pubblica. Alla fine delle celebrazioni decideranno se continuare la lotta.
Novembre 2013 – Sulla cancellata del Politecnico: NO ALLA DISTRUZIONE DELL’EDUCAZIONE NO AI LICENZIAMENTI
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