In questi giorni in cui sono in scena con uno spettacolo sulla tradizione popolare toscana, mi accorgo ancora una volta, e sempre di più, di quanto i canti popolari siano in grado di trasmettere un senso profondissimo, che da una parte è legato in maniera sostanziale al contesto particolare che lo ha generato, e dall’altra lo trascende trasmettendo valori universali.
Penso ai canti d’amore che abbondano nella cultura popolare toscana, nella sua cultura contadina: nell’Ottocento chi raccoglieva rispetti e stornelli d’amore ricollegava questo fatto addirittura all’eros platonico, laddove si tratterebbe invece di ricollegare il cantar l’amore alla necessità di un rinnovellarsi continuo del legame sociale. Penso al cantar del maggio, dove si propizia buon raccolto. E penso ai canti sociali, che raccontano storie universali. Come quella di Rodolfo Foscati: un fiorentino, a quanto pare, condannato per un delitto passionale, e finito in carcere. La struggente canzone a lui dedicata racconta della sua entrata in carcere, della deprivazione di identità che il carcere comporta, della sua riduzione a numero: e la cosa, in questi giorni della Memoria, ha risuonato terribilmente con le testimonianze dei deportati dei lager, che all’ingresso dovevano dismettere il proprio nome e diventare un numero, quel numero tatuato sul braccio. «Questo numero che oggi indossate / vi cancella da i’nome e casato, / Centosette sarete chiamato / e Rodolfo Foscati mai più».
Sul sito «Canzoni contro la guerra» una vera miniera di canzoni (non solo contro la guerra), ci sono alcuni percorsi interessantissimi, come quello «Dalle galere del mondo», che contiene 288 canzoni che permettono di entrare nell’universo carcerario nello spazio e nel tempo, a riprova di quanto il canto sia meravigliosamente particolare e universale nello stesso movimento.
Nella foto: Caterina Bueno con il Coro degli Etruschi, Grosseto 1975.
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