Trent’anni fa, nel 1984, usciva “Creuza de mä”, e si è pensato che un album del genere meritasse una pagina speciale contenente una canzone del tutto speciale che ne fa parte: Jamin-a. Fabrizio De André diceva che era “l’unica canzone erotica del suo repertorio”.
Forse non è proprio vero, ripensando magari all’antichissima “Barbara” (ad esempio), ma resta il fatto che “Jamin-a”, dedicata a un’amica algerina di Faber, è veramente un pozzo di sensualità, di sesso e di vita dal quale non si esce e non si vuole uscire.
Lingua infuocata, Jamina
lupa di pelle scura
con la bocca spalancata,
morso di carne soda
stella nera che brilla
mi voglio divertire
nell’umido dolce
del miele del tuo alveare.
Di “Creuza de mä” abbiamo quasi tutte le canzoni nel sito, compresa, ovviamente, Sidùn; nei giorni dell’ennesimo attacco israeliano su Gaza, lo vogliamo ricordare anche su questa pagina dedicata a ben altra e vitale esplosione, anche come antidoto a moralismi e “purezze” che rappresentano l’unico, vero degrado di morte di questo tempo. Fosse per certa gente, nel centro di Genova non ci sarebbero più Jamine, ma salottini, banche, “sicurezze” e polizia. Al diavolo. Noialtri si vuole restare totalmente impuri e insicuri, tanto più che l’unico luogo dove si rischia quotidianamente la vita è la famosa “famiglia”. Con Jamina non si rischia nulla e si sta da dio.
Attravero i suoni e le urla del mercato del pesce di Genova, Jamin-a ci conduce nel mondo dell’erotismo. Non si può definirla una prostituta, anche se è chiamata sultana delle bagasce: è una macchina perfetta del sesso, è un’instancabile goditrice dei beni della carne, è quella donna della quale si terrebbe nascosto perfino il desiderio, ma che molti vorrebbero incontrare, almeno una volta, nel loro navigare. Gli aggettivi per definirla si sprecano: lingua infuocata – lupa di pelle scura – morso di carne soda – sugo di salse di cosce – stella nera che brilla – labbra di uva spina… Il linguaggio è tenuto sempre lontano dalla volgarità ed il testo non ha niente da invidiare ad alcune poesie di Catullo, anche se, nella traduzione in italiano, questo aspetto può andare perso.
[Matteo Borsani – Luca Maciacchini, Anima salva, p. 137]
Nel compiere la loro ricognizione sulle musiche del “nostro” mare, De André e Mauro Pagani non sono andati alla ricerca delle radici di una cultura per affermarne la superiorità: al contrario, la loro è una dimostrazione, poetica ma non per questo meno impietosa, che non esiste nessuna superiorità identitaria, che la presunta “tradizione” può avere un senso solo nel momento in cui viene ibridata, sfidata, riutilizzata, messa in discussione. Ho usato di proposito il verbo “ibridare” e non “contaminare”. Il concetto di “contaminazione”, pur ribadito ad nauseam anche in ambienti che si vorrebbero tutt’altro che razzisti, è un altro di quelli di cui faremmo meglio a sbarazzarci il più in fretta possibile. La “contaminazione”, per esser tale, presupporrebbe una iniziale o mitica “purezza” (di sangue, di stirpe, di nascita, di costumi…). Ma niente nasce “puro”: nessun popolo, nessuna lingua o musica. Tutto è già in partenza “contaminato”.
Potrebbe essere questo il senso, uno dei sensi, di Crêuza de mä, anzi la sua allegoria profonda, per usare la terminologia di Benjamin: non c’è nessuna purezza; ci sono, semmai, millenni di culture (rigorosamente al plurale) da interrogare. L’ipotesi non è implausibile, se teniamo conto che De André aveva inizialmente l’idea di scrivere i testi in una lingua inventata, sorta di grammelot del marinaio, misto di tutte le lingue “impure” parlate nei porti e nelle città che attorno ad essi vivono.
Luca Casarotti, da Carmilla On Line
Nell’immagine: “Seduzione” di Milo Manara.
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