I Gang stanno preparando un nuovo disco, al momento inedito. Sul loro sito c’è un diario di bordo e la presentazione dei nuovi brani.
Tra le canzoni che faranno parte del nuovo disco, aspettiamo in particolare di poter ascoltare “Gli angeli di Novi Sad“. Partendo dalle riflessioni dei fratelli Severini, proviamo a ripercorrere un nodo cruciale per la definizione del Nuovo Ordine Mondiale in Europa: la guerra alla Serbia nella primavera del 1999.
Di solito una canzone non nasce seguendo una linea sola ma si comincia a camminare a cercare lungo una di esse poi si incontrano tante altre linee..magari ad un incrocio si pigliano altre strade poi si inciampa si scarta di lato. Più che una linea é un insieme di linee molto diverse, inconsuete, impreviste, che fanno una prospettiva…una canzone.
Ogni volta che passo per Pisa se ho un paio d’ore di tempo vado in piazza dei Miracoli..ma più che salire sulla Torre mi reco al cimitero monumentale per godere della visione del “Trionfo della Morte”. E’ uno spettacolo incredibile, un grande affresco che ogni volta mi trasmette una grande emozione.
Hermann Hesse nel suo “Dall’Italia” ne parla come di “un possente dipinto che ancora oggi è capace di immergere l’animo di chi lo osserva in ombre funeree e in lugubri pensieri”.
Il malinconico misticismo del medioevo al tramonto.Gli angeli della canzone sono un po’ delle figure che potrebbero stare in quell’opera, sono mezzi demoni o almeno degli angeli che sono passati per l’Inferno…
Posso dire che quest’opera ha influenzato molto lo stato d’anima della canzone che vi sto raccontando.
Ho sempre avuto la sensazione che la guerra in Kosovo fosse stato il patto fondante della Nuova Europa, quella che conosciamo oggi, quella dopo il Muro per intenderci. Ebbene, in ogni atto fondativo si prende una vittima sacrificale e in questo caso la vittima è stato il popolo serbo. Il nemico, il mostro, colui che bisognava sacrificare al nuovo ordine d’Europa.
Il resto, le atrocità, l’orrore, è stato la conseguenza di chi ha voluto tutto ciò, l’ha provocato e poi è restato a guardare; l’Europa.Per mettere ancora meglio a fuoco quella che è stata la guerra nella ex Jugoslavia e per non unirmi al coro “semplicistico” d’occidente contro le atrocità della guerra “etnica” e per non puntare il dito sulla vittima sacrificale e per Un senso di giustizia verso il popolo serbo, sono stati importanti due libri di Peter Handke “Un viaggio d’Inverno” e “Appendice ad un lungo viaggio d’inverno”.
Il primo, che porta come sottotitolo “giustizia per la Serbia”, è un viaggio della scrittura e della memoria. Contro le falsità e le semplificazioni dell’occidente e dei suoi mezzi di comunicazione, su una guerra atroce e per molti versi non ancora finita.
Il secondo è un percorso attraverso il dolore e il lutto in una realtà senza prospettive privata del presente e del futuro di quel senso della durata che è “la cosa più bella e più grande” che una generazione può lasciare in eredità a quella successiva.
Come ricordano i Gang, in “Un viaggio d’inverno” Handke non risparmia critiche alle semplificazioni colpevoli di stampa e televisioni europee, impegnate a cercare per le guerre jugoslave una divisione manichea che distinguesse i buoni dai cattivi, nel tentativo disperato di fare rientrare nei nostri schemi hollywoodiani una realtà complessa che richiederebbe invece risposte complesse. Le Monde ha liquidato il libro come un “pamphlet di polemica filoserba”, Handke è stato accusato di “difendere gli assassini” e il consiglio comunale di Dűsseldorf ha deciso all’unanimità di rifiutargli il premio Heine per la letteratura
Ma il libro si smarca presto dalla semplice polemica contro i media, rivendicando la differenza della letteratura dal giornalismo, andando a soffermarsi sulle “terze cose”, quelle che un giornalista dal suo ufficio di Parigi, Roma o New York non può o non vuole vedere e raccontare. Seguendo la regola d’oro del fratello figlio unico di Rino Gaetano (che non ha mai criticato un film senza prima vederlo), Handke, a differenza di chi non esita ad attaccarlo senza magari aver mai letto un suo libro, ha bisogno di recarsi sul luogo, di vedere, di osservare. Di sedersi sulla sponda della Drina dopo aver cercato la stazione delle corriere.
In Italia, a proposito delle guerre dei Balcani, vi sentirete ripetere fino alla noia, spesso da gente che ignora quale sia la capitale della Croazia, della Bosnia o – difficilissimo – del Kosovo, il seguente luogo comune: eh certo, Tito era sì un dittatore, però almeno li ha saputi tenere insieme. Poi quelli già si odiavano da prima, figuriamoci ora. Poi la favoletta semplice semplice delle motivazioni etniche della guerra, che, insieme a una enorme quantità di profughi, ha creato i presupposti per la cancellazione del più evidente esempio della possibilità concreta di convivenza pacifica tra Islam e Occidente, la Bosnia.
Dopo aver fomentato un’impossibile spartizione su base etnica propugnata come unica possibilità per la pace ecco che l’Occidente si accorge improvvisamente che bisogna fermare la pulizia etnica in Kosovo. Quando, come spiega Paolo Rumiz, le vere ragioni, affaristiche e mafiose, del massacro sono nascoste da ingombranti maschere, ecco che anche la risposta militare appare come inevitabile, ragionevole o persino necessaria. Così nel ’99 il nostro paese si è trasformato in un’enorme portaerei da dove decollavano gli F16 pronti a sganciare le bombe umanitarie. Quel maggio a Belgrado, sotto le nostre bombe, democratiche e di sinistra, c’era, insieme ad Erri De Luca, anche Peter Handke.
Nel mese di maggio del ’99
i cittadini di Belgrado erano tutti astronomi
guardavano per aria, per aria guardavano
l’arrivo degli aerei d’occidente.
A terra tremavano, le pietre tremavano
più dei vecchi, dei cani e dei bambini tremavano.
Le bombe alla grafite tagliavano
l’elettricità, non la fraternità.
Nella primavera del 1999, quando il governo D’Alema autorizza l’intervento militare e l’utilizzo dello spazio aereo italiano per i bombardamenti sul Kosovo a seguito della decisione della NATO, si ufficializza quello “stato di eccezione permanente” che si concretizza in politica estera nella sospensione di ogni diritto internazionale. E’ stato il primo passo che ha aperto la strada alle “guerre umanitarie” e all'”esportazione della democrazia”.
Lasciamo ancora la parola a Marino Severini:
Paolo Rumiz scisse su Repubblica “In una terra che è di per se un ponte tra mondi, i ponti hanno ancora un significato speciale, che da noi è perduto. Ogni ponte che cade è un confine in più e una possibilità di riconciliazione in meno. In otto anni di guerra i ponti più antichi sono stati distrutti più per sdradicare i simboli di appartenenza che per motivi militari. E d’istinto i giovani di Belgrado hanno scelto in questi giorni di fare gli scudi umani con i loro canti e balli non accanto alle chiese o ai monumenti ma lungo i ponti della Slava.
Il premio nobel Ivo Andrić scrisse: “Ovunque nel mondo, in qualsiasi posto il mio pensiero vada o si arresti, trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell’uomo di collegare, pacificare e unire tutto ciò che appare davanti al nostro spirito ai nostri occhi ai nostri piedi affinché non ci siano divisioni contrasti distacchi. I ponti sono più importanti delle case, più sacri e più utili dei templi, appartengono a tutti e sono uguali per tutti sempre saggiamente costruiti nel punto in cui si incrocia la maggior parte delle necessità umane”.Ho scritto questa canzone perché un popolo non si deve mai demonizzare, un giorno tocca a quello serbo ma un altro può toccare al mio popolo.
Perché non bisogna mai identificare un popolo con i propri estremisti.Perché provo ancor oggi in quanto comunista un senso profondo di vergogna nei confronti del popolo serbo in quanto è stato proprio il governo D’Alema ad autorizzare l’intervento militare e l’utilizzo dello spazio aereo italiano per i bombardamenti sul Kosovo a seguito della decisione della NATO. Penso che la storia della sinistra italiana finisca in quel momento. Da lì in poi niente è stato più come prima.
Eppure all’epoca non furono molti a rendersi conto delle implicazioni della prima guerra “umanitaria”. Ce lo ricorda Babsi Jones, l’autrice di un libro fondamentale ma pressoché sconosciuto “Sappiano le mie parole di sangue“, che si scagliava nel febbraio 2003 in occasione delle mobilitazioni contro l’aggressione all’Iraq contro i pacifisti dell’ultim’ora:
Il vostro lider maximo vi disse che non dovevate fare tante storie, che la NATO richiedeva le basi militari di Ghedi e Aviano per sganciare due, tre, quattrocento tonnellate di uranio sulla Serbia, che era una guerra nuova (umanitaria, santa, legittima, preventiva, sbrigativa, intelligente) e dunque non vi venisse in mente di scendere in piazza a fare i girotondi e a canticchiare slogan perditempo. Perdio, era una guerra di sinistra liberale, la prima della storia: dovevate avere un aspetto responsabile e il silenzio sclerotico degli omertosi. E voi – tre, tredici, trentatrè, trecentomila farabutti -, ammutoliti come ammutolisce una finestra chiusa, un incosciente o una bertuccia in gabbia, rimaneste a casa a far la calza, a far l’amore, a farvi i fatti vostri.
Anime morte di sinistra, vi chiamammo. Sinistra di sciacalli, cristiani col muso delle iene. Erano pochi quelli col TARGET (più brutto, in bianco-e-nero, di carta in fotocopia, un gadget meno azzeccato delle bandiere arcobaleno: ora lo capisco, che c’entrava anche il marketing) che presidiavano i ponti nella notte chiedendo che non cominciasse la mattanza. E gli argomenti erano buoni, erano sacrosanti, erano veri, ed erano gli stessi che oggi vi riempiono le bocche come se fossero caramelle mou: che la guerra è la guerra dell’Impero, che con le bombe la democrazia non c’entra niente, che la convenzione di Ginevra e l’articolo 11 dovevano essere la sola nostra storia. Com’eravate sordi. Io scrivevo le mie tonnellate di parole perse, ve le scrivevo da Kragujevac e da Aleksinac, le ripetevo come ipnotizzata dagli ospedali di Belgrado fatti a pezzi e dalle piazze di Leskovac e di Pančevo, ve le spedivo dai ponti pronti a diventar macerie di Novi Sad. E vi dicevo: guardate cosa state bombardando, mettete i vostri nomi sulle bombe che sganciate, e ricordatevi la Serbia del ‘99: perché verrà il giorno in cui io tornerò a chiedervene conto, e a ricordarvi tutte le vostre colpe. QUEL GIORNO E’ OGGI, sinistrini sinistrati e sinistrorsi che sfilate con gli sfilatini al crudo nello zainetto e con le facce sorridenti fra le stelle filanti. Dov’eravate, portatori di pace e beati di giustizia, mentre l’Impero massacrava i belgradesi? I nomi di chi c’era, a far la ronda su una briciola di pace, a pitturare i NO sulle facciate delle case e sulle guance, me li ricordo tutti. Erano pochi. c’era Il Manifesto, c’era Rifondazione Comunista. C’era quello stesso Gino Strada che oggi state cristallizzando in un’icona (ma era solo, senza un gregge alle spalle a far da coro greco). C’era Peter Handke, coraggioso, c’era Fulvio Grimaldi. C’erano Nichi Vendola e Umberto Galimberti. E c’era Santoro, che c’era così tanto che trasmetteva da Belgrado.
Voialtri, signorini della pace quattro stagioni, eravate a casa a fissare come beoti baciapile il videogame degli F16 in volo sui Balcani: zitti come zanzare secche. Vorrei tanto domandarvi perché la vostra pace-Giano ha due facce e facciate, come le medaglie e le monete, come gli strappi di carta igienica morbida morbida. Vorrei sapere perché questa pace, che domandiamo oggi accusando i generali di alto tradimento della giustizia e della libertà degli uomini non aveva ragione d’essere strillata come belle Cassandre anche per difendere Belgrado. Vorrei sapere perché in una primavera uguale a questa vi trangugiaste con disciplina filo-governativa la propaganda dei maiali bellici, e ora correte come pazzi a invocare il diritto internazionale e la tolleranza: gli stessi di cui vi siete fatti beffe quando a bombardare era la sinistra degli avvoltoi e dei venduti. Esiste una pace di serie A ed una di serie B, esiste una pace che deve andar di moda e una che deve essere lasciata nelle ragnatele dei sottoscala?
Forse il motivo per cui Handke è tanto osteggiato non sta tanto nelle sue prese di posizione quanto nel suo continuo procedere per interrogativi, nel mettere in dubbio pressoché tutte le certezze che gli vengono proposte. In una società che ha bisogno di risposte sicure per riuscire ad accettare ciò che altrimenti risulterebbe inammissibile (loro sono i cattivi, dobbiamo bombardarli) il dubitare, l’interrogarsi è visto come una pratica sovversiva e pericolosa. Ancor più dell’antagonista gonfio di certezze opposte ma simmetricamente identiche, chi dubita di ciò che è considerato patrimonio comune incorre in un’unanime censura. Ma non troveremo mai nessuna risposta se smettiamo di porci le domande.
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