È una delle immagini più famose del Novecento, quella in cui Tommie Smith e John Carlos si trovano sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi a Città del Messico, il 16 ottobre 1968, con i pugni alzati, i guanti neri (simbolo del Black Power), i piedi scalzi (segno di povertà), la testa bassa e una collanina di piccole pietre al collo (“ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato”).
Smith e Carlos facevano parte dell’Olympic Project for Human Rights («Perché dovremmo correre in Messico solo per strisciare a casa?» sta scritto sul manifesto di quegli atleti) e decisero di correre alle Olimpiadi nonostante il 4 aprile Martin Luther King fosse stato assassinato (e molti altri atleti avessero deciso di non partecipare). Tommie Smith arrivò primo (stabilendo il nuovo record mondiale dei 200 metri), Carlos terzo.
Sul quel podio salì sul secondo gradino Peter Norman, un australiano che per solidarietà con i due atleti afro-americani indossò durante la cerimonia la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights.
Bisogna sforzarsi di non guardare i due a testa bassa, il pugno chiuso alzato in un guanto nero, calze nere e niente scarpe, sul podio. Bisogna concentrarsi sull’atleta di sinistra, bianco, lo sguardo dritto, le braccia lungo i fianchi.Bisogna ricordare alcune cose, di quel 1968 perennemente associato al Maggio francese. Il 16 marzo il massacro di My Lai, il 4 aprile l’assassinio di Martin L. King, il 5 giugno tocca a Bob Kennedy. Aggiungiamoci il Biafra, i carri armati sovietici sulla primavera di Praga, la strage di piazza delle Tre Culture poco prima che cominci l’Olimpiade messicana.Bisogna sapere che la finale dei 200 metri la vince Tommie Smith in 19”83 (primo a scendere sotto i 20”) davanti a Norman (20’06”) e Carlos (20’10”). Carlos parte forte, troppo forte. Smith lo passa a 30 metri dalla linea e corre gli ultimi 10 a braccia alzate. Norman ai 100 metri è solo sesto, viene fuori nel finale, supera Carlos negli ultimi metri. Bisogna sapere che nel ‘67 Harry Edwards, sociologo a Berkeley, voce baritonale, discreto discobolo, ha fondato l’Ophr, Olympic Program for Human Rights. L’idea è che gli atleti neri boicottino i Giochi, ma è difficile da realizzare. Chi aderisce porta il distintivo, una sorta di coccarda, ed è libero di manifestare la sua protesta come crede. Smith e Carlos, accolti alla San José perché bravi atleti, a loro volta studenti di Sociologia, portano il distintivo e vogliono manifestare.Bisogna anche avere un’idea sull’età dei tre sul podio. Tutti nati nel mese di giugno. Smith nel Texas, settimo di undici figli. Ha 24 anni. Suo padre raccoglie cotone. Norman è il più anziano, ha 26 anni, suo padre è macellaio, famiglia molto credente e vicina all’Esercito della salvezza. Carlos ha 23 anni, è figlio di un calzolaio, nato e cresciuto ad Harlem.Appena giù dal podio la loro carriera sarà finita, bruciata, e la vita un inferno. Ma loro non lo sanno e, se lo sanno, non gliene importa.
Nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani. Tutto è fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indica la povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos mette al collo (ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato).Smith e Carlos spiegano. E Norman dice: «Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti». Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta. C’è un problema, Carlos ha dimenticato i suoi guanti neri al villaggio, mentre Smith ha con sé quelli comprati da Denise, sua moglie. «Mettetevene uno tu e l’altro tu», consiglia Norman. Così fanno. Smith alza il pugno destro e Carlos il sinistro.”
Gianni Mura
Di’, ti ricordi ancora quel giorno alle Olimpiadi in Messico,
era la cerimonia di premiazione sul podio dei 200 metri
c’era un mormorio festoso in tribuna d’onore
Mr Brundage vestito di tutto punto e con aria solenne
la bandiera a stelle e strisce salì piano verso il cielo in un profluvio di sentimentalismo
nessun occhio era asciutto nell’estasi nazionale
fu allora che si alzarono due pugni neri al cielo
lo scandalo colpisce nel villaggio olimpico
i VIP trangugiano esterrefatti i loro whisky sour
hanno svergognato la bandiera stellata col Black Power
tutti i cuori americani, gonfi, si fermarono
i nostri ragazzi neri si sono comportati malissimoE tu, Mr. John Carlos, ti sei scavato da solo la fossa
perché lo sport sta al di fuori della politica
ti sei piantato da solo il primo chiodo sulla bara
avresti potuto accontentarti della tua grande vittoria
e pensare al tuo futuro di simpatico negro di successo
Ho incontrato John Carlos a Monaco ’72
aveva un lavoro non salariato per l’azienda sportiva Puma
viveva di interviste che costavano 100 dollari
diceva un po’ timido, ”La mia famiglia deve pur vivere”
parlammo sforzandoci per un po’, quando all’improvviso notai una cosa,
una marca con una pantera sulla sua maglietta
dissi, ”Hai ancora contatti, tu lotti ancora oggi per il Black Power”.
Lui stette in silenzio per un momento e poi rispose tranquillissimo:
”Non è una pantera, è un puma.”
Dal 2005, nel campus della San Jose State University troneggia una statua di Tommy Smith e John Carlos nell’atto del loro gesto durante la cerimonia di Città del Messico. La statua è opera dell’artista politico Rigo 23. Il 10 ottobre 2011, John Carlos ha partecipato a Occupy Wall Street; in quell’occasione ha di nuovo alzato il pugno col guanto nero, dichiarando:
”Oggi sono qui per voi. Perché? Perché io sono voi. Siamo qui, quarantatré anni dopo, perché c’è ancora una battaglia da vincere. Questa giornata non è per noi, ma per i nostri figli.”.
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