Everyday Robots è una canzone inquietante e realistica. L’ha scritta Damon Albarn, il cantante inglese che dopo una stagione da popstar con i Blur e le interessanti sperimentazioni tra elettronica e hip-hop della band a cartoni animati dei Gorillaz, ha fatto uscire l’anno scorso il suo primo album solista che si apre con questa traccia che dà il titolo all’intero lavoro.
Nella sua semplicità e ossessività, la canzone è un piccolo capolavoro. Siamo immediatamente calati nella scena di un giorno qualunque su una metropolitana londinese (ma potrebbe essere Tokyo, Parigi o Milano) all’ora di punta quando – dopo una giornata di lavoro – una massa di automi si incammina verso casa.
We are everyday robots on our phones
In the process of getting home
Looking like standing stones
Out there on our own
Ognuno di loro (anzi di noi perché la canzone è significativamente in prima persona plurale) ha con sé un telefonino, uno smartphone (neologismo peraltro assurdo, dato che un computer è per definizione stupido) e fissa il piccolo schermo, completamente alienato dal mondo e dagli altri automi che lo circondano. Nel Regno Unito il tempo medio per il tragitto dal lavoro a casa è 58 minuti , con punte di 75 minuti per i londinesi. “Grazie” al traffico congestionato e alla scarsa efficienza dei mezzi pubblici, penso che in Italia la situazione sia ancora peggiore. Non va meglio a chi sceglie l’automobile privata, “in fila in tangenziale le promesse si sentono tradite.” come cantavano i Gang già anni fa. Naturalmente il tempo speso per raggiungere il luogo di lavoro e tornare a casa non viene considerato orario lavorativo e così all’alienazione del lavoro si aggiunge l’alienazione del viaggio, vanificando anni di lotte per ottenere di “lavorare meno almeno se non puoi starne fuori”.
In piedi su un vagone affollato siamo come delle pietre in piedi, dei menhir (paradossalmente l’uomo tecnologico del XXI secolo viene paragonato alle più antiche e meno tecnologiche opere umane). Isolati dagli esseri umani in carne e ossa che ci circondano cerchiamo la socialità nei cosiddetti “social network” che alimentano invece l’asocialità e l’isolamento. Ormai incapaci di un qualche rapporto diretto e reale, come automi tocchiamo al massimo vari pollici (in particolare i pollici alzati per dire “mi piace”) finché qualcuno dei più deboli soccombe, sopraffatto da nuovi gerghi (twittare, postare, lanciare un hashtag…) e dal mare di “aggiornamenti di stato” dei suoi amici virtuali. Ma non è una grande perdita, sarà solo “one more vacancy”, uno in meno tra i milioni di pendolari che affollano la stazione della metropolitana.
Everyday robots just touch thumbs
Swimmin’ in lingo they become
Stricken in a status sea
One more vacancy
Damon Albarn ha scritto un pezzo che fotografa perfettamente e senza fare sconti a nessuno quest’aspetto della società moderna. Ed è significativo che una canzone del genere non arrivi da un folksinger semisconosciuto un po’ tradizionalista e diffidente verso ogni novità tecnologica, ma da un cantante che è stato prima con i Blur una popstar protagonista dello star system e poi con i Gorillaz uno sperimentatore della tecnologia e dell’elettronica applicata alla musica. L’ossessività dell’arrangiamento ricorda quasi la suoneria di questi onnipresenti telefonini, e il cantante, includendo se stesso nella massa degli automi, ha l’intelligenza di non puntare il dito contro nessuno, ma di limitarsi ad un sottinteso pollice, questa volta rovesciato che ci dice: I don’t like it.
Tutto questo per dirvi che se questa canzone non vi ha fatto venire voglia di ribellarvi, di ricominciare a stringere rapporti umani, a guardarvi intorno o a leggere un libro invece di stare a spippolare sui telefonini, almeno venite a visitare le CCG. Da qualche giorno vi accoglieranno con una nuova home page “mobile” (ridirezione automatica per chi ci visita tramite telefonino) e con le pagine opportunamente ridimensionate per permettere la lettura anche su quegli schermi minuscoli…
L’immagine iniziale è ovviamente di Banksy
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