Géza Áchim, nato a Gyón il 25 giugno 1884 (e dalla sua cittadina natale scelse il nom de plume: Gyóni significa “di Gyón”), proveniva da una famiglia di stretta osservanza luterana, e fu egli stesso teologo protestante. Non verrà mai annoverato tra i grandi della letteratura e della poesia magiara; lo si direbbe un “minore” o qualcosa del genere, di fronte a nomi come Sándor Petőfi, Endre Ady, Attila József, Mihály Vörösmarty e altri. Non fosse che per questa poesia, che è non solo una delle più famose del XX secolo in lingua ungherese, ma anche una delle più citate, musicate, riproposte e quant’altro. Una poesia, tra le altre cose, dal destino assai singolare, strettamente legato a colui che la scrisse: è, con tutta verosimiglianza, diventata la più celebre canzone ungherese contro la guerra, vera icona del pacifismo e dell’antimilitarismo, ed il suo inserimento in questo sito colma veramente una grossa lacuna.
Destino singolare? Occorre conoscere, sia pure per grandi linee, la (breve) vita di Géza Gyóni, che non era affatto -almeno in origine- né un pacifista, né un antimilitarista. Tutt’altro. La vicenda umana del poeta, allo scoppio della I guerra mondiale, era intrecciata con l’accesissimo nazionalismo magiaro dell’epoca. La demagogia nazionalistica aveva fatto breccia in Géza Gyóni come in moltissimi altri ungheresi, che vedevano nella guerra la possibilità di affermare definitivamente la patria magiara; tant’è che era partito volontario. Uno di coloro, come fa giustamente notare Fulvio Senardi nel saggio sul quale si basa quasi totalmente questo articolo, “che Thomas Mann (La montagna incantata) e Italo Svevo (La coscienza di Zeno) ci descrivono in pagine indimenticabili mentre si avviano euforici verso il macello”. Géza Gyóni aveva aderito in modo totale alla follia collettiva; tradizionalista di cuore e di spirito, aveva in odio la famosa rivista Nyugat (“Occidente”), che propugnava ideali letterari e politici rivolti, come si evince dal suo stesso e evocativo nome, all’Occidente in contrapposizione al tradizionalismo popolare e rurale che impregnava ancora gran parte della cultura ungherese dell’epoca. I Nyugatisti erano per Géza Gyóni, “beffeggiatori di ideali e di patria” e nemici delle virtù nazionali in quanto “avvelenati dallo spirito decadente della cultura parigina, intrisa di cosmopolitismo e pacifismo, negatrice della tradizione in nome del miraggio di un radioso ‘santo Domani’” (Senardi). Alla rivista oggetto dei suoi strali, Géza Gyóni indirizzò peraltro durissime parole in una lettera aperta (Lével Nyugatra).
Questo per inquadrare non soltanto la figura del poeta, ma anche le sue motivazioni più profonde. Partito volontario per la guerra, si ritrovò assieme a migliaia e migliaia di suoi connazionali a combattere in Galizia: è l’assedio alla fortezza di Przemyśl. Przemyśl è uno dei sacrari degli ungheresi, forse il principale: vi trovarono la morte migliaia di soldati. Un autentico macello che cominciò a far mutare idea anche a Géza Gyóni, che scrisse proprio nell’infuriare dei combattimenti a Przemyśl, nel novembre del 1914, la sua famosissima poesia. Senza peraltro che le sue motivazioni cambiassero fondamentalmente oggetto: Csak egy éjszakára resta una poesia rivolta contro i Nyugatisti e gli “intellettuali decadenti”, scritta nell’ardita tessitura metrica (sette strofe di sette versi, doppi senari in rima baciata o assonanzata) tipica dello hősi hatos, il “canto eroico” della poesia tradizionale magiara. Ma nella poesia cominciano ad avvertirsi anche echi diversi, particolarmente contro “i retori patriottardi, i faziosi, gli speculatori” e contro un Paese che ha mandato coscientemente al massacro la sua gioventù migliore.
Solo per una notte mandateceli qui:
I faziosi, gli eroi dello zelo.
Solo per una notte:
Quelli che ad alta voce dichiarano: Noi non dimentichiamo
Quando la macchina di morte fa la musica sopra di noi:
Quando invisibile sta per scendere la nebbia,
E mortali rondini di piombo di sparpagliano in volo.
Géza Gyóni era stato anch’egli vittima della peculiare Kultur ungherese, che “odia allo stesso modo i miti occidentali (progresso, democrazia, umanitarismo) e l’oriente slavo, che vomita orde selvagge nella dolce terra ungherese”; una Kultur, come è facile osservare, che non ha cessato certo di esistere in Ungheria. Ebbe a scrivere, inascoltato, Endre Ady: “Il magiaro è un popolo sinistro e triste. / Visse nella rivolta e, per curarlo / gli recarono la guerra e l’orrore / i farabutti, maledetti nella tomba”. Cosa poi accadesse sul fronte di Galizia, dove Gyóni era stato acquartierato dopo l’arruolamento nell’autunno del ’14, è cosa ben nota: a Przemyśl, cittadina fortificata del fronte nord-orientale, dopo il fallimento dell’offensiva austriaca che inaugura la guerra sui Carpazi, cadono in mano ai russi il 22 marzo 1915 quasi 120.000 uomini; austriaci, ungheresi, italiani dell’Istria, del Trentino e di Trieste, ecc.: soldati tutti dell’impero multinazionale e plurilinguistico. Nel macello, il nazionalismo di Géza Gyóni cede il passo ad un sofferto sentimento di fratellanza universale.
Come quella di tanti altri, l’esistenza di Géza Gyóni si concluse nel modo più tragico: il 22 marzo 1915 quasi 120.000 uomini cadono prigionieri dei russi. Sono ungheresi, austriaci e anche numerosi italiani dell’Istria, del Trentino e di Trieste. “Comincia il calvario della prigionia siberiana, da cui Gyóni avrebbe potuto essere salvato se il suo nome fosse stato compreso nelle liste di scambio dei feriti e dei malati; ma ciò non avvenne.” (Senardi). Géza Gyóni, per una delle più classiche beffe del destino, muore a Krasnojarsk durante la sua prigionia nel giorno del suo 38° compleanno, il 25 giugno 1917. “I germi di una svolta pacifista e umanitaria della sua visione del mondo non erano sfuggiti all’Ungheria ufficiale, quella che leggeva con sospetto i suoi versi riportati in patria da avventurose missive. Risale ad allora una lirica, difficile a dirsi se più intrisa di dolore o indignazione: Gõgös Hunniában (Nella superba terra degli Unni, 1916), in cui Gyóni lamenta, non senza una punta di autocommiserazione, la sua sorte di cigno ferito e insanguinato condannato a morire a causa dell’odio e delle calunnie dei compatrioti. Accenti schietti e dolenti, come spesso nelle liriche di questa fase, le poesie degli anni di guerra e di prigionia che rappresentano in effetti, per la vibrazione di toccante autenticità, l’acuto della sua fragile vena: e si tratta delle raccolte Sui campi polacchi, presso il fuoco di bivacco (Lengyel mező kön, tábortűz mellett, 1914), Lettere dal Calvario (Levelek a Kálváriáról, 1916), e dei versi pubblicati postumi.” (Senardi)
Solo per una notte mandateceli qui:
I patrioti dalla lunga lingua latrante.
Solo per una notte:
E quando nasce la luce dalla stella accecante,
Che il loro visi si vedano nello specchio del fiume San,
E quando le acque ondeggiando trascinano nuvoli di sangue ungherese
Che loro gridino piangendo: Mio Dio, basta.Mandateceli solo per una notte,
In modo che ricordino il tormento delle madri.
Solo per una notte:
Che si stringano l’un l’altro atterriti, rabbrividendo:
Che si contorcano, che recitino il mea culpa:
Che si strappino le vesti, che si battano il petto,
Che implorino piangendo: Gesù mio, che cosa ancora?
Inizia poi il percorso di Csak égy éjszakára; un percorso, come già accennato, che la porterà in territori molto lontani da quelli originari. Un percorso strettamente legato, però, al mutamento di prospettiva che lo stesso Géza Gyóni stava sempre più rendendo palese nei componimenti scritti durante l’assedio di Przemyśl e la susseguente, tragica prigionia siberiana; qualcosa che lo rende molto vicino a poeti, ad esempio, come Giuseppe Ungaretti. Csak egy éjszakára ha subito molto presto un processo di popolarizzazione passato necessariamente per il canto (la sua stessa struttura metrica è praticamente identica a quella di molti canti popolari ungheresi); ed il passaggio al canto ha accentuato a dismisura la sua intrinseca componente percettiva contro la guerra in sé. A prescindere dalle sue reali origini, Csak egy éjszakára è divenuta una canzone antimilitarista, in particolare rivolta contro ogni tipo di “trombone” e di grancassa bellicista mentre le masse sono mandate al macello; e così ha attraversato tutto il ventesimo secolo ungherese per approdare al secolo attuale, in un’Ungheria malamente tornata a certe sue storiche pulsioni oscurantiste, xenofobe e fasciste, come una vera e propria icona di qualsiasi movimento pacifista, solidaristico e persino anarchico. Prova ne sia che la versione musicale che qui si dà è assai recente e particolare, a cura della band punk anarchica HétköznaPICSAlódások (il cui nome significa sì “illusioni quotidiane”, con l’accorgimento grafico però che mette in lettere maiuscole in risalto il termine picsa “fica”, formato dall’ultima sillaba della prima parola e della prima della seconda). Abbiamo volutamente scelto di far rappresentare musicalmente questo testo da una band che si rifà espressamente ai Sex Pistols (il brano è pubblicato nell’album RIARIAANARCHIA del 2009) per rappresentare a dovere quanto una canzone possa andare lontano nella percezione e nella fruizione. [RV]
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