In memoria di Muḥammad Shihāb

ruedescarmes

Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome

Questa poesia di Giuseppe Ungaretti ha quasi cent’anni. Cent’anni sono passati da quando il poeta combatteva e conosceva gli orrori della guerra sul Carso, “scontando la morte vivendo”; in mezzo ai brevi componimenti nel quale descriveva la terribile vita di trincea, ebbe a ricordare un amico. “Locvizza, il 30 settembre 1916”, reca il quaderno di Ungaretti; e Locvizza, o Lokvica, è nei pressi del Monte San Michele “bagnato di sangue italiano”, come dice Fuoco e mitragliatrici. Nei pressi, anche, di San Martino del Carso. Luoghi di guerra dove Ungaretti si trovava non di rado a ricordare episodi della vita civile, che sembrava oramai lontana diecimila anni. Una meditazione continua sulla vita e sulla morte, sull’amore e sulla trascendenza.

Tra questi episodi, la vicenda di un amico che si era tolto la vita a Parigi soltanto tre anni prima, nel 1913. Si chiamava Moammed Sceab, così Ungaretti scrive il suo nome nascondendo il vero nome di Muḥammad Shihāb; aveva ventisei anni ed era un egiziano di nobile origine libanese. Era stato coinquilino di Ungaretti in un albergo fatiscente di Rue des Carmes, nel quinto Arrondissement, albergo nel quale si era suicidato. Un episodio, come tutti gli altri, che la guerra aveva certamente contribuito a ricordare, a suscitare; come se ricordare una vita facesse da contraltare alla morte che, in trincea, sempre stava dappresso.

E’ la storia di un senza radici, o di uno sradicato; una storia comune allora come adesso. Di una persona che, esule in un paese straniero, sente di non farne e di non poterne far parte allo stesso modo in cui, oramai, il suo stesso paese gli è diventato estraneo. Se, indubbiamente, è opportuno maneggiare la parola “identità” con molta attenzione, è altrettanto indubbio che la crisi di identità è una tragedia personale che, in parecchi casi, va ad aggiungersi alle altre tragedie che un esule, un profugo, un rifugiato deve subire sulle proprie spalle. Tra queste, la solitudine totale.

Una grande importanza nella storia della mia vita e nella storia della mia poesia deriva dall’incontro, ad un certo momento della mia giovinezza, con Enrico Pea ad Alessandria d’Egitto. Enrico Pea faceva ad Alessandria il commerciante di marmi e nello stesso tempo aveva messo su, sviluppando il laboratorio di falegnameria del suocero, una segheria meccanica. Sopra la segheria meccanica – era ingegnoso Pea -aveva pensato di starci di casa e di destinare uno stanzone, uno stanzone enorme, e altri stanzini accanto allo stanzone enorme, ai gruppi sovversivi che, in quel periodo erano numerosi ad Alessandria.

Tra i giovani sovversivi di Alessandria che si raccoglievano nella baracca del mio amico Pea, c’era un arabo – era forse l’unico arabo in quella baracca – e questo arabo era Moammed Sceab. Moammed Sceab era anche stato mio compagno di scuola. Quindi eravamo doppiamente uniti; eravamo uniti nelle speranze di un mondo organizzato con maggior giustizia, ed eravamo uniti dai ricordi di infanzia e dalle aspirazioni letterarie che avevamo l’uno e l’altro. Aspirazioni diverse: io credevo in una poesia dove il segreto dell’uomo (fin da allora) trovasse in qualche modo un’eco, credevo nella poesia dell’inesprimibile, e invece Sceab credeva – mente logica, arabo discendente da quelli che avevano inventato l’algebra – credeva invece in una poesia strettamente legata alla ragione.

Ecco. Ed avevamo, in fondo, in comune anche un altro dramma: l’uno e l’altro avevamo un’educazione europea, occidentale, francese. Anch’io. Io ero nato in un paese che non era il mio, ero nato ad Alessandria, lontano dalle mie tradizioni; ero lontano dai paesaggi, dalle immagini che avevano accompagnato la vita di tutti i miei. Eravamo l’uno e l’altro, per ragioni diverse, degli uomini che non erano avviati in un modo naturale a compiere il loro destino. E naturalmente queste cose non avvengono nell’uomo senza turbamenti e senza strazi a volte terribili. E la mia, la nostra gioventù, la nostra prima gioventù, quella mia e quella di Sceab, è cosparsa di giovani, di giovani compagni che nelle stesse circostanze delle nostre si troncarono la vita. E anche Sceab a un certo momento si troncò la vita. Sceab a Parigi, lontano dalla sua terra africana – o dalla sua terra araba perché in fondo viveva in Egitto ma non era africano, veniva dal Libano – essendo stato rilavorato da una cultura e da una tradizione diversa, non resisté al dissidio e anche lui si uccise.  (Giuseppe Ungaretti)

ungasoldRimanere sospesi tra una tradizione e una vita lasciate dietro di sé come in un gorgo che si richiude, ed una nuova condizione materiale e culturale che è pressoché impossibile interiorizzare. E’ la condizione usuale del déraciné che Ungaretti ben conosceva. Nato a Alessandria d’Egitto da genitori toscani (lucchesi), dall’Egitto Ungaretti si era trasferito in Francia dove si sentì sempre un senza patria.

Nelle prime edizioni del Porto sepolto, “In memoria” si trova quasi isolata, all’inizio, come se si trattasse di una dedica. Nella raccolta complessiva L’allegria, pubblicata molti anni dopo (nel 1931), il tema complessivo è quello della guerra; e la poesia dedicata all’emico egiziano suicida è ancora una volta lasciata a sé stante, legata indissolubilmente quanto indefinitamente alla guerra.

Tentare con tutte le proprie forze di adattarsi, o di “integrarsi” come si direbbe adesso. Arrivare a cambiare nome; quante volte, conoscendo per intenzione o per caso un attuale immigrato, al sentirsi domandare il proprio nome questi risponde declinando un nome locale, Pietro, Giuseppe, Maria, al posto del proprio nome vero? Qualche anno fa, all’Elba, arrivava sempre a casa un ragazzo del Ghana a vendere la sua mercanzia di quart’ordine; per tutti si chiamava “Alessandro”. Il proprio nome è la propria identità; è ciò per cui tutti ti riconoscono come appartenente ad una tradizione o ad un’altra. In questo il poeta Ungaretti, che pure nome non lo aveva cambiato, si riconosce appieno; l’amico Moammed Sceab è il suo alter ego. Una condizione che il poeta si trova a ricordare e a fissare in versi in una situazione terribile, lontanissima eppure vicina. Lo fa sconvolgendo totalmente una tradizione poetica intera: un linguaggio fatto di parole comunissime, secco, dalla sintassi elementare. Quasi dei piccoli gridi interiori che riescono, però, a coprire il frastuono dei combattimenti.

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse.

Sarebbe forse inutile, al giorno d’oggi, chiedere o addirittura esigere che di tutte queste cose si tenesse conto di fronte a un immigrato; eppure sono cose che molti, anche in questo paese, hanno vissuto. Sicuramente, essere in una trincea a costante e diretto contatto con la morte poteva aiutare a penetrare nel dramma vissuto da chi aveva lasciato il proprio paese per sempre; morendo, resterà una qualche traccia della nostra vita? La risposta del poeta è la poesia stessa, che è anche una risposta di umanità e di amicizia; una risposta attraverso la quale la vita torna a scorrere. Il nome di Moammed Sceab, quello autentico, è rimasto.

Non così quello, ad esempio, delle centinaia di migranti periti in fondo al mare Mediterraneo. Annegati due volte, nel mare e nella massa dei diseredati. Privati di tutto, anche della propria individualità di esseri umani. Ridotti a numeri di statistiche, e senza nessun poeta che si ricordi di loro nel momento estremo. A tutte queste persone vorrei dedicare questa poesia, scritta nell’infuriare di una guerra. [RV]

Nella pagina, la poesia di Giuseppe Ungaretti (che ha trovato una sua musica per opera di Aldo Bova nel 2014, viene presentata anche in parecchie traduzioni, tra le quali si segnala quella della poetessa austriaca Ingeborg Bachmann.