Il 9 ottobre 2011, quando chi scrive non si trovava, come dire, nel pieno delle sue forze, veniva inserita nel sito questa (straordinaria) canzone degli Zabranjeno Pušenje; il medesimo giorno, Marko, in un commento, faceva presente che mancava “una traduzione fatta bene”. Cinque anni dopo, la traduzione è stata finalmente fatta, o tentata, non si sa quanto bene ma perlomeno capace di rendere l’idea di questa storia. Una storia, probabilmente, di tantissimi nella Sarajevo in guerra e sotto assedio: Tri ratna havera, appunto.
Della vicenda narrata della canzone è forse bene fare una sorta di riassunto esplicativo; ma ancor prima, bisognerebbe soffermarsi sul titolo tradotto, forse sbrigativamente, “tre amici in guerra”. Le traduzioni, di solito, funzionano assai poco; da una traduzione, ad esempio, non può risultare come mai –ad esempio- non sia stato utilizzato il termine comune per “amico”, prijatelj, e sia stato scelto haver, termine “sarajevese” quant’altri mai e di origine, ebbene sì, chiaramente ebraica. E’ l’ebraico (e yiddish) khaver (חבר) “amico, compagno”. L’uso di una parola è importante; in questa vicenda dove i protagonisti sono un musulmano, un serbo e un cristiano, per definire la loro amicizia viene utilizzata una parola…ebraica. Quasi a voler far notare che, a Sarajevo, c’era pure una comunità ebraica molto antica; o, forse, anche per rimandare a stermini e a lager vicini e lontani. Chissà; ci sarebbe anche da ragionare sul quel ratna, aggettivo che significa propriamente “di guerra, bellico”. “Tre amici di guerra” o “in guerra”? Senza nessunissima intenzione di autocitarmi, ma soltanto ai fini di questa canzone, mi viene da rimandare alla ”Guerra di Pero”, una vecchia cosa che avevo scritto 16 anni fa e che parlava, più o meno, di una cosa del genere che avevo visto coi miei occhi, nel 1993.
Detto questo, torniamo al riassunto esplicativo. La vicenda inizia il 18 febbraio 1984, il giorno prima della chiusura dei giochi olimpici invernali che si svolsero a Sarajevo. Furono, si dice, una grande festa “dello sport e della fratellanza”; la città visse con entusiasmo quell’occasione, erano stati costruiti suggestivi e modernissimi impianti sulle montagne che circondano Sarajevo e tutti si sentirono coinvolti nonostante il governo federale jugoslavo avesse, per usare un eufemismo, lasciato un po’ sole le autorità bosniache ad arrangiarsi. Furono dominate, quelle Olimpiadi tenutesi in un paese poi scomparso, da un altro paese scomparso: la Germania Est, che vinse ben 9 medaglie d’oro. Seguita da un altro paese scomparso, l’Unione Sovietica, che ne vinse 6. L’Italia ne vinse due: storica quella della sciatrice Paoletta Magoni, che si aggiudicò lo slalom speciale svoltosi sul monte Igman, monte che otto anni dopo avrebbe visto ben altre vicende. Per la cronaca, la Jugoslavia vinse soltanto una medaglia d’argento, ma fu una medaglia storica: era la prima mai vinta dal paese in un’olimpiade invernale. La vinse lo sciatore sloveno Jure Franko nello slalom speciale. (Sulle olimpiadi di Sarajevo si veda magari anche questa bella pagina). Ovunque campeggiavano i manifesti con la mascotte dei giochi, il lupacchiotto Vučko.
Una grande festa; e una “festa terrificante” la fanno pure i nostri tre amici, Mufa, Kiki e il narratore, la notte prima della chiusura dei giochi. Senza minimamente pensare ad essere “musulmani”, “serbi” o “cristiani/croati” o quant’altro; l’antica normalità di Sarajevo. Normalità? Il saggio “zio ciccione” (c’è sempre uno zio ciccione in questi casi, che la sa lunga) sa bene cosa sta covando sotto la cenere e mette in guardia i tre ragazzi ai quali “sta grondando via la gioventù dalla vita”: sì, bravi, fate festa e divertitevi ora, tanto lo vedrete tra poco cosa vi aspetta. Tutto si stava già preparando per le olimpiadi del massacro.
La notte prima che si spegnesse la fiamma olimpica
Mufa, Kiki ed io abbiamo fatto una festa terribile
La gioventù ci grondava via dalla nostra vita
Come un fiume che scorre per un terreno carsico
Tutto quel che c’era, era là, sul tavolo,
Niente ci è restato.E allora disse mio zio ciccione
Un po’ piangendo e un po’ ridendo,
Tutte queste vostre stronzate
Le pagherete, una volta o l’altra.
La vicenda salta infatti, direttamente, ad un’altra, e ben differente, “notte prima”. E’ la notte della “rivolta del popolo armato”: siamo sempre a Sarajevo, ma nell’aprile del 1992. Probabilmente, la notte prima della grande manifestazione contro la guerra che fu attaccata dalle milizie serbe appostate sui monti attorno alla città, quelli delle Olimpiadi di otto anni prima. I loro giochini li avevano organizzati a puntino, i Karadžić, i Milošević, gli Izetbegović, i Tuđman, la Bundesbank, Helmut Kohl , tutti quanti; si avvera la profezia dello zio ciccione. I tre amici sono chiamati a stare nel loro campo; “nati sulla stessa terra, ma da radici diverse”. Del resto, da quelle parti c’è una normalità storica di convivenza pacifica (a Sarajevo, la città) ma c’è anche quella dei nazionalismi, dei clan e di tutte quelle maledette “radici”, giustappunto. E così fra i tre amici cala la muraglia cinese, davanti all’inferno. Il musulmano Mufa difende la città assediata con parole chiare: chi non la difende, è un fetente. Il serbo Kiki sembra defilarsi davanti all’orrore: si mette a imbiancare la casa. Il narratore scappa via, si volatilizza. Mufa sembra essere uno importante: addirittura lo si vede sulla CNN; Kiki invece, a un certo punto sbarella di testa, e lo portano via. E così, i tre vecchi amici se li porta via la bufera, come sempre accade in questi casi.
Mufa lo trova nascosto in una casa nel centro di Sarajevo; la vecchia amicizia sembra tornare per un attimo, e ordina che non gli venga fatto del male e che sia consegnato ai “suoi”, agli assedianti della “Repubblica Serba”; ma i “suoi” non accolgono granché bene il transfugo che non era andato a combattere assieme a loro. Kiki, passato il confine, si ritrova nel fango e con un fucile puntato addosso a cura del fornaio del quartiere, Boro, che ora comanda qualche milizia in questa “guerra di porte accanto”. Ma è pur sempre un serbo, e gli viene presentata l’occasione di togliersi di mezzo, scappando in Canada. Cosa che Kiki fa, e alla svelta. Via da quel manicomio fatto di ex “vecchi amici”, di fornai di quartiere, di ex festaioli entusiasti per le olimpiadi e di poveri zii ciccioni che magari sono stati ridotti in poltiglia in qualche mercato. Alla fine, anche Mufa se ne va, ospitato dalla prima moglie del fratello in Svizzera e in preda alla nostalgia di Sarajevo, di una Sarajevo che non c’è più e che non ci sarà mai più, bruciata assieme alla sua biblioteca, alla sinagoga, alle sue olimpiadi.
La notte prima della rivolta del popolo armato
Stavamo seduti un’ultima volta, Mufa, Kiki ed io
Tre amici, tre storie, tre lingue straniere,
Siamo cresciuti sulla stessa terra, ma da radici diverseMufa sparava cazzate sui diritti umani,
Kiki si lagnava di avere la vista debole
Davanti a noi c’era l’inferno
E tra di noi una muraglia cineseMufa, Kiki ed io
Una volta muore l’arciduca,
Un’altra il capo del corteo nuziale,
Non si sa di chi è la prima testa,
Così, qua, comincia la guerraMufa sapeva a chi apparteneva,
Era pronto e aspettava quel giorno.
Io mi ero volatilizzato,
E Kiki è rimasto a imbiancare l’appartamentoAlla CNN guardavo Mufa
Con il mitra, in scarpe da tennis,
Dice che difende la sua città
E che chi non la difende, per lui è un fetenteKiki sapeva che erano cazzate
Ma non sapeva badare a se stesso,
Abbaiava all’intorno come un pazzo e rideva
Finché una notte non lo hanno portato viaMufa, Kiki ed io,
Ci ha portati via la bufera
Per tre paesi, tre strade, tre vecchi amici incazzati
Mufa, Kiki ed ioMufa lo trovò dopo sette giorni
In una casa a Bjelave
E’ entrato zitto e ha detto soltanto:
Lasciatelo andare o faccio il culo a qualcuno.Quella notte era sorda e fredda,
E fredda era anche la Miljacka,
Mufa aveva ordinato di lasciarlo passare,
Si aspettava la parola dei cetniciE’ caduto nel fango e ha sentito la canna di un fucile,
Ha visto una faccia barbuta e arrogante,
Ha visto la morte e ha sentito le parole:
Benvenuti nella Repubblica SerbaAl comando lo aspettava Boro, il fornaio:
Ascolta, mio caro, fai come fanno tutti:
Ti presenti spontaneamente, io ti mando a Hreša
E dopo due mesi prendi e vattene in CanadaDi Mufa ho sentito che è in Svizzera,
Sta dalla prima moglie di suo fratello
Dicono che non può stare senza Sarajevo,
Senza quell’acqua, senza quell’aria
La vicenda si sposta ad un’altra “notte prima”: è quella prima dell’entrata in vigore dell’accordo di Dayton formalizzato a Parigi il 14 dicembre 1995, che pose fine alla guerra in Bosnia spezzettandola in varie “entità”. Nel frattempo, Kiki manda ai vecchi amici cartoline dal Canada, con le cascate del Niagara, chiamandoli “piattole” come da ragazzi. La gioventù è, appunto, grondata via. La falla della guerra l’ha prosciugata del tutto. Nella sola Sarajevo, durante l’assedio triennale, sono state prosciugate undicimilacinquecentoquarantuno vite di tutte le età, giovani, vecchi, bambini. Ed è stata prosciugata tutta una storia, da un lato. Dall’altro, ritengo che non sia da idealizzare troppo, questa storia, come hanno spesso teso a fare certi intellettuali alla Sofri coi loro viaggettini e i loro reportages conclusisi con l’appoggio ai bombardamenti NATO. A Sarajevo convivevano sia la convivenza sia il possibile massacro, e non certo dal 1992. A Sarajevo e in Bosnia, a mio parere, tutto potrebbe ricominciare anche domani; e sarà bene tenerlo oltremodo presente.
Da Kiki è arrivata una cartolinetta
Con sopra le cascate del Niagara,
Ci ha scritto il mio nome e indirizzo
E un “Ciao, piàttole”La notte prima dell’entrata in vigore degli accordi di Dayton
Ho sognato che eravamo ancora insieme, Mufa, Kiki ed io
Il tavolo sembrava pieno di ogni sorta di piatti,
Era mattina, fiori, rugiada, e una ragazza del paeseIl sole era chiaro e luminoso,
Com’è sempre dopo una notte di pioggia,
Solo che noi non eravamo più
Tanto gagliardi e forti,Mufa, Kiki ed io.
In questa notte prima dell’accordo di Dayton, il narratore fa un sogno, e non importa se ad occhi chiusi o ad occhi aperti. Sogna di essere ancora insieme ai suoi due vecchi amici, ai suoi haveri portati via dalla bufera. Nel sogno, è una bella mattinata di sole dopo una notte di pioggia. Sul tavolo, ogni sorta di buone cose da mangiare, e c’è pure una bella ragazza di paese. Solo che i tre “vecchi amici” sono stanchi. La gioventù se n’è andata nella guerra. Le forze non ci sono più; sono state spese a dividersi, a sbudellarsi, a scappare via. La cerimonia di apertura e di chiusura delle olimpiadi del 1984 si era svolta allo stadio di un’altra famosa canzone degli Zabranjeno Pušenje: tutto è andato, appunto, in fumo. Questa canzone, questa di questa pagina, è del 1997; due anni dopo gli accordi di Dayton. Fa parte di un’album che si chiama “Io non sono di qui”: la certificazione di non essere oramai più di un luogo che non c’è più. Sul monte Trebević si trovano ancora le rovine, spettrali, della pista di bob. [RV]
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