Il termine Maremma, per secoli e secoli, è stato un nome comune, col suo plurale: si poteva parlare, e si parlava, di maremme per indicare qualsiasi terreno costiero paludoso, compreso il suo tratto d’entroterra. Derivando dal latino maritima, il cui significato dovrebbe essere chiaro, se ne capisce il perché; tuttora qualche anziano, o qualcuno che ha il gusto della lingua italiana d’un tempo, si lascia sfuggire una maremma laddove, oggi, si preferisce un più scientifico ecosistema palustre o altri termini di quest’epoca così attenta all’ecologia.
Col tempo, quasi inutile dirlo, si è stabilita una Maremma per antonomasia: la zona paludosa costiera tra la Toscana meridionale e il Lazio settentrionale, per intendersi. E, più in particolare, quella toscana, corrispondente alla parte sud della provincia di Livorno e alla provincia di Grosseto, il capoluogo maremmano. Forse sarebbe il caso, qui, di parlare della sua complessa storia, delle sue figure mitiche tra butteri e briganti, delle sue tradizioni, delle sue dolenti e spesso tragiche fiabe, del suo lavoro. Questo sito, come è noto, ha periodicamente delle proficue “dimenticanze”, che si trasformano quasi sempre in pagine di un certo rispetto; e così, ovviando con il tradizionale ritardo a questa lacuna, eccoci finalmente a Maremma amara.
Si dà quasi per scontato che sia la canzone popolare toscana più famosa d’Italia; ma che dico d’Italia, del mondo. A cantarla si è scomodata persino la regina del fado portoghese, Amália Rodrigues, che vi ritrovò senz’altro caratteristiche comuni con certe canzoni popolari del suo paese e che la arrangiò in un modo che sembra quasi una canzone portoghese cantata in italiano.
Tutti mi dicon Maremma, Maremma…
Ma a me mi pare una Maremma amara.
L’uccello che ci va perde la penna
Io c’ho perduto una persona cara.Sia maledetta Maremma, Maremma
sia maledetta Maremma e chi l’ama.
Sempre mi trema ‘l cor quando ci vai
Perché ho paura che non torni mai.
Il fatto è che Maremma amara (o Maremma, Maremma, come sovente vien chiamata) non è affatto una canzone antichissima. Risale, pare, ai primi anni del diciannovesimo secolo, quando, dopo la prima bonifica medicea settecentesca, si cominciò a parlare di bonifica a vasto raggio e a progettarla sotto il Granducato lorenese. Le terre maremmane, con la loro particolare conformazione, erano fertilissime; ma erano paludi, malsane e pericolosissime. Il regno della zanzara anofele e della malaria; e non è un caso che il termine malaria, ovvero “mala aria, aria cattiva”, dall’Italia (e in particolare dalla Maremma) si sia diffuso in tutto il mondo. Si dice “malaria” in inglese, in francese, in tedesco, in giapponese, in nepalese, in tutte le lingue del globo; ci sarà un motivo. L’azione del Plasmodium falciparum, veicolato dalla zanzara anofele (“anofele” significa “inutile”, ἀνωφελής), è anch’essa un simbolo storico della Maremma e di tutte le maremme italiane.
Lo sfruttamento agricolo della Maremma toscana è pure, e per ovvi motivi, abbastanza recente: risale a non prima del XVII secolo. Fu allora che la Maremma, terra assolutamente selvaggia, incolta e desolata d’esseri umani, nacque, al tempo stesso, alla vita e alla morte. Divenendo terra d’immigrazione dei disgraziati rurali di tutta Italia, che i Medici vollero attirarvi sia come fissi che come stagionali con il miraggio della terra liberamente concessa (e che andò, naturalmente, a formare dei vastissimi latifondi in mano di pochi che se ne stavano belli in alto, al riparo dai miasmi). Nacque la Maremma, e nacque il maremmano, ancora oggi noto per il suo carattere particolarissimo; persino il cane della zona, il pastore maremmano, ha un caratterino che ve lo raccomando, uno dei più cazzosi di tutta la razza canina nonostante il suo simpatico aspetto da batuffolone bianco.
Sono miti, figure e storie che sembrano quasi nate antiche, verrebbe da dire. La storia pressoché eterna del disperato della terra che va a cercarne un’altra dove vivere e lavorare, e che si accorge ben presto dove sia andato a capitare. Nella terra della morte certa, della consunzione per una malattia inesorabile e per la quale, a lungo, non esistettero cure. Si dava la colpa all’aria malsana, la “mala aria” appunto, mentre era di un bacillo inoculato da una zanzara. Per questo i lavoratori maremmani furono quasi tutti stagionali, raccomandandosi l’anima a Dio. La “facies” dello stagionale in Maremma era uguale per tutti: da fantasma che camminava. Fu all’estremo di questa storia, quando nessuno più o quasi voleva andarci a lavorare e la Maremma rischiava di tornare spopolata come un tempo, che nacque questa canzone, brevissima.
Due sole strofe che dicono duecentocinquant’anni di duro lavoro e di morte. E’, in primo luogo, una desolata canzone d’amore cantata da una moglie, da una fidanzata, da un’amante del lavoratore andato a morire di malaria in una terra che pare spennare anche gli uccelli in volo. È una canzone di maledizione, perché chi andava a lavorare in Maremma sapeva di non tornare; pochi sopravvivevano, formandosi un carattere duro e forte che è ancora oggi caratteristica delle genti maremmane. E’ una canzone che parla dell’alternativa tra il morire di fame e il morire di malaria, per farla breve. Iniziò poi la bonifica, che oggi farebbe inorridire le coscienze ambientalistiche tutte tese al giusto mantenimento delle condizioni naturali (che, in Maremma, sono peraltro uniche e sempre più minacciate da scempi vari, come recentemente l’ “Autostrada tirrenica”); allora era semplicemente impossibile parlarne. Si doveva eradicare l’anofele e la malaria, e per eradicarle le paludi maremmane furono prosciugate, eliminate. Si poté lavorare in Maremma sempre sotto i soliti padroni e i soliti latifondisti, fino a tempi abbastanza recenti, ma perlomeno senza la certezza di andare a morte. Si formarono paesi e la città di Grosseto. La terribile storia dei tempi passati divenne “folklore”; e Maremma amara un doloroso canto del passato, ben presto dimenticato anche se non da tutti.
Arrivò in Maremma, nei primi anni ’60 del secolo passato, una bellissima e strana ragazza dagli occhi grandi e dai capelli corvini. Era toscana, e fiorentina, fin nel midollo delle ossa; ma era figlia di un pittore spagnolo e di una scrittrice svizzera. Con la sua voce roca, la sua chitarra, le sue sigarette e la sua passione di andare a salvare dall’oblio i canti del popolo e le sue storie. Se non avete capito chi era, dirò allora che si chiamava Caterina Bueno. È a lei che si deve la “riscoperta” di Maremma amara: su da chi l’ebbe ad ascoltare la prima volta sono fiorite le leggende, dalla vecchia di Civitella Paganico al buttero in un’osteria di Grosseto, dal contadino di Arcidosso fino al minatore di Ribolla. Non risulta che abbia mai detto precisamente da chi, tenendo presente che qualche memoria del canto s’era salvata qua e là in opere letterarie (come le famose Veglie di Neri del pisano Renato Fucini). Ci sono canti maremmani che Caterina Bueno raccolse in posti lontani, dalla provincia di Arezzo fino alla bassa mantovana; non bisogna dimenticare che gli stagionali in Maremma, i famosi “Lombardi”, provenivano quasi tutti dalla Pianura Padana; la Toscana rurale tutta, da quella interna a quella costiera, è stata piena di “Lombardi”; e così, ad esempio, mi è stato dato in sorte d’avere avuto uno zio acquisito, all’Isola d’Elba, che era nativo di Robbio Lomellina in provincia di Pavia. Sono gli stessi lavoratori del Trenino della Leggera. Il Treno della Leggera, però, portava lavoratori in Maremma quando già, perlomeno, la zanzara anofele e la malaria erano un orribile ricordo; ai tempi della Maremma medicea, non c’erano treni; e a morir lavorando, ci si andava a piedi.
Da quei primi anni ’60 del XX secolo, la canzone ha cominciato prima il giro della Toscana, poi d’Italia e poi del mondo. La sua musica, quella sì, è probabilmente antichissima. Una melodia che obbedisce a canoni musicali forse quattrocenteschi; più o meno nella stessa epoca, era stata utilizzata anche dal cantastorie abetonese Anton Francesco Menchi per il suo celeberrimo Canto dei Coscritti, quello che è più noto come Partirò, partirò; anch’esso raccolto per la prima volta, guarda caso, da Caterina Bueno. E dire che nessuna città toscana, Firenze in primis, ha voluto dedicare a Caterina non dico una piazza o una strada, ma un vicolo, uno slargo, un cortile, un giardinetto. Ma, forse, il vero monumento a Caterina Bueno restano le canzoni popolari che ha scovato e che tutti ora sanno senza conoscere a chi le debbano. Comunque sia, dire -come abbiamo a suo tempo fatto- che il motivo di “Partirò, partirò” è “ripreso da quello di Maremma amara”, è probabilmente un errore cui si rimedia oggi. Era una antica melodia che girava e si tramandava, dalle fiere appenniniche del Menchi fino alla Maremma e chissà a dov’altro. Non è probatoria neppure la struttura testuale: è chiaro che una data melodia autorizza soltanto strutture testuali e ritmiche di un certo tipo, vale a dire il più classico endecasillabo (anche il secondo verso, che pure è formato da 14 sillabe, è in realtà un endecasillabo nella pronuncia toscana: mam/mem/mi/pa/ru/na/ma/rem/ma/ma/ra).
Ed è così che, ora, Maremma amara fa parte dei repertori di Nada (l’unica maremmana, in quanto la Maremma comincia a sud di Livorno), di Ginevra Di Marco, di Riccardo Marasco, persino di Gianna Nannini e dei Gufi, che in un certo senso la riportarono alla provenienza padana di tanti di quei disgraziati morti di paludismo a lavorar la terra. A dire il vero, persino questo sito a volte smemorato la aveva in realtà già presente in alcune sue pagine, nominata e addirittura trascritta: non solo in quella di Partirò, partirò, ma ad esempio anche in quella dedicata integralmente alla bellissima rivisitazione dei Del Sangre, Maremma, quelli del fiorentino Luca Mirti che tifa per la Lazio e del pratese “Schuster” Lastrucci.
Un’introduzione a Maremma amara, probabilmente, avrebbe avuto bisogno di un libriccino intero; tante e tante sarebbero ancora le cose da dire su queste due strofe che, pensandoci bene, sono universali. Le tradizioni popolari di mezzo mondo hanno una loro “terra maledetta” di elezione, quella dove i poveri vanno a lavorare rischiando la vita per una zanzara, per un vulcano, per il clima. Forse, per concludere, si potrebbe dire però che la Maremma è l’unica al mondo a essere diventata una bestemmia, perché quando un toscano dice Maremma maiala la “Maremma” nasconde sì eufemisticamente il nome della Madonna, ma con reminiscenze precise a quel che era la Maremma per davvero. Non si dice, che so io, “marmotta maiala”; e forse non è nemmeno un caso che le parole “Maremma” e “malaria” abbiano una qualche assonanza. Se lo deve portare sul groppone, la Maremma, questo fardello, assieme alla sua storia tremenda e unica, e assieme agli spiriti esangui dei suoi dannati della terra.
Riccardo Venturi
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