Antiwar Songs Blog

il Blog delle Canzoni contro la guerra

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Inni e controinni

By Antiwar Songs Staff on 19 Novembre 2013

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In un sito di “canzoni contro la guerra” forse l’ultimo percorso che ci si aspetta di trovare è una raccolta di inni nazionali. Per loro stessa natura gli inni sono ovviamente nella maggior parte dei casi componimenti nazionalistici e militaristi.

Nel percorso Inni e Controinni abbiamo infatti raccolto prima di tutto i rifacimenti in chiave ironica o antimilitarista dei più famosi inni nazionali.

Cominciamo naturalmente con gli Stati Uniti e con l’incredibile performance di Jimi Hendrix sul palco di Woodstock nel 1969. La versione per chitarra solista di  “The Star Spangled Banner” non ha bisogno di parole per descrivere l’orrore della guerra nel Vietnam. Grazie all’utilizzo di una potente distorsione e di tecniche non convenzionali, Hendrix riesce a creare con la chitarra immagini potenti ed eloquenti. Allontanandosi dalla linea melodica originale, usa note acute per simboleggiare le bombe che cadono e la distorsione per rappresentare la conseguente esplosione. Il suono di un fucile che spara è ottenuto colpendo velocemente le corde della chitarra. L’inno nazionale si trasforma in un incubo per tutti i giovani spediti a combattere in un paese lontano.

Sex Pistols

Nel Regno Unito i Sex Pistols pubblicarono nel 1977, proprio nei giorni in cui si celebrava il Giubileo d’Argento di Elisabetta II,  una canzone simbolo per il movimento punk, a partire dallo slogan del ritornello – No Future.

God Save The Queen balzò immediatamente ai vertici delle classifiche di vendita dei singoli, anche se la BBC decise di retrocederla al secondo posto dietro una melensa ballata di Rod Stewart. La canzone si apriva con una violentissima requisitoria contro ogni sorta di violenza in nome dello stato e di lavaggio del cervello da parte del potere:

Dio salvi la regina, il suo regime fascista
Ha fatto di te un deficiente, una potenziale bomba H

Dio salvi la regina, non è un essere umano
Non c’è futuro, nel sogno dell’Inghilterra

Non farti dire cos’è che vuoi, non farti dire ciò di cui hai bisogno
Non c’è futuro, nessun futuro, nessun futuro per te

La censura arrivò con la motivazione di “vilipendio alla regina e all’inno nazionale”, tutte cose che andrebbero “vilipese” in po’ più spesso anche perché, solo pochi anni dopo, il rigurgito di imperialismo inglese made in Thatcher & Elisabetta mandò a morire non so quanta gente nell’assurda guerra delle Falkland.

Aux armes

Solo un anno dopo, in Francia, Serge Gainsbourg lancia quella che sarà la più pericolosa provocazione della sua carriera: appena scoperta una nuova forma musicale, vola a Kingston, e primo fra tutti i musicisti europei incide un album totalmente reggae. Il brano cui è affidata la promozione del disco è una versione dell’inno nazionale, la Marsigliese, le cui strofe sono eseguite per intero, ma il cui ritornello ripete solo beffardamente “Aux armes, et cœtera…” (“Armatevi, eccetera…”), tutto ovviamente con tanto di coriste giamaicane e col gruppo di Peter Tosh alle spalle.

Il risultato è irresistibile.  Nella patriottica Francia la cosa è accolta come un affronto intollerabile, le associazione di paracadutisti ed ex-combattenti, gli antichi torturatori fascisti delle guerre d’Indocina e d’Algeria insorgono e si presentano ai concerti (che Gainsbourg tornava a dare quell’anno, dopo diciotto di assenza dalle scene), tanto che quello di Strasburgo deve essere annullato perché il palazzo in cui si doveva tenere viene minato col plastico. Gainsbourg, pallidissimo, appare solo sul palco e con un filo di voce “ringhia”:

Io sono un rivoluzionario, che cantando su una musica rivoluzionaria, ha ridato alla Marsigliese il suo senso originale!

e la intona nella versione originale con un incredibile trasporto (e con un coraggio non indifferente) davanti ai parà in mimetica e armati.

Nel nostro percorso non mancano però neanche i rari inni nazionali “originali” che contengono un messaggio di pace e fratellanza, tra cui spicca l’inno della DDR, Auferstanden aus Ruinen, un inno tanto bello quanto inadatto alla dittatura stalinista che ha governato per quarant’anni la Germania Est. Si tratta di una poesia altamente patriottica, ma anche di pace e fratellanza scritta da Johannes R. Becher, un comunista pacifista che era stato esiliato quando ancora la Germania intera era sotto il tallone hitleriano. Nel 1949, l’allora segretario generale della SED, Wilhelm Pieck, decise di farne l’inno dello stato tedesco socialista, e chiese al celebre musicista Hanns Eisler (1898-1962, allievo di Arnold Schönberg a Vienna nonché tra i musicisti di Bertolt Brecht) di musicarlo.

Risorta dalle rovine
e rivolta al futuro,
lasciaci servirti bene
Germania, unica patria.
L’antica miseria è da eliminare
E la elimineremo uniti
E dobbiamo far sì che
il sole splenda bello
come mai sulla Germania.

Gioia e pace sian destinate
alla Germania, nostra patria.
Tutto il mondo anela alla pace,
date ai popoli la vostra mano.
Se ci uniamo fraternamente
batteremo il nemico del popolo!
Fate brillar la luce della pace
e che mai più una madre
pianga il proprio figlio.

Dopo la riunificazione tedesca l’inno è stato mandato in pensione, ma paradossalmente è forse più conosciuto adesso. Ne fanno fede le (talora sorprendenti) rielaborazioni che ne sono state fatte, tra cui spicca quella in chiave punk-rock ad opera del gruppo MIA. della cantante Mieze Katz.

MIA.

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Corsica: colonialismo, repressione e lotta

By Antiwar Songs Staff on 18 Novembre 2013

Corsica Nazione

Controverso. Duro. Difficile. Contraddittorio. Sono alcuni aggettivi che ben si attagliano al nuovo percorso Corsica: colonialismo, repressione e lotta. Lo abbiamo inaugurato con una canzone dedicata a Yvan Colonna e alla torbida vicenda dell’assassinio del prefetto Érignac, ma il percorso si spinge fino alle vicende più lontane e vicine della complicata storia corsa, narrate e cantate da gruppi come L’Arcusgi, i Chjami Aghjalesi o Canta u Populu Corsu. Canzoni non semplici, spesso dure e sofferenti; altrettanto spesso, canzoni (anche musicalmente) bellissime.

Resistenza, è il brano centrale del primo album de L’Arcusgi, e quello che gli dà il titolo. Sembra, e senz’altro lo è, una canzone rivolta esclusivamente alla Corsica contro l’oppressione, oramai secolare, da parte della “Francia culuniale”; chi conosce almeno un po’ L’Arcusgi, detti anche i “baschi corsi”, sa però che non è e non può essere così. L’Arcusgi sono un gruppo militante internazionalista, non “nazionalista”; con le radici ben piantate in Corsica, e rivolti alle lotte e alle istanze della Corsica, ma da sempre pronti a schierarsi accanto ad ogni popolo oppresso dal colonialismo degli “stati”. Ora più che mai, quando il colonialismo si è “riciclato” in colonialismo finanziario e economico che opprime paesi interi che, a loro volta, non hanno esitato a opprimerne altri o parti della loro stessa proprietà statale (è il caso, ad esempio, proprio della Spagna in crisi profonda).

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Qui (ancora) Politecnico

By Antiwar Songs Staff on 17 Novembre 2013

di Gian Piero Testa

Sono già passati quarant’anni da quel 1973 che vide il grande risveglio della Grecia che si scuoteva di dosso le catene della dittatura militare.  Ho ricordi abbastanza netti di quell’anno cruciale. Insegnavo al Liceo Scientifico di Como e nello stesso tempo avevo preso a dirigere la CGIL Scuola della mia provincia sindacale. Al principio dell’estate erano in corso i congressi delle categorie e delle camere del lavoro che sarebbero culminati, per la prima e l’ultima volta nella storia della confederazione, in un meeting nazionale nel profondo sud, a Bari, di cui conservo un bellissimo ricordo e la nostalgia di un sogno che fu impossibile realizzare. Quando toccò a noi di fare il congresso della nostra camera del lavoro, dal centro ci spedirono una delegazione greca, composta di due giovani, di cui ho dimenticato (o mai saputo) il vero nome ma non le personali caratteristiche.

Erano molto diversi l’uno dall’altro. Il più giovane aveva l’aria di uno studente in vacanza, con un’idea fissa, quasi una personale missione, da compiersi tra le delegate e gli angeli del ciclostile, che aveva poco a che fare con la politica propriamente detta. Si era tutti giovani, allora; e le nostre compagne, pur preferendo e contendendosi l’altro, sentivano comunque il fascino che allora emanava un perseguitato politico. L’altro, di poco più anziano, era invece profondamente compreso del compito di cui era incaricato. Serissimo, informatissimo, asceticamente frugale. Forse le differenti caratteristiche nascevano da differenti esperienze di “incontro” più o meno ravvicinato con il regime vigente, o forse da differenti collocazioni politiche (e relativi imprinting) ; ma non stemmo a indagare, perché in patria quelli avevano famiglia e compagni; in Italia non mancavano spie e fascisti complici della Giunta: e, in certe situazioni, meno si sa e meglio è. Li affidarono a noi della scuola, perché li intrattenessimo e facessimo loro conoscere le nostre ridenti  plaghe lacustri. Passammo così diverse serate a casa mia, che allora avevo ampia e accogliente. Il più giovane si dedicava alla sua personale missione, discretamente coadiuvato dalle compagne. L’altro conversava con me e, naturalmente, si parlava di Grecia.

Si stavano muovendo, i Greci, specialmente gli studenti. Non più gesti individuali, quasi disperati, come quello dello studente liberale che qualche anno prima era venuto in Italia a darsi fuoco, imitando i bonzi del Vietnam e quel Jan Palach di Praga, sul lungomare di Genova. Il movimento stava diventando di massa e ardiva fare rivendicazioni politiche.  Due anni prima la dichiarazione del poeta premio Nobel Seferis contro la dittatura; e soprattutto i suoi funerali, seguiti di lì a non molto,  trasformandosi in una vera e propria manifestazione antifascista, come quelli di Palamas durante l’Occupazione, avevano mostrato che lo spirito democratico non era sparito dalla Grecia, pur rimanendo allo stato potenziale.  Ma ormai gli studenti erano stanchi di vedersi privati della possibilità di organizzarsi, di eleggere i propri organismi, di riunirsi, di scendere in piazza, come  i più anziani di loro erano abituati a fare prima del colpo di stato, e  volevano chiedere quello che in tutto il mondo i loro coetanei stavano reclamando: pace, libertà politiche e individuali, svecchiamento culturale e antropologico, eccetera, eccetera.

E la scintilla accesa dagli studenti poteva trasformarsi in un grande incendio di popolo, capace di mettere alle strette i tiranni. I Colonnelli avevano steso una cappa di paura e di proibizioni sulla Grecia, che per alcuni anni aveva costretto tutti o a strisciare o a fuggire all’estero: ma ora ne stavano sollevando qualche lembo, anche grazie alla pressione internazionale alimentata dai grandi fuoriusciti greci: attori, musicisti, cantanti di vaglia che giravano il mondo per suscitare simpatia per il loro popolo in catene. E a quei leggeri spifferi d’ossigeno e a quei barlumi di luce la gente si stava rivitalizzando.  Nei teatri, antico amore dei Greci, dopo anni di commedie scioccherelle aveva fatto irruzione Brecht, perché la censura – pur sempre in vigore – aveva un poco allentato i suoi lacci. Molti greci andavano e venivano dall’estero, perché il numero chiuso delle università li costringeva – quelli che ne avevano i mezzi – a emigrare per laurearsi. Molti lavoratori emigrati stavano da anni in Germania, e dalla Germania arrivavano in Grecia trasmissioni radio in lingua nazionale che molti avevano preso l’abitudine di ascoltare.

Insomma, pur sempre incapsulata, la Grecia aveva occhi aperti sul mondo, sapeva che cosa vi accadeva, e sapeva a chi attribuire le responsabilità della propria situazione. I maggiori imputati erano gli U.S.A. di Richard Nixon.

A febbraio gli studenti del Politecnico si erano messi in agitazione. L’abitudine dei Colonnelli di inviare al servizio militare forzato gli studenti riottosi, o anche solo dai capelli troppo lunghi, doveva finire un buona volta.  Ne avevano militarizzati quasi un centinaio in base a una legge che avevano fatto apposta per ricattarli. Alla prima astensione dalle lezioni, all’inizio di febbraio, la polizia aveva violato l’immunità dell’istituto e aveva effettuato 11 arresti.  Ma invece di stroncare l’agitazione, la repressione l’aveva  rinvigorita e allargata. Verso la fine del mese erano migliaia gli studenti che occupavano la facoltà di Giurisprudenza, giurando di non mollare fino al ripristino delle libertà accademiche e del diritto di asilo, e alla revoca delle misure antistudentesche oppressive e ricattatorie. La polizia aveva ripetuto pesantemente l’irruzione nel territorio inviolabile per disperderli.

Così il compagno greco mi rappresentava la situazione, che gli sembrava in movimento e aperta a sviluppi futuri.  Poi il congresso finì e con  esso il soggiorno lariano dei greci, che mi auguro sia stato loro tanto gradevole, quanto fu interessante per me, che mi misi a seguire con maggiore attenzione e con crescente passione le notizie di là.

L’ 11 di settembre il putch cileno del generale Pinochet faceva però intendere che la linea degli americani non cambiava; e, mentre amaramente pensavo alla patria di Pablo Neruda, anche temevo che i colonnelli greci ne avrebbero tratto incoraggiamento per insistere nella loro ottusa e criminale oppressione.  In più, inutile nasconderlo, temevo per il paese mio, che da quattro anni era evidente scenario delle mene degli americani e dei loro amici mediterranei, al punto che ogni nostra conquista sociale incontrava sanguinose repliche dal cuore oscuro dello Stato e dai rinati fascisti.

E, nell’ottobre, la guerra del Kippur  non permetteva di aspettarsi dagli americani nessuna riconsiderazione dei comportamenti dei loro amici, che ben foraggiavano nel Mediterraneo orientale.

Eppure, alla metà di novembre, arrivarono le attese buone nuove dalla  Grecia.  Gli studenti avevano ripreso il movimento. Il 14 avevano occupato l’ Ellinikò  Metsòvio Politechnìo di via Patissia, già teatro del primo conato di febbraio. La Grecia tornava a parlare la “nostra” lingua: quella della contestazione, degli slogan, delle occupazioni, cui ci eravamo da diversi anni assuefatti. Era come se rientrasse finalmente nel nostro mondo per raggiungerci nel punto in cui esso era avanzato pur senza di lei.

Mi colpì – non subito (poiché lì per lì percepivo il tutto solo come un “momento epico”), ma un po’ più tardi, quando ci ripensai avendo a disposizione molti particolari in più – la grande padronanza dei fattori comunicativi, sia sul piano tecnologico, sia su quello simbolico, che dimostravano quegli studenti. Sicuramente gente colta, esperta di quanto accadeva nel mondo, consapevole delle dinamiche rilevate altrove in situazioni simili, ma anche consapevole della storia e delle sensibilità proprie del suo Paese.

Non fu solo un fatto epico, né solo politico, ma più profondamente e largamente culturale – radici profonde e ampiezza di sguardo –  nel quale convergevano il globale e il locale, il politico e lo psicologico, la sincronia e la diacronia, e l’uso sapiente di tutti i mezzi allora disponibili di comunicazione.

Subito, nel laboratori di elettrotecnica, fu allestita la stazione radio:  ci pensò uno studente, Yorgos Kyrlakis, il cui nome venne fuori più tardi. Furono subito familiari in tutta Atene le voci del Politecnico: quelle di Maria Damanaki e di Dimitris Papachristos, due ragazzi che, come antichi pallikari di Makryiannis senza pane e senza carabine,  non lasciarono la postazione se non quando, quasi un’ora dopo l’irruzione dei carri armati, vennero arrestati con in pugno i loro microfoni.

Io non se so ci fosse una regia, perché non ho abbastanza studiato l’avvenimento. Ma non lo credo. Una regia sovrimposta da un gruppo o da una parte, avrebbe visto all’istante vanificate le parole d’ordine per opera di altri gruppi, di altre parti: come spesso accadeva da noi, forse perché noi agivamo, e qualcuno anche ci giocava, in contesti magari aspri, ma assai meno drammatici di quello greco.

Penso piuttosto a un rarissimo caso di intuizione politica diffusa. Sul piano politico, gli avversari e gli obiettivi erano chiarissimi e chiaramente espressi.

Avversari, il potere dei militari e gli U.S.A.: gli U.S.A. non per pre-venzione, ma (lasciatemi inventare una parola) per… post-venzione. Non lo dicevano solo i brezneviani del ku-ku-e, ma erano tutti, proprio tutti, convinti che le levatrici dei Colonnelli erano rivestite di stelle e strisce. Per questo, nel rivedere nelle foto del tempo i cartelli appesi alle cancellate del Politechnìo, viene da pensare piuttosto a una manifestazione antiamericana, che a una battaglia per uno stato di diritto di tradizione occidentale.

Gli obiettivi: né angustamente corporativi, né spostati tanto avanti da compromettere il consenso più largo. Solo i fascisti non dovevano condividerli. Ecco perché la radio ripeteva continuamente:

«Edhò Politechnìo! Qui Politecnico! Popolo della Grecia, il Politecnico è il portabandiera della nostra lotta, della vostra lotta contro la dittatura e per la Democrazia».

Il messaggio era semplificato al massimo: ma inequivocabile nel suo significato politico, perché sfidava a viso aperto i Colonnelli, offrendo una parola d’ordine immediatamente fruibile e condivisibile da tutti i non fascisti: ripristino della democrazia rappresentativa, dei diritti umani, civili e politici. E in più «pane, istruzione, libertà», parole che ricorrono ancora nelle odierne commemorazioni del quarantennale, con evidente riferimento alla crisi e alle misure antipopolari prese da un governo proconsole di interessi stranieri.

La colonna sonora curava d’essere la più greca possibile, insistendo sull’inno nazionale – riduzione di quello alla Libertà del vate risorgimentale Dionisis Solomòs – e chiamando a presenziare cantanti popolari come Nikos Xylouris, che si esibì in “Quando verrà la bella stagione“,  la spietata canzone cretese di lotta contro l’oppressione ottomana.  Del resto più volte, attraverso la radio, gli occupanti si definirono “I liberi assediati”, come gli eroi della famosa difesa di Missolungi del poemetto incompiuto di Solomòs.

1973: Nikos Xylouris assieme agli studenti del Politecnico di Atene.

Il ricorso alle canzoni risorgimentali con il riferimento esplicito alle armi, che esse contengono, valeva come un appello a usare ogni mezzo per travolgere la Giunta.  E, di fatto, l’incendio si estese rapidamente non solo alle altre università del Paese, ma agli stessi quartieri di Atene e della sua conurbazione, dove sorsero numerose le barricate e ci furono scambi di arma da fuoco.

La lotta, così impostata, era intelligente e di per sé vittoriosa, sia che venisse  repressa nel sangue – come entro pochi giorni accadde – sia che la Giunta si risolvesse a fare concessioni. Non fu, al momento, risolutiva: ma, mostrando che la terra greca vacillava infida sotto il peso dei barbari pié, avrebbe spinto i barbari, l’anno dopo, al loro estremo atto di stupida infamia: il colpo di stato a Cipro, preludio della contromossa turca e del venir meno della fiducia americana nei loro confronti, con la conseguente fine del regime.

I Colonnelli si presero un paio di giorni, il tempo minimo per decidere e organizzare la risposta. Che fu l’unica concepibile dalle loro menti limitate: vendicativa, violentissima e vigliacca.

Alle tre del mattino del 17 novembre,  tre carri armati AMX 30 si presentarono all’ingresso principale  di via Patissia. Coprivano un folto commando di LOK, truppa addestrata a spericolati interventi tattici… in montagna; mentre la polizia andava ad occupare la via Sturnaras, su cui si apre un ingresso secondario del Politecnico.  I carristi ascoltarono per un po’ l’inno nazionale cantato dagli studenti e i loro inviti alla disobbedienza. Poi, il primo carro sfondò la cancellata, senza fare vittime.

I LOK provvidero a rastrellare e riunire gli studenti per sospingerli fuori della porta di via Sturnaras, dove la Polizia, già schierata ad attenderli, li attaccò con tutta la brutalità di cui era ed è ancora assai capace.

Sparava anche dai tetti e dalle terrazze, prendendo la mira. Intorno al Politecnico gli uccisi furono una ventina.

Poi per tutto il giorno e per quello successivo fu caccia all’uomo e sparatorie per sgominare gli spazi police free dei quartieri.

Riprendendo dopo lunga pezza interesse a questo argomento, credevo di venire finalmente a capo del bilancio – sin dal principio controverso – dei morti e dei feriti del 17 – 18 novembre.  Mi rendo conto – sempre che non mi sbagli – che non è così. A quarant’ anni di distanza, le cifre sono rimaste oscillanti. Si va da quelle, minimali, del primo rapporto stilato dalle autorità in carica il 19 novembre, a quelle accertate dal procuratore per il processo celebrato nel dicembre 1975 a carico dei maggiori responsabili dell’eccidio, che consentirono al tribunale di emettere dure sentenze – implicanti anche ergastoli plurimi – contro altissimi ufficiali di polizia e lo stesso capo del governo, Yorgos Papadopoulos, il quale, per questi fatti, si buscò 25 anni.

Ma lo scavo dei giornalisti e, soprattutto, il libro di Christos Lazos, il maggiore storico dei movimenti studenteschi greci dal  1821 al 1973 (edito nel 1987 e riedito nel 2007), dilatano assai la portata dello spargimento del sangue dei cittadini. Si arriva a contare 99 morti e almeno un paio di migliaia di feriti, compresi quelli delle forze armate, anche se gli elenchi mostrano dati anagrafici incompleti, che non lasciano escludere alcune sovrapposizioni di persona. E’ praticamente ancora impossibile analizzare dal punto di vista sociale il tipo di partecipazione alle sommosse.  Sembrerebbe  prevalere il ceto medio e professionale: ma c’è ancora troppo poco di certo per affermarlo.

Il fatto che dopo quarant’anni resti da compiere un bilancio certo e definitivo a me sembra inquietante.  E’ come se una oscura mano sia riuscita per tutto questo tempo a tenere chiusi i cassetti e a rendere timidi molti parenti di quanti allora furono assassinati.

Dagli elenchi dei morti, tre nomi pungono il lettore di speciale pathos: quello di Dimitrios Theodoras, di anni 6, quello di Ekaterini Arghiropoulou, di 75 anni, e quello di Dimitrios Touloupas, sergente, che fu ucciso sul posto dal suo superiore per essersi rifiutato di sparare contro gli studenti.

Alle celebrazioni in corso stanno partecipando personaggi meritevoli, ex meritevoli, e immeritevoli. Come in tutte le celebrazioni della resistenza.

Per qualche giorno il Politecnico ha riaperto i battenti, chiusi da due mesi per  l’agitazione del personale non docente contro i tagli e le soppressioni calati su tutto il settore dell’istruzione e dell’informazione pubblica. Alla fine delle celebrazioni decideranno se continuare la lotta.

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Novembre 2013 – Sulla cancellata del Politecnico: NO ALLA DISTRUZIONE DELL’EDUCAZIONE NO AI LICENZIAMENTI

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Spanish Bombs in Andalucia…

By Antiwar Songs Staff on 15 Novembre 2013

Joe Strummer

C’è gente che viaggia e vede solo quello che gli passa davanti agli occhi. Quelli che andando in vacanza in Costa Brava alla fine degli anni ’70 vedevano le discoteche, il mare, le ragazze. Ci sono altri che non si limitano al presente, ma vedono anche quello che in quegli stessi luoghi è accaduto anni ed anni prima.

Joe Strummer apparteneva alla seconda categoria, e durante la classica vacanza in una Spagna appena uscita da una lunga dittatura e che cercava di dimenticare gli orrori del passato piuttosto che conservarne la memoria, scrive per i suoi Clash una canzone in cui le immagini della guerra civile di quarant’anni prima sembrano riaffiorare nei luoghi segnati da battaglie di altri tempi. La canzone si intitola Spanish Bombs e viene pubblicata nel capolavoro dei Clash, London Calling, del 1979.

London Calling

 

Canzoni spagnole in Andalusia,
i luoghi dove si sparava nei giorni del ’39
Vi prego lasciate la finestra aperta
García Lorca è morto e sepolto

I giorni del ’39 sono quasi la fine della guerra civile, che si concluderà quell’anno con la vittoria dei fascisti di Francisco Franco. Federico García Lorca, il poeta andaluso aperto sostenitore della causa repubblicana, era stato fucilato tre anni prima e il suo corpo gettato in una tomba senza nome nei dintorni di Víznar e Alfacar, vicino Granada.

Fori di pallottole sui muri del cimitero
Le auto nere della Guardia Civil
Bombe spagnole sul Costa Rica
Stasera sto volando su un DC10

Ma chissà cosa c’entra il Costa Rica, che nella guerra di Spagna non ebbe nessunissimo ruolo, forse semplicemente Strummer vuole alludere alla ricchezza della costa spagnola. Intanto sta tornando a casa su un DC10 (un modello moderno, nello spazio di un verso si fa un salto di quarant’anni). Si insinua un parallelo con un altro ritorno a casa: quello degli inglesi che avevano combattuto per la Repubblica, uno su tutti George Orwell che scrisse il celebre Omaggio alla Catalogna.

Arriva il famosissimo ritornello in quella specie di spagnolo con tipico accento british, sul cui significato generazioni di fan si sono scervellati. Forse semplicemente Strummer ha riunito nel ritornello le uniche parole di spagnolo che aveva imparato, che non a caso erano “te quiero” e “mi corazón“…

Bombe spagnole, yo te quiero infinito
Yo te quiero, oh mi corazon
Bombe spagnole, yo te quiero infinito
Yo te quiero, oh mi corazon

Settimane spagnole nel mio casinò-discoteca
I combattenti per la libertà morirono sulla collina
Cantavano “Bandiera rossa” e indossavano quella nera
Ma dopo morti, ci fu Mockingbird Hill

La famosa foto di Robert Capa

Mentre Joe si diverte e balla (un punk che va in discoteca?? tradimento!) pensa ai combattenti caduti per la libertà. Ma dopo che i repubblicani hanno combattuto e perso la guerra cosa rimane? Mockin’ Bird Hill, una canzone pop degli anni ’50. Abbandonata quasi completamente ogni resistenza contro il franchismo, nel dopoguerra la Spagna si adagiava sul nuovo stile di vita consumista e superficiale. Le discoteche erano fiorite numerose negli anni ’60 sulla Costa Brava, nascondendo, sotto la facciata “imbecille e vacanziera” stile Rimini, una realtà di repressione e povertà.

Una volta a casa, gli autobus bruciarono
La tomba irlandese fu bagnata di sangue
Bombe spagnole distruggono gli hotel
La rosa della mia señorita è stata troncata in boccio

Gli ex combattenti irlandesi nella guerra di Spagna (un’intera brigata internazionale era venuta a combattere dall’Irlanda) trovarono al loro ritorno una nuova guerra civile ad aspettarli: la violenza dell’esercito britannico in Irlanda del Nord e il terrorismo dell’IRA. Le bombe che distruggono gli hotel potrebbero anche essere quelle dell’ETA.

Le colline risuonano di “Free the people”
oppure sento gli echi dei giorni del ’39?
Trincee piene di poeti, l’esercito di straccioni
che puntava le baionette per combattere quelli di fronte

Bombe spagnole martellano la provincia
Sto sentendo musica da un altro tempo
Bombe spagnole sulla Costa Brava
Stasera sto volando su un DC10

Sicuramente tra i volontari della quinta brigada qualcuno avrà intonato “Free the people“, una famosa canzone repubblicana irlandese i cui echi quarant’anni dopo risuonano ancora tra le colline e nella mente del cantante, affascinato da un esercito di poeti in cui tanti intellettuali si arruolarono volontari.
Un esercito tragicamente sconfitto, grazie alle divisioni della sinistra e ai crimini degli stalinisti contro i compagni che avevano combattuto al loro fianco, e grazie all’appoggio determinante del governo fascista italiano che schierò 50.000 soldati in aiuto dei falangisti. Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall’altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo, scriveva nel 1965 don Lorenzo Milani.

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La cattedrale di Coventry

By Antiwar Songs Staff on 14 Novembre 2013

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Il 14 novembre del 1940 la città inglese di Coventry fu attaccata dalla Luftwaffe nazista. In una notte di plenilunio (con una tipica Bomber’s Moon) le incursioni aeree tedesche seminarono morte (1236 vittime civili) e distruzione. La cattedrale del XIV secolo simbolo della città fu colpita da 12 bombe incendarie. Restarono in piedi solo alcune pareti annerite dal fumo. La città era stata totalmente rasa al suolo, tanto da aver dato addirittura origine al verbo “to coventrize” (passato anche in italiano: “coventrizzare”), come sinonimo di “radere al suolo con bombardamenti aerei”.

Nel 1962 Benjamin Britten fu incaricato di comporre un brano per la cerimonia che segnava il completamento della nuova cattedrale, progettata da Basil Spence, costruita accanto alle rovine dell’edificio originale.

La “Messa da Requiem per la Guerra” (War Requiem) non intendeva essere un brano a gloria della Gran Bretagna e dei suoi soldati, ma una pubblica affermazione delle convinzioni contro la guerra di Britten. Si trattava di una denuncia della malvagità della guerra, e non di altri uomini. Il fatto che Britten avesse composto il brano per tre solisti specifici –il sommo baritono tedesco Dietrich Fischer-Dieskau, la soprano russa Galina Višnevskaja e il tenore britannico Peter Pears- dimostrava che, per l’autore, non contavano soltanto le perdite e le sofferenze del suo paese, e voleva essere un simbolo di riconciliazione. Sfortunatamente, Galina Višnevskaja non era disponibile per la prima, e dovette essere sostituita da Heather Harper. Il brano voleva essere anche un monito per le future generazioni sull’insensatezza di prendere le armi contro i propri simili.

Per il testo del “War Requiem”, Britten intercalò il testo della messa da requiem latina con nove poesie scritte da Wilfred Owen, un fante della Prima guerra mondiale che trovò la morte una settimana prima dell’armistizio. In totale contrasto con “The Spirit of England” del conterraneo Edward Elgar, il “War Requiem” è decisamente un’opera contro la guerra. “The Spirit of England” è pure un brano epico consistente in poesie messe in musica, ma il suo messaggio è totalmente differente.

La poesia di Wilfred Owen è strana e assai interessante. Come lui stesso ebbe a dichiarare:

Non sono interessato alla poesia. Il mio argomento è la guerra, e la pietà in guerra. La poesia sta nella pietà. Eppure queste elegie non sono in alcun modo concilianti verso questa generazione. Lo potranno essere verso la prossima. Tutto quel che un poeta può fare è ammonire. E’ per questo che i veri poeti devono essere sinceri.

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Avanti il prossimo

By Antiwar Songs Staff on 14 Novembre 2013

Jacques Brel

Non sappiamo se esista una frase o un verso che possa riassumere l’antimilitarismo, tutto, in blocco. Forse, però, esiste in questa che è tra le vette di Jacques Brel:

Cette voix qui sentait l’ail et le mauvais alcool
c’est la voix des nations et c’est la voix du sang

“Questa voce che puzzava d’aglio e di alcool schifoso
è la voce delle nazioni, è la voce del sangue.”

Semplicemente da genio. E Jacques Brel lo era.

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Esorcismi

By Antiwar Songs Staff on 11 Novembre 2013

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Sembrava come se la guerra potesse diventare permanente, per cui c’erano grandi ‎dimostrazioni ‎previste per ottobre del 1967 con l’obiettivo di circondare il centro nevralgico della ‎guerra, il Pentagono a Washington, D. C. ‎A qualcuno venne l’idea di lanciare un esorcismo contro ‎questa mistica cittadella pentagonale ‎dedita al napalm e all’incenerimento. ‎
Fui d’accordo a scrivere e a realizzare un vero esorcismo. ‎

Tuli ed io prendemmo in affitto un camion e sul pianale ci mettemmo un sound system. I Fugs e un ‎gruppo dei San Francisco Diggers [gruppo di attivisti radicali e anarchici che si rifacevano ai ‎Diggers del 1600, ndr] salì a bordo e ci unimmo alla marcia di protesta sul ponte che collega ‎la città al Pentagono. ‎
Ci piazzammo ai margini di un ‎parcheggio, a poche centinaia di metri dal nostro obiettivo, mentre ‎passavano decine di migliaia di partecipanti, ‎ed io attaccai con la litania dell’esorcismo sicchè dopo ‎poco cantavano tutti insieme “Via i demoni, via‎!” e siamo andati avanti per circa 15 minuti. ‎

I registi Barbara Rubin e Shirley Clarke filmarono la performance, mentre il mago/regista Kenneth ‎Anger [regista underground sperimentale, autore di pellicole come “Scorpio Rising”, ndr] ‎‎partecipò anche lui al rituale di esorcismo proprio sotto il nostro camion. ‎

Quando terminammo l’esorcismo, marciammo sul prato davanti al Pentagono dove ‎linee di militari ‎armati di fucili spianati sorvegliavano l’ingresso. Avevamo con noi dozzine di ‎margherite. ‎

Ci fermammo di fronte ai giovani e nervosi soldati e mettemmo delicatamente alcuni steli nelle ‎canne dei fucili e poi ce ne andammo‎, lasciando dietro di noi quella meravigliosa visione dei petali ‎bianchi contro lo scuro metallo. ‎
Avevamo fatto una cosa grandiosa, e la gente ci lodò per la nostra audacia, anche se la Guerra del ‎Vietnam andò avanti per altri sette anni. Troppo per il nostro “Via i demoni, via‎!”.‎

The Fugs – Exorcising the Evil Spirits From the Pentagon Oct. 21, 1967‎

Foto di Marc Riboud

Posted in Canzoni | Tagged The Fugs, Vietnam

L’Alba di Piero

By Antiwar Songs Staff on 10 Novembre 2013

apocalypsenow

Quante volte Piero hai sognato di resistere
a questa sporca guerra che nessuno vuole vincere
e scende nera l’ombra del nemico su di te
Sparagli Piero, sparagli ora e se si rialza
sparagli ancora!

È una canzone importante, questa Alba di Piero dei Destir. Una canzone che, sin dal titolo, si rifà ad una delle più famose canzoni contro la guerra di ogni tempo, e sicuramente la più celebre in lingua italiana: La guerra di Piero di Fabrizio De André. Sin dal titolo e soprattutto nel celebre refrain, “Sparagli Piero”. Ma siamo, qui, in un’ottica diversa. Radicalmente diversa. L’ottica di De André, il suo punto di partenza, è la rassegnata obbedienza del coscritto che deve partire per la guerra, e che “marcia con l’anima in spalle”, coi suoi pensieri neri, senza mettere in discussione il fatto che lui alla guerra ci deve comunque andare.

Il Piero cui i Destir si rivolgono con questa canzone non è quel soldato senza tempo, o sospeso in una specie di medioevo senza tempo, che De André ci ha presentato sotto la precisa influenza di Brassens. Questo è un Piero che verrebbe la voglia di situare direttamente nelle giungle del Vietnam, o a Bagdad. È un Piero da Apocalypse Now. Un Piero cui vengono fatti toccare con mano tutto l’orrore, il sangue, l’atroce rumore, la pazzia assassina di ogni guerra. È il Piero della guerra odierna, questo; un Piero che, finalmente, viene strappato all’atemporalità per essere situato nella sua epoca, che è anche la nostra.

Forse, inconsciamente, avevo presente questa canzone quando, qualche tempo fa, avevo scritto una sorta di “parodia” della “Guerra di Piero”, ambientandola in Iraq: La guerra di Peter. Non sono ovviamente incline ad autocitarmi, ma penso che in quest’unico caso possa essere pertinente. Si tratta anche in questo caso di un trascinare Piero in una situazione reale, con la coscienza che il testo di De André ha nella sua atemporalità sia la sua grandezza che il suo limite.

La sua grandezza, perché, con la sua struttura, “La guerra di Piero” è diventata una canzone universale. Il suo limite, perché la sua sospensione la rende in un certo qual modo rassicurante. Questa “Alba di Piero”, invece, è una serie di grida che tutto vogliono essere, tranne che rassicuranti. Non siamo “in fondo alla valle”, qui. Non ci sono solo due uomini che si vengono incontro “con la divisa di un altro colore”. Qui siamo al fronte. Qui siamo in una battaglia. Qui siamo in un mare di fuoco e di bombe. In fondo, il Piero di De André, con la sua morte solitaria e rapida (non osiamo dire indolore, ma la tentazione è forte…) e il suo campo di papaveri rossi, è scampato a tutto questo. Il Piero di questa canzone, il suo compagno che gli parla e tutti i Pieri che sono lì in quel momento stanno vivendo la follia nel suo crudissimo realismo.

Questa volta giuro Piero io non obbedisco;
quelli sono forti, Piero, quelli sparano davvero,
sogno di fuggire, ma mi vien da vomitare,
muoio di paura, Piero, e sto per sanguinare

“Giuro, Piero, stavolta non obbedisco”. È qui il passo decisivo. È la coscienza del rifiuto. La diserzione. Il passo che il Piero di De André non è stato pronto a compiere, con quel suo andare avanti, con quella sua valle, con quella sua “frontiera” imprecisata. Qui, invece, la frontiera è stata prima varcata dai missili lanciati da centinaia di chilometri di distanza. Gli uomini sono venuti dopo. La morte è venuta come un grappolo infuocato e si è sparsa su tutti. E chi è ancora vivo, pensa finalmente alla ribellione. Piero, finalmente, si trova davanti a chi gli propone un’esatta e definitiva presa di coscienza. [RV]

Posted in Canzoni | Tagged Apocalypse Now, Destir, disertori, Fabrizio De André

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