Dal 20 marzo scorso, vale a dire dal 20 marzo 2021, “Canzoni Contro la Guerra” / “Antiwar Songs” / “Chansons Contre la Guerre” può votare, prendere la patente di guida, andare nelle prigioni ordinarie, contrarre matrimonio, stipulare liberamente contratti e effettuare testamento: è diventato maggiorenne. Ha diciott’anni, insomma. Come recita la famosa dicitura sulla homepage: “Canzoni Contro la Guerra” è online dalla sera del 20 marzo 2003, giorno in cui sono cominciati i bombardamenti statunitensi sull’Iraq”. Insomma, se non è proprio un “Millennial”, poco ci manca; senza tenere conto, naturalmente, che diciott’anni, per un sito Internet, sono pressoché un’eternità. Non sappiamo quanti altri siti al mondo possano dichiarare una simile longevità continua: non siamo mai andati offline, non c’è stata nessuna interruzione se non qualche breve “pausa tecnica” dovuta a accidenti del server.
In questi diciott’anni abbiamo inserito, commentato e tradotto quasi trentaquattromila canzoni, brani musicali, parole in musica, musica senza parole, colonne sonore di film, opere liriche, brani antichissimi e brani scritti due ore fa, poesie, opere serissime e tristissime, canzoni da scompisciarsi dal ridere, parodie e non so nemmeno io cos’altro. La “guerra” si è dilatata a tutte le guerre e alle lotte possibili e immaginabili dell’uomo contro l’uomo, gli animali e l’ambiente; ci sono pagine che hanno fatto il giro del mondo, altre che hanno fatto il giro d’Italia o di Francia e altre che non hanno fatto nemmeno il giro di casa propria. Essendo chi scrive allergico ai “bilanci”, che gli fanno venire delle brutte reazioni simili all’orticaria, è bene fermarsi qui. Non senza, però, far notare che, nei suoi diciott’anni di vita, le “CCG”, o “AWS”, hanno fatto volentieri a meno -e continueranno a farlo- di due cose: qualsiasi forma di pubblicità al suo interno, ma proprio nemmeno un bannerino che sia uno, e i “social media” di merda. Apparteniamo alla preistoria, d’accordo, e resteremo fieramente preistorici. Padroni di niente e servi di nessuno.
In questi diciott’anni abbiamo raccolto: lodi sperticate, critiche feroci, dichiarazioni d’amore, insulti, sarcasmi, discussioni interessanti, discussioni deliranti, citazioni in libri, minacce di violazione del copyright, spam a tonnellate, interventi di autori e artisti, qualsiasi cosa. C’è stato persino il pazzo furioso che aveva preso il Guestbook per il suo diario personale (“Cari amici del Guestbook”…). Secondo qualcuno, il sito è “brutto esteticamente” (saranno molto bellini quelli dello Stormfront o di Forza Nuova, chissà). Un amministratore si è fidanzato con una amministratrice. Amministratori e collaboratori che sono andati, venuti, tornati, di nuovo andati e di nuovo, si spera, ritorneranno. Altri collaboratori ci hanno lasciati per sempre. Una babele di lingue e dialetti contenente persino l’unico tentativo al mondo di restituzione di un testo in cinese antico. Canzoni contro la guerra, contro il lavoro (il suo parente più prossimo), contro ogni cosa e a favore di ogni altra cosa. Ci sono gli “Extra” e c’è il “Bollino Bleah”. Abbiamo fatto conoscere sconosciuti infilando anche canzoni scritte dal ragazzino greco di dodici anni. Non ci abbiamo mai guadagnato mezzo soldo bucato, da tutto questo: siamo fatti così. Eppure sembra che abbiamo, secondo siti specializzati nel monetizzare, un valore economico di circa 190.000 dollari: teneteveli pure, anzi cacciateveli nel culo.
Fondamentalmente, “Canzoni Contro la Guerra” è un sito di memoria e di Storia raccontata attraverso canzoni e musica: in modo sicuramente discontinuo e con migliaia di precisazioni, correzioni e integrazioni nelle sue migliaia di pagine, è quel che abbiamo sempre cercato di fare e che seguiteremo a fare fin quando si potrà. Un giorno, qualcuno -per legge di natura- se ne andrà nel Vastissimo Nulla, sperando che prima non si sia rincoglionito. Se tutto questo vi è anche solo un poco garbato, cerchiamo ragazzotti e ragazzotte che conoscano minimo una quindicina di lingue e che abbiano voglia di impegnarsi a fondo, per i prossimi diciott’anni, in un’opera difficile, faticosa, che non dà nessuna fama né gloria e che non rende nemmeno un euro. Grazie e a presto. Per ora si va avanti, in tasca anche al Covid.
Non c’è, in fondo, molto da aggiungere a quel che è stato già detto. E non è una cosa che riguarda solo lo stato spagnolo, i re e le corone. Riguarda il fondamento stesso di ogni stato: se lo attacchi nei suoi cardini e nelle sue figure “istituzionali”, persino con delle canzoni, quantomeno rischi la galera. Oppure ci vai, come è successo in questi giorni a Pablo Hasél, con tanto di assalto poliziesco all’Università di Lleida, dove si era barricato.
Nel bel mezzo della “pandemia”, quando ci hanno mess* più o meno tutt* agli arresti domiciliari e con addosso una museruola che non è costituita soltanto dalla mascherina, si viene a sapere che esistono canzoni, e persone che le cantano, di cui gli stati hanno una gran paura. Talmente tanta, da mettere in atto il loro apparato repressivo in grande spolvero. Il rap contro il mitra. Il rap non disinnescato, non addomesticato, non piegato. Ma non si creda che, altrove, sarebbe diverso. Non siamo nati per marciare soltanto sulla testa dei re, ma anche su quella dei presidenti o chi per loro. Pablo Hasél ce lo ricorda dalla galera in cui lo hanno rinchiuso. A noialtri, chiusi a nostra volta nelle nostre galere domestiche, piccole o grandi, e sempre che ce le abbiamo; a noialtri, rinchiusi tra terrori e noia nella “famiglia” o nella solitudine, separati a forza da chi amiamo davvero; a noialtri, tutto questo Pablo Hasél ci manda a dire. Senza futili eroismi, senza simbologie buone per le chiacchiere planetarie in Rete, ma senza mezzi termini e in modo non fraintendibile.
Che vengano rap, sinfonie, canzonette, suites, berci, ciaccone e liriche contro lo stato e chi lo rappresenta, che abbia o meno una corona in testa e un numero romano dietro al nome. Sono i vaccini, quelli veri. Vaccinarsi tutti contro gli stati, i governi e le polizie. Un’iniezione di pablohaselina. Un’iniezione di libertà, fisica e mentale.
Per uno di quei curiosi capricci del destino, o Anecdotes of Destiny -come avrebbe detto la baronessa Von Blixen Finecke-, la traduzione integrale in italiano delle non poche canzoni (cinquantanove, più quattro « Extra ») di Gaston Couté si è svolta interamente nel primo mese della Pandemia del Coronavirus. Lockdown. Tutti agli arresti domiciliari. File contingentate ai supermercati. Il metro di distanza. Le mascherine. Il bollettino di Borrelli delle ore 18. L’immunità di gregge. Occorre forse andare oltre ? Scriviamo il primo di aprile di questo anno del « doppio 20 », e non si vede la fine di questo incubo che è diventato già Storia, e che ci farà dire, a tutte e tutti : « Io c’ero ».
In questo sito, la Storia è, ovviamente, di casa. Rinchiusa anch’essa in casa, verrebbe quasi da dire attualmente. Vada come vada, con tutte le analisi e previsioni che si accavallano quotidianamente a ritmo incessante, è chiaro che niente potrà essere come prima. Tra le metafore più comuni utilizzate in questo frangente, c’è naturalmente quella della « guerra » : senza stare a ragionarci troppo sopra, e tenendo certamente presente l’estrema ed oppressiva militarizzazione delle vite e delle coscienze di tutti noi, è piuttosto lampante che, in un luogo dove la Storia viene fatta attraverso lo specchio di canzoni e musica « contro la guerra », tutti questi avvenimenti nei quali ci siamo ritrovati dentro hanno un’importanza decisiva, e delle ripercussioni enormi. Nessun avvenimento di tale portata avviene senza le sue canzoni. La canzone è compagna della Storia.
È andata così che le traduzione delle canzoni di Gaston Couté è andata di pari passo con la Pandemia. Al tempo stesso, nel sito, cominciava un « Canzoniere del Coronavirus », vale a dire un’apposita sezione che si occupa di raccogliere canzoni di ogni genere dedicate a questo che si è configurato come un autentico spartiacque storico. Negli stessi giorni in cui, dopo il suo insorgere in Cina, il Coronavirus arrivava proprio in Italia trasformandola in un lazzeretto di appestati rinchiusi in casa e distanziati, da una piccola discussione tra amministratori e utenti di questo sito nasceva l’iniziativa di tradurre integralmente tutte le canzoni di Gaston Couté presenti nel sito. Di poche esisteva già una traduzione : del poeta anarchico contadino francese si parlava però da anni e anni. La bellezza, la lungimiranza, l’afflato di vita e di rivolta e la devastante ironia delle sue canzoni erano note, seppure a non molti al di fuori della Francia. Ma nessuno si era mai deciso ad affrontarlo in simili dimensioni ; certo, tra i principali « scogli » c’era senz’altro l’ostico dialetto, il Beauceron, in cui molte delle sue canzoni sono composte. Il linguaggio di un’area rurale che, in generale, risulta assai ostico anche agli stessi francofoni. Il 1° aprile 2020 tale fatica è stata completata, con un lavoro corale da parte di alcuni amministratori e utenti del sito, tutti quanti rigorosamente prigionieri in casa.
Ha seguito, Gaston Couté, dal suo angolo di campagna e di Storia, dal suo vino, dalle sue rivolte antimilitariste e libertarie, dalla sua espressione della Vita e dell’Amore e dal suo viscerale anticlericalismo, tutta l’evoluzione di questa disgraziata fine d’inverno e di questo altrettanto disgraziato inizio di primavera. Dall’iniziale scetticismo, da « è solo un’influenza », dalle satire e dalle parodie divertenti, dallo sdrammatizzamento esorcistico alle prese di coscienza, alla Resistenza, alla Denuncia, al Fatalismo, all’Attivismo e a tutti gli infiniti modi in cui gli esseri umani reagiscono singolarmente e collettivamente di fronte ad un pericolo così grave e dalle conseguenze ancora imprevedibili e incalcolabili. La Storia, come sempre, si occuperà di due cose : di dirimere la questione, e di essere dimenticata in un dato lasso di tempo. La Storia è sì « maestra di vita », ma è una maestra che, ad un certo punto, va in pensione.
Nel frattempo, poiché questa severissima maestra è ancora in pienissima attività e agita la sua bacchetta ammannendo brutti voti e zero in condotta senza appello, assieme alle canzoni sulla Pandemia ecco anche il Canzoniere di Gaston Couté. Ha più di cento anni. Gaston Couté morì, in giovane età, ancor prima che scoppiasse quella che va ancora nota come « Grande Guerra », e che -tra le altre cose- si portò dietro proprio una pandemia, la famosa « Spagnola ». Eppure, viene da dire che il Destino e i suoi Capricci hanno una loro logica ben precisa, una logica di cui non ci rendiamo magari conto al suo -perlopiù casuale- inizio ma che, procedendo, appare sempre più chiara perlomeno a chi non si contenta della crassa, ancorché umanissima, bisogna di riempirsi la pancia. Una bisogna che anche Gaston Couté, del resto, provava quotidianamente e con dolore, e che esprimeva in quel che scriveva. Con questo vorremmo terminare questa presentazione.
Le traduzioni sono quanto di più eterogeneo si possa immaginare. Nessuna di esse è « d’arte » in senso stretto : si trattava, principalmente, di far capire. Vi sono traduzioni in italiano corrente, nei dialetti nativi di uno dei traduttori, a volte con i due registri linguistici mischiati. Vi sono nottate intere di lavoro nel silenzio di un paese e di un mondo sotto assedio, ma non soltanto da un virus. E questo ce lo dice anche Gaston Couté. Scritto il primo di aprile di un’annata maledetta e straordinaria, calata la sera ; l’ultima canzone tradotta termina con una sorta di inno alla vita e all’amore, con la partecipazione straordinaria di Brigitte Bardot, di Silvia Dionisio e del Conte Mascetti.
Stamattina mi sono alzato,
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao,
Stamattina mi sono alzato
E ho trovato l’invasor.
O partigiano portami via
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao,
O partigiano portami via
Che mi sento di morir.
E se io muoio da partigiano
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao,
E se io muoio da partigiano
Tu mi devi seppellir.
E seppellire lassù in montagna,
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao,
E seppellire lassù in montagna
Sotto l’ombra di un bel fior.
E le genti che passeranno
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao,
E le genti che passeranno
Mi diranno o che bel fior.
È questo il fiore del partigiano
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao,
È questo il fiore del partigiano
Morto per la libertà.
È questo il fiore del partigiano
Morto per la libertà.
[Ed era rossa la sua bandiera
come il sangue che versò.]
Questa è la versione del canto partigiano generalmente conosciuta, in una versione “mediamente accettabile”. Ma esistono innumerevoli versioni differenti a volte per una sola parola. La coda finale in corsivo è a volte cantata nelle versioni eseguite da comunisti, ma non è generalmente accettata per lo stesso carattere “neutrale” di Bella Ciao, senz’altro una delle chiavi della sua estrema popolarità. Carlo Pestelli chiama “Bella Ciao” una “canzone gomitolo in cui si intrecciano molti fili di vario colore”.
A costo di essere ripetitivo, e lo sarò, “Bella Ciao” è diventato un canto leggendario, in ogni accezione di questo termine. Fatto salvo il densissimo libriccino di Carlo Pestelli, la cui lettura raccomando a chiunque si interessi alla inestricabile storia del canto, le leggende sono fiorite ovunque, e continuano a fiorire in un periodo storico in cui, da un lato, la sua forza simbolica non viene certo meno e, dall’altro, gli ultimi possibili testimoni storici stanno morendo per legge naturale. Questo sta trasformando “Bella Ciao” in un vero canto popolare le cui origini non potranno mai essere chiarite, a meno di una qualche improbabile “clamorosa scoperta” che dirima la questione.
Tra le varie “testimonianze”, ce n’è qualcuna che è stata smentita dai fatti. Ad esempio, quella che voleva “Bella Ciao” adottata da varie brigate partigiane e addirittura l’inno della Brigata Partigiana Maiella. Ma nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore Troilo, il fondatore della Brigata, non si fa alcun accenno a “Bella Ciao” nonostante il libro contenga parecchie canzoni cantate dai componenti della Brigata. L’inno della Brigata Maiella, quello vero, si chiamava Inno della Lince ed era stato composto da Donato Ricchiuti, partigiano della “Maiella” caduto in combattimento il 1° aprile 1944.
Nessuna traccia di “Bella Ciao” si trova in Canta Partigiano, edito dalla Panfilo nel 1945; lo stesso vale per la rivista Folklore, che nel 1946 dedicò ben due numeri ai canti partigiani, curati da Giulio Mele. Il celebre Canzoniere Italiano curato da Pier Paolo Pasolini ha una sezione intera dedicata ai canti partigiani, ma di “Bella Ciao” non si ha notizia. E così via, per quanto riguarda il primo dopoguerra in cui, per forza di cose, i canti partigiani godevano di vasta conoscenza. Come già specificato a più riprese in questa pagina, le testimonianze sull’esecuzione di “Bella Ciao” da parte di un gruppo di studenti italiani nel 1948 a Praga, sono vaghe e, quel che più conta, contraddittorie. In effetti, il primo “Festival Mondiale della Gioventù” si svolse a Praga nell’estate del 1948; sarebbe stato in questa occasione che il canto fu eseguito pubblicamente, “riscuotendo enorme successo”. Ma non se ne ha nessuna registrazione, e nessuno dei famosi “studenti italiani” è stato mai reperito. Tale “Festival della Gioventù” è poi, come dire, un po’ “itinerante”. Secondo alcuni testimoni, si sarebbe trattato di un “Festival di canzoni popolari”. Secondo altri, sarebbe stato nel 1947, e non a Praga, ma a Berlino Est (il “Festival Mondiale della Gioventù” si svolse effettivamente a Praga per la prima volta, l’anno successivo). Altri testimoni invece spostano il Festival a Berlino Est, ma nel 1949 (la seconda edizione si svolse invece, in quell’anno, a Budapest). Insomma, anche la questione del Festival non è per nulla chiara e, aggiungo, non lo sarà mai.
Qualche fatto certo ed appurato, però, c’è. La prima pubblicazione a stampa di “Bella Ciao”, ad esempio: risale al 1953, sulla rivista “La Lapa” a cura di Alberto Mario Cirese (1921-2011), importante antropologo e etnomusicologo avezzanese, esponente del PSI e, per un brevissimo periodo nel maggio 1958, presidente della Provincia di Rieti. Due anni dopo, nel 1955, “Bella Ciao” viene inserita per la prima volta in una raccolta, Canzoni partigiane e democratiche, a cura della Commissione Giovanile del Partito Socialista Italiano. Il 25 aprile 1957, L’Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci e organo del Partito Comunista Italiano, pubblica in occasione della Festa della Liberazione una breve raccolta di canti partigiani, e “Bella Ciao” vi è inserita; nello stesso anno, la si ritrova anche nei Canti della Libertà, supplemento al volumetto Patria Indifferente, distribuito ai partecipanti al 1° Raduno Nazionale dei Partigiani a Roma.
Arriviamo al 1960, l’anno di Tambroni, dei moti genovesi del 30 giugno, della Nuova Resistenza, dei morti di Reggio Emilia: la “Collana del Gallo Grande” delle Edizioni dell’Avanti (il quotidiano del PSI), pubblica una vasta antologia di canti partigiani, e vi si trova (a pagina 148) O bella ciao [sic], citando la già citata antologia socialista del 1955 (e si noti che, nella progressiva diffusione del canto, il PSI giochi un ruolo più importante di quello del PCI, che aveva già il suo Fischia il vento, canto molto più fortemente connotato politicamente). Qui il PSI si scatena, e dà realmente inizio alla fase leggendaria: intanto, la melodia viene presentata come “derivata da una celebre aria della Grande Guerra”, talmente celebre da non farvi neppure un accenno. Si afferma inoltre quanto segue: “Durante la Resistenza raggiunse, in poco tempo, grande diffusione”. Come si può vedere, tutta una serie di ciò che adesso si chiamerebbero bufale.
La cosa sembra diventare una specie di questione tra il PCI e il PSI: i Canti Politici, pubblicati nel 1962 dagli Editori Riuniti (la casa editrice del PCI), contengono ben sessantadue cant partigiani, ma di “Bella Ciao” non v’è traccia alcuna. Però, come in tutta la storia palese e nascosta di questo canto, ci sono numerosi “accidenti” che costringono a fare costantemente marcia indietro. Come detto, la prima pubblicazione a stampa di “Bella Ciao” risale al 1953; ma, nel medesimo anno, il giornalista Riccardo Longone pubblica sull’Unità (il 29 aprile 1953, per la precisione) un articolo in cui si afferma che “Bella Ciao” è già conosciuta in Cina e in Corea. Il canto doveva quindi essere già non solo conosciuto, ma addirittura cantato in posti lontanissimi (rimettendo del tutto in gioco, quindi, la questione del Festival). Non se ne cavano le gambe.
Nel 1963, “Bella Ciao” viene incisa, in italiano, dal sig. Ivo Livi, da Monsummano Terme (Pistoia), più noto come Yves Montand (”Una mattina mi son svelliato”…):
L’anno della definitiva “consacrazione” di Bella Ciao è il 1964. Lo spettacolo presentato dal Nuovo Canzoniere Italiano al Festival dei Due Mondi di Spoleto, dedicato al canto sociale italiano, si chiama giustappunto, Bella Ciao. Un programma di canzoni popolari italiane; era stato organizzato da Filippo Crivelli, Franco Fortini e Roberto Leydi, su invito di Nanni Ricordi. Il Nuovo Canzoniere Italiano contava in quell’occasione su Sandra Mantovani, Giovanna Daffini, Giovanna Marini, Maria Teresa Bulciolu, Caterina Bueno, Silvia Malagugini, Cati Mattea, Michele L. Straniero e il Gruppo di Piadena, accompagnati alla chitarra da Gaspare De Lama. Lo spettacolo diviene il caposaldo del folk revival italiano, diffonde definitivamente Bella Ciao, la quale viene preceduta dalla “Versione delle Mondine” eseguita dalla Daffini. Lo spettacolo rimane famoso anche per la prima esecuzione di Gorizia, che provoca uno scandalo: tra le altre cose, un ufficiale dei carabinieri presente in sala denunciò Straniero, Leydi, Gianni Bosio e Crivelli per vilipendio delle forze armate italiane.
Tutto ciò, ovviamente, contribuisce alla notorietà dello spettacolo e rende famosissimo il Nuovo Canzoniere Italiano.
Nel 1965 spunta Vasco Scansani: in una lettera all’Unità rivendica la paternità della “Bella Ciao delle mondine” cantata dalla Daffini nello spettacolo, affermando di averla scritta nel 1951 (in realtà nel 1952). Lo Scansani scrive di avere consegnato personalmente il testo alla Daffini (che abitava nel suo stesso palazzo a Gualtieri); pressata da Gianni Bosio, l’Unità non pubblica la lettera, ma si ha poi un confronto tra la Daffini e Scansani in cui l’ex mondina e cantrice popolare ammette di avere effettivamente ricevuto il testo dal suo autore. La versione “mondina” è quindi posteriore a quella partigiana, e non ne è alcuna “fonte” o antesignano. Ma non è finita qui. Nel 1974, un ex carabiniere toscano, Rinaldo Salvadori (spesso nominato come “Salvatori”), di Camucìa (Arezzo), scrive una lettera alle Edizioni del Gallo in cui sostiene di avere scritto lui la canzone per una mondina, nel 1933, ma di non averla potuta depositare alla SIAE perché impeditone dalla censura fascista. Il Salvatori va oltre: nella rivista locale L’Etruria dell’ottobre 1978, viene pubblicato un articolo intitolato: Un camuciese autore di bella ciao, in cui vengono riportati i testi di due canzoni: una “canzone – marcia” intitolata Partigiano, datata “Cortona 3 luglio 1944”,e una “Bella Ciao – 1943”, ”Canzone mondina di Restelli/Salvadori tradotta in canzone Badogliana Partigiana nel 1943 unitamente a partigiani francesi”. Secondo il Salvatori, la versione originale della canzone si intitolava “La risaia”.
In mezzo a questo mare magnum, resta il fatto che le testimonianze sono, regolarmente, contraddittorie. Non vi è alcuna fonte documentale anteriore al 1953, e che il canto sia stato intonato autenticamente durante la Resistenza, almeno in parte, resta da dimostrare. Nessun partigiano si è mai ricordato di averlo cantato, detto in soldoni. Ma, sicuramente, “Bella Ciao” non è venuta fuori dal mondo della luna. Può sicuramente darsi che siamo di fronte a uno dei più tipici casi di “invenzione della tradizione”: gli indizi per una cosa del genere ci sono tutti. A condizione di non utilizzare questa cosa per screditarlo Che si trattasse di una sorta di falso, ne era convinto anche Giorgio Bocca; ma andò a finire che, al suo funerale, fu suonata e intonata proprio “Bella Ciao”. Non sarà stato un canto di Resistenza nei tempi storici in cui essa era in atto, ma è comunque diventato un canto di Resistenza per tutti i tempi a venire.
La pagina di Auschwitz(Canzone del bambino nel vento) compie vent’anni. È una delle due (assieme a quella dell’Internazionale) che sono pre-esistenti all’intero sito, e che vi sono trasmigrate in seguito. Risale, quindi, al fatidico anno 2000 (o “Dumila”), quello dei famigerati “Millennials”. E’ una pagina “Millennial” pure lei, quindi. Nell’anno Dumila, il quattordici di giugno, Francesco Guccini compiva sessant’anni; all’epoca, si riuniva quotidianamente sull’ancora misteriosa “Internet”, e nella fattispecie nell’ancor più misteriosa “Usenet”, una congrega di pazzoidi e pazzoidesse in luoghi, embrioni di una già piuttosto folle “socialità” in rete, detti “Newsgroups” (italiano: niusgrùppi o gnusgrùppi); suddivisi in varie “gerarchie”, vi si poteva discutere un po’ di ogni cosa. Uno di questi niusgrùppi, della “gerarchia it.”, si chiamava it.fan.guccini (poi mutato in it.fan.musica.guccini). Forse, chissà, ne avete sentito parlare, anche perché il suo nome si trova ancora sulla homepage di questo sito in quanto suo “co-iniziatore” nel 2003 con la famosa raccolta primitiva di canzoni contro la guerra.
it.fan.(musica.)guccini esisteva in realtà già da diversi anni; dal 1996 per la precisione. Uno dei suoi estensori e iniziatori fu, peraltro, quel Luca Monducci, allora capostazione nonché bloccatore di convogli militari a Empoli, che era stato un mio compagno di scuola e che ogni tanto si rifà vivo anche qua dentro dal suo buen retiro mugellano. Alla fine di detto anno 1996, neo-internettaro a pagamento, provider carissimo e TUT (Tariffa Urbana a Tempo della SIP, vale a dire bollette telefoniche agghiaccianti), ero già su quel niùsgrup contribuendo, mettiamola così, a dare avvio a un’esperienza decisamente particolare, anche e soprattutto per le sue componenti e implicazioni umane quando, dal cosiddetto “virtuale”, si passò al “reale” (amicizie, inimicizie, amori, trombate, corna, risate, mangiate, lacrime, rivalità, verità, menzogne e quant’altro). Ora, coi “social”, è pane quotidiano; allora era la scoperta di un mondo veramente màggico.
it.fan.(musica).guccini aveva, tra le sue caratteristiche, quella di molestare ripetutamente Francesco Guccini. C’è stato un periodo in cui eravamo ovunque (concerti, riunioni eccetera), persino con lo striscione:
Firenze, Palasport (ora “Mandela Forum”), 14 aprile 2000.
Nella foto sopra mi si vede al centro, 37enne, fare il pugno chiuso. Alla mia destra, un riconosciuto e conclamato fascista a cui piaceva Guccini; alla mia sinistra, un sacerdote cattolico, allora parroco di una ridente località chiantigiana. C’erano, poi, tra gli altri e le altre, un’astronoma, una brava ostetrica, il gigantesco autore (2,01 metri di statura, nonché eminente matematico) della traduzione dell’ “Internazionale” nel dialetto di Chieti e un anarchico o roba del genere. La foto era stata scattata da un metereologo che, ora, ogni tanto si vede in televisione, e sul cui sito personale -peraltro- sono stati ospitati in libero scaricamento i primitivi cinque files di testo delle CCG (ci sono ancora). Insomma, tutto questo per cercare di dare una pur vaga idea. Le molestie a Guccini, che oramai di “quelli di Internet” non ne poteva più, erano capillari e scientifiche. La sera stessa del 14 aprile 2000 gli andammo dietro a rompergli i coglioni mentre mangiava al ristorante “La Greppia” (sic), e dove cantò -ebbene sì!- “Figli dell’officina“. Un paio di anni prima rispetto alla foto, nel luglio del 1998, ci eravamo spinti in massa addirittura nel sacrario di Pàvana, dove Guccini presentava il suo dizionario del dialetto locale (che ho ancora, con tanto di dedica che, ne sono certo, sottintende un “vaffanculo e lèvati dai quajàn”). La mia cospicua dose di molestie si esplicò facendo presente a Guccini, in piena presentazione, che non era vero che un dato fonema esisteva soltanto nel dialetto di Treppio: esisteva anche in albanese e in macedone. Colsi benevoli sguardi di odio negli occhi del Maestrone.
Insomma, per farla breve, nell’anno 2000 decidemmo, come niùsgrup, di fare un “regalo” a Guccini per i suoi sessant’anni. Ma siccome nessuno si decideva a fare una proposta, mi misi in azione: avrei tradotto, e/o fatto tradurre, “Auschwitz” nel maggior numero di lingue possibili, inserendo tutto in una “pagina Internet”. La storia di quella pagina (attualmente persasi chissà dove, dopo vent’anni) è quantomeno curiosa, e ve la racconto per sommi capi. Per prima cosa cominciai a fare letteralmente il bìschero: nel senso, a tradurre personalmente in lingue che conoscevo poco o per nulla, aiutandomi con grammatiche e dizionari. Vista l’impossibilità della cosa, e i risultati che dovevano somigliare a qualcosa tipo “Io morire con cento altri, morire pampino passare kamino”, cominciai a scandagliare tutto il quartiere del Pontino (Livorno) implorando varie conoscenze di darmi una mano. Cosicché la pagina contiene traduzioni di Auschwitz fatte da una pizzaiola e da una commessa di lavanderia. Da poco, andavo in sinagoga a lezione di ebraico moderno; naturalmente, misi in mezzo anche la mia insegnante (una simpatica e graziosissima ragazza israeliana di poco più di vent’anni, molto brava e anche discretamente incinta) e ne venne fuori la versione in ebraico. E così via, ivi compresa la traduzione in samoano per la quale, qualche tempo dopo invero, andai a rompere le scatole sul canale #IRC delle isole Samoa -scoprendo che, in samoano, “Auschwitz” si dice “Auvitu”, e che per tradurre “c’era la neve” i poveri samoani dovettero fare non so che giri di parole, visto che la neve alle isole Samoa non c’è e non esiste nemmeno la parola.
Com’è e come non è, alla fine la pagina, ovvero il “regalo a Guccini”, fu pronto prima del quattordici di giugno dei suoi sessant’anni. La pagina era un’autentica schifezza (immaginatemi a costruire una pagina su Lycos nel 2000), e alcune traduzioni erano -mettiamola così- un po’ approssimative. Come recapitare il “regalo”, però? Ci aiutò un po’ la sorte. Attraverso vie che ignoro, l’orripilante pagina Lycos fu “catturata” da qualche funzionario televisivo addetto, il quale pensò bene di darne notizia (e con discreto risalto) addirittura sul Televideo della RAI. Esattamente la mattina del 14 giugno 2000.
Poi sono passati gli anni. it.fan.(musica).guccini è annegato -come era lecito attendersi- in amori, odi e via discorrendo. Ci siamo sparpagliati per il mondo, perdendoci di vista. Nulla di straordinario; ogni cosa passa e va. Quella pagina su “Auschwitz”, però, era stata consegnata alla Grande Rete, e restava; ad un certo punto, è -appunto- trasmigrata integralmente in questo sito. Fin dall’inizio: in tutto il sito di trentunomila pagine e rotte, ha il numero 7. Sta fra le “CCG primitive” e tra quelle “Fondamentali” (quelle con il bollino rosso con la “B”). Si è ampliata. Ci sono stati i commenti. Tutto quel che si vuole, ma alla fin fine era sempre lei: la pagina del 2000, di vent’anni fa.
2020, o Dumilaventi. Appena cominciato. Che lo crediate o no, anche noi ci abbiamo i nostri “anni Venti” (diversi dai vent’anni, ohimè). Il 14 giugno prossimo, Francesco Guccini, di anni, ne compirà ottanta. Così, ho deciso che questa àvita pagina meritava una ristrutturazione radicale, e a pensarci bene “Vent’anni dopo” riporta molto a Dumas (Quasi come Dumas…). Una ristrutturazione e, direi, in primis un sano repulisti. L’ho “deventurizzata” il più possibile, sostituendo diverse mie “traduzioni” fatte coi piedi con traduzioni (di madrelingua) trovate in rete e lasciando, tra le mie, solo quelle che hanno passato un esame spietato, dato che -in vent’anni- di qualche lingua ho migliorato la conoscenza (ma, di qualche altra, niente affatto). Ovviamente questo significa poco o punto: chiunque, madrelingua o conoscitore approfondito di un dato idioma o di più di essi, può intervenire e/o fare una traduzione nuova di sana pianta. Sappia che sono non solo ricettivo, ma sollecito la cosa; quanto meno Venturi ci sarà in questa pagina, quanto più sarò felice. Di molti dei traduttori originali non esiste più notizia e me ne dispiace. Con qualche miglioria grafica e di layout, spero comunque che questa “paginona” (così la avrebbe chiamata Gian Piero Testa che, fra l’altro, è tra i traduttori) possa ancora servire, con tutta la sua lunga e peculiare storia. Mi chiedo, a volte, se Francesco Guccini ne abbia mai, in qualche modo, avuto notizia; chi lo sa, e non glielo andrò a chiedere di certo. Però, se è nata come “regalo di compleanno”, che regalo di compleanno sia anche per i suoi ottant’anni prossimi venturi (ehm); è sempre un dono fatto con il cuore, come tutti i doni autenticamente inutili e improbabili. Tutto sommato, non penso che gli farebbe maggior piacere ricevere il classico maglione di lana, oppure il disco alla moda ed i cioccolatini. Poi, chiaro, c’è anche questa canzone che no, non si decide mai a cessare di essere attuale. Tutt’altro. Poiché siamo vicini all’ennesima “Giornata della Memoria” del 27 gennaio (la data in cui truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di Auschwitz-Birkenau, toh), potrà magari servire un po’ a non far sì che quella memoria scompaia, in un mondo che sta viaggiando diritto verso le sue cicliche e smemoratissime ripetizioni. L’augurio è anche questo, seppure con scarsissima speranza e con notevole realismo.
Nel frattempo, entro il 14 giugno, invito naturalmente chi volesse a inserire altre traduzioni: nella sua lingua, nel suo dialetto, in linguaggi informatici, in quello che vuole. Pagina ancora aperta dopo vent’anni, mentre la pagina dell’intolleranza, del razzismo e del nazismo non si chiude mai.
I cosiddetti “negazionisti”, quelli che negano siano mai esistiti Auschwitz, Treblinka, Mauthausen, Bergen-Belsen, Terezín, i forni e le camere a gas, sono -per così dire- titolari anche di un mistero linguistico. Dovrebbero, infatti, spiegare che cosa ne sia stato dell’antica lingua yiddish, il “giudeo-tedesco” parlato dagli ebrei dell’Europa orientale fin dal Medioevo. Nel 1939, ad esempio, in Polonia la parlavano oltre due milioni di persone; adesso non ne rimane praticamente nessuno. Ad occhio e croce, nel 1945 ne mancavano all’appello un sei o sette milioni di parlanti, contando anche quelli che erano emigrati altrove, principalmente in Nordamerica. Semplicemente, lo yiddish è stato eradicato dall’Europa; punto e basta. Sopravvive esclusivamente negli Stati Uniti, in Canada, e in Israele (dove è parlato pressoché totalmente da alcune comunità “ultraortodosse” che si rifiutano di riconoscere l’ebraico, idioma sacro, come lingua ufficiale dello stato). Nel 1939 era la lingua materna di circa dodici milioni di persone; città intere dell’ex Impero Russo parlavano yiddish fino all’80%, come Berdyčev nell’attuale Ucraina. Attualmente, le statistiche sono controverse; nel periodo che va dal 1986 al 1991 sembra che ancora fosse parlata da circa un milione e mezzo di persone, ma il numero va al ribasso. Lo Yiddish è stato sterminato e gassato dai nazisti; quel che ne è rimasto, è stato gassato dall’inglese.
Possedeva un ricchissimo patrimonio culturale, la lingua Yiddish. Una grande e variegata letteratura popolare e autoriale. Ha un premio Nobel, Isaac Bashevis Singer, che scriveva originariamente in Yiddish; un grande teatro e, quel che qui più ci interessa, una sterminata rassegna di canti e canzoni, popolari e d’autore. La sezioneYiddish del nostro sito raggiunge oggi, 29 novembre 2019, il traguardo delle cento canzoni, equivalenti -secondo le statistiche- allo 0,3% delle canzoni presenti in tutto questo mare magnum che è “Canzoni Contro la Guerra”. E’ la diciottesima lingua che lo raggiunge. Sembrerebbe un traguardo pressoché insignificante; ma l’importanza di questa sezione va ben al di là della sua stessa consistenza quantitativa. Vi si trovano, oltre alle canzoni popolari o comunque anonime, autori come Mordechai Gebirtig, Hirsh Glik, Shmerke Kaczerginski, Morris Rosenfeld, Abraham Sutzkever. Vi si trova, più che altro, tutta la Storia non solo di una comunità, della sua vita e della sua morte, ma anche -in gran parte- dell’intera Europa moderna e delle sue tragedie, espresse in forme originali e in una lingua la cui espressività è assolutamente mirabile.
Ci si aspetterebbe forse che queste 100 canzoni parlassero quasi esclusivamente della Shoah, dell’Olocausto, dei lager, delle rivolte nei ghetti, della Resistenza ebraica; una raccolta, come dire, di cento Zog nit keynmol (forse la più famosa canzone in yiddish). Tante ne parlano, è vero. Ma la canzone in Yiddish non è solo questo. E’ canzone anche di lotte sociali e politiche, di amore, di tragedie del lavoro (come Mayn rue plats, il capolavoro di Morris Rosenfeld e, mi sia permesso di aggiungere, tra le più belle canzoni in assoluto dell’intero sito), di ogni cosa. Nella sezione Yiddish del nostro sito abbiamo voluto rappresentarla, possibilmente, nella sua interezza. Dando conto di tutto ciò che essa ha registrato e trattato, e sicuramente al di là della recente “moda museale” della cosiddetta “canzone kletzmer”, attinente oramai (e, purtroppo, per forza di cose) più al folklore. E’ pur vero che anche la nostra sezione è una sorta di museo tematico; ma un museo che abbiamo voluto trattare, e che continueremo a trattare, come una raccolta di cose vive e vegete, non di cimeli del passato da esporre ai visitatori.
Anche e soprattutto per questo, la lingua Yiddish, che abbiamo la fortuna di conoscere discretamente bene, è stato trattato come una lingua viva, e non come l’esotico e sconosciuto mezzo di espressione del “kletzmer” (parola che significa “strumento musicale”). Per prima cosa riportandola sempre nell’alfabeto in cui si scrive, un alfabeto ebraico adattato, e non esclusivamente in trascrizioni più o meno “fantasiose”. Una sezione che ci è costata, non di rado, lacrime e sangue, e intere nottate insonni per compilare le varie pagine (spesso i testi in alfabeto originale sono assenti, e li abbiamo ricostruiti da trascrizioni). Spiegando, poi, il vero significato di alcune parole, espressioni, modi di dire. Anche parlando degli argomenti più terribili e tragici, lo Yiddish è una lingua che trasuda sempre ironia e dolcezza. Può darsi che, in tutto questo lavoro, qualcosa ci sia sfuggito, o che abbiamo commesso degli errori; ma fecimus quod potuimus. Ogni pagina di questo sito, del resto, è aperta e lo rimane per sempre.
Non finirà qui, ovviamente. Tanto c’è ancora da fare, come per ogni canzone, per ogni sezione, per ogni lingua rappresentata in questo sito. Per ogni storia e per ogni persona. Le canzoni sono storie di persone e di Storia. Non sappiamo e non possiamo sapere che cosa ne sarà, in futuro, dello Yiddish. Se continuerà ad essere una lingua viva, o se passerà nel novero delle lingue morte lasciando tutto il suo patrimonio ad un’umanità che di umano ha avuto poco o niente. Noialtri, nel frattempo, continuiamo ad effettuare il nostro trasbordo di voci e di memoria, che non è quella delle varie, e spesso vuote, “giornate” che lasciano il tempo che trovano. Al tempo diamo una spinta, e una spinta che vorremmo di vita.
Nell’immagine: la lettera scritta dalla vedova Rachel Zussman, da Gerusalemme, a suo figlio Moyshe, al Cairo. Risale al 1560 e è il primo documento completo redatto interamente in yiddish.
Scritto da Riccardo Venturi il 14 maggio 2012, a quarant’anni dall’assassinio di Franco Serantini, dopo una grossa manifestazione a Pisa in suo ricordo.
I morti hanno cose da dire, chi parecchie e chi poche. Si fa solo una gran finta d’ascoltarle, però; si preferisce metter loro in bocca le nostre. Funziona come nella pubblicità, ci fanno da testimonial. Per mezzo dei morti non si parla dei loro sogni, dei loro ideali e delle loro lotte; si parla di noi. S’affida loro quel che siamo; i morti, del resto, sono ubbidienti e non protestano. Sono messi in campo, da chi li ha, i ricordi; diretti da chi li ha conosciuti di persona, più o meno a fondo; altrimenti si ricordano le epoche, le situazioni, le comunanze e le differenze vere o presunte. Ma neppure se i ricordi non esistono si rinuncia per questo ai morti; ci sono i libri, le testimonianze, le fotografie, le inchieste. E così i morti assolvono al loro vero compito, quello di darci una parvenza di vita. Si dice che sono sempre vivi e che non moriranno mai (nella lotta, nell’idea, nel cuore); ma quella loro eternità è in realtà la nostra esclusiva sopravvivenza. Popolano i nostri sogni e i nostri incubi; periodicamente il loro ricordo è rinovellato, in “anniversari” sempre più lontani. Per le strade delle città sfilano i superstiti generazionali; barbe bianche, capelli incanutiti, bastoni, passi incerti. Mazzi di fiori, slogan, promesse di continuità; eppure, io dico che non siamo capaci di cogliere l’unica cosa veramente importante che quei morti ci vorrebbero dire. Quei ragazzi, quelle ragazze. Perché avevano vent’anni e in qualche caso nemmeno quelli.
Vorrebbero dire che sono morti nel loro presente. Che per quello sono andati a farsi ammazzare, mentre noialtri s’invecchia sfilando. Oppure s’invecchia ridotti a atomi inaciditi, curando più di presentarci come unici portatori di verità che sono tante quanti siamo; ognuno con la propria, e ognuno pronto sempre a scannare chi non la riconosce o la critica (promuovendo, naturalmente, la sua). E così si parla di “coscienza di classe” quando l’unica coscienza che ci è rimasta, in abbondanza, è quella della propria irripetibile, irrinunciabile, insopprimibile individualità. La “classe” dovrebbe sempre essere a nostra immagine e somiglianza; e, ovviamente, sono i morti che lo dicono. Verso i quali, inutile dirlo, s’ha generalmente una malcelata invidia. Parecchi pagherebbero per essere morti al loro posto, in modo da farsi sfilare addosso ancora trenta o quarant’anni dopo. Senza accorgersi che anche adesso c’è un presente, e che cercare di sfuggirvi è la vera immagine della resa. Non sarebbe un problema, se non si dichiarasse ogni momento non soltanto che non ci si vuole arrendere, ma persino che si vorrebbe insegnare agli altri a smettere di farlo. Non arrendersi significa soltanto una cosa: rapportarsi col presente. Non scappargli davanti. Il presente è sempre schifoso; se non fosse schifoso non sarebbe presente. Sarebbe un passato scivolato in miti che diventano pian piano ridicoli, o un futuro che è una fitta nebbia di vaghe paure e disperazioni. Chi è morto voleva cambiare il presente. Si è ritrovato davanti lo stesso presente di polizia, su un lungarno pisano o in una piazza genovese. Il presente ha bussato e ha colpito.
E così i morti si sono impossessati di noi. E’ stato facile. Dispersi, sconfitti, isolati. La disfatta è stata vissuta in parecchi modi, che hanno abbracciato ogni situazione: dalla miseria nera alla ricchezza, dalla lotta allo sganciamento totale, dalla vitalità all’abulia, dalla logorrea al silenzio. L’unica cosa in comune per tutti: i morti. Su di loro non si deve neppure azzardarsi a discutere, ed i primi a dover stare zitti sono loro. Se parlassero, sarebbero casini. S’incazzerebbero anche parecchio nel vedere a che cosa si sono ridotti i cosiddetti vivi; andrebbero a parlare, invece, ai loro coetanei che non sanno nemmeno della loro esistenza. Franco Serantini, vent’anni, andrebbe a parlare al ragazzo di una qualche periferia che non ha mai saputo niente di lui; dopo un po’, qualcosa da dirsi lo troverebbero senz’altro. Carlo Giuliani non si rivolge più a chi, ogni venti di luglio, va a far gruppetti sempre più sparuti in quella piazza che si chiama sempre Alimonda. Piazza Franco Serantini e piazza Carlo Giuliani dovrebbero essere ovunque c’è un presente da combattere e mutare nelle barbe delle radici; non sono inutili targhe stradali. Sí che andrebbero a parlare a coloro verso i quali non si nutre che perplessità, sufficienza, disprezzo. Con tutti i nostri morti giovani siamo diventati come tutti quanti i vecchi, dicendo magari che si è gli unici ad essere stati giovani. Sfruttando i morti si è inteso precludere per sempre la gioventù agli altri, sbeffeggiando altri e diversi presenti come inesistenti. Le rare volte che il presente è sembrato produrre una scintilla, la sola cosa che s’è fatta è stata rapportarsi al passato: è tornato il novecento! Incapaci di smuoversi da un lontano presente, neppure realmente vissuto in molti casi, che è diventato oramai un remoto passato tenuto artificialmente in vita soltanto grazie ai morti. X è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai! Ecco lo slogan che riassume perfettamente lo stato di cose; lo urlano tutti, vecchi e giovani; e, invece, X è morto e le nostre idee sono cinquecento o mille strani individui che passano con striscioni e vessilli che la gente scambia per quelli del Milan. Ci ripetiamo la canzoncina per la quale saremmo l’uno per cento, ma siamo molto, molto meno. Preferiamo dirci che esistiamo ancora e che commemoriamo uno dei nostri tanti morti, piuttosto che cercare magari di diventare il due, il tre, il dieci per cento. Preferiamo rinchiuderci in piccoli ghetti senza riconoscere che, nella stragrande maggioranza dei casi, abbiamo una paura fottuta. Quella, ad esempio, di fare la stessa fine di colui che stiamo commemorando. Che sto commemorando anch’io. Di quello che voleva impedire di parlare al fascista, cascasse il mondo su un pero; e, invece, il mondo è cascato addosso a lui. Una paura mista, però, all’invidia di cui si parlava prima; come se si desiderasse, e non poco, essere morti quarant’anni prima; oppure che qualcuno inventasse la macchina del tempo per andare a morire sul lungarno Gambacorti, o in Spagna, o chissà dove. Morire giovani dopo aver vissuto una breve ed esaltante stagione; a volte m’è preso il sospetto che, a molti, interessasse soltanto quello. Che, in definitiva, cambiare lo stato di cose interessasse loro parecchio di meno; che la “rivoluzione” fosse in sottordine rispetto alla bella e toccante sconfitta, e che la loro vita successiva non fosse che un’appendice da riempire di lamenti, di disillusioni, di invettive e di morti. Infatti, chi non ha agito così è prima o poi tornato in galera; come Antonio Ginetti, perché a me piace fare nomi e cognomi. Come Alfredo Maria Bonanno, che non più di pochi anni fa era ancora in galera in Grecia nell’indifferenza quasi generale (anche di parecchi “anarchici”). Come chi ha ascoltato davvero i morti. Come Sole e Baleno, che sono diventati morti anche loro, anche se meno “commemorati”. Come chi non ha cessato di considerare la distruzione dell’ordine in tutte le sue forme come presupposto necessario per un mondo a venire.
E allora, dai, sí, sfiliamo in una giornata calda di maggio. Guardati quasi come marziani dalla gente che passa. Eppure, stiamo facendo un percorso che, in quel lontano presente, era di contrapposizione dura, di scontro. Ci fermiamo davanti al punto esatto dove Franco Serantini era stato picchiato a morte e portato via, e tutt’intorno non c’è altro che la sonnacchiosa tranquillità di una bella città al sabato pomeriggio. I turisti, le mamme con le carrozzine, i bambini coi pattini e col gelato. L’Anarchia, con le sue bandiere e il suo morto, sfila in mezzo ad un ordine talmente consolidato da potersi permettere anche un manipolo di bizzarri individui che vanno da una piazza a un’altra a deporre davanti a un blocco di pietra corone e mazzi di fiori, altre bandiere e persino un bicchiere di vino rosso. In quel preciso momento, avrebbero potuto parlare tranquillamente, da qualche altra parte, non un Niccolai, ma cinque o dieci come lui. Senza colpo ferire. La polizia? A debita distanza, quasi invisibile. E Franco Serantini, lui, il morto, dovrà avere avuto dei sentimenti contrastanti; “ma guarda tu questi qui”, avrà detto col suo accento sardo, “invece d’andare a smontare pezzo per pezzo un Emmeesseì (è rimasto un po’ indietro il ragazzo, non sa di Forza Nuova e di Casapound) mi rifanno il funerale.” “E che vuoi farci, Franco?”, gli ho detto mentre bevevo il resto del vino rosso; “siamo tre gatti…” “Ma veramente siete quasi in mille!” “E che si fa in mille…?” “Tante cose, compagno. Tante cose. E da mille si diventa duemila, forza. Non state a perdere tanto tempo con me, che sto tanto bene. Ce lo avessi avuto io quel bel presente di merda che ci avete voi…”
E così ha salutato e se n’è volato via. Ve lo faccio vedere com’è arrivato alla fine del corteo, nella “sua piazza”; ora vola, e vola, e noialtri s’ha da fare per bruciare questo presente.
Thomas Sankara è stato forse il leader africano che ha più marcato la storia recente del continente. Protagonista dell’esperienza rivoluzionaria in Burkina Faso dal 4 agosto 1983 al 15 ottobre 1987, quando fu assassinato. Sotto la sua guida uno dei paesi più poveri del mondo si mobilitò coinvolgendo le masse popolari e lanciando profonde trasformazioni che seppero suscitare una speranza formidabile nel paese ma anche al di là delle frontiere, nell’intero continente africano e negli altri paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”.
Socialista, antimperialista e pan-africanista, Sankara avviò una politica di cambiamento radicale che si può così riassumere:
liberazione dalla “tutela” neocolonialista francese che aveva sino allora dettato le sorti del paese nonostante l’indipendenza formale dichiarata nel 1960. Per sottolineare il cambiamento il vecchio nome colonialista “Alto Volta” viene cambiato in “Burkina Faso” che significa “la terra degli uomini integri”
Investimento sull’Istruzione e la Sanità per migliorare le condizioni di vita materiali e culturali dei burkinabé, sul modello della Rivoluzione Cubana
Riforma agraria e redistribuzione delle terre dei grandi proprietari terrieri ai contadini
Liberazione della donna, a partire dalla partecipazione alla vita pubblica. Abolizione della poligamia e dell’infibulazione.
Diritto alla casa e a un lavoro dignitoso
Sviluppo di un’economia di sussistenza locale per affrancarsi dalla dipendenza dalle potenze colonialiste
Questi principi vengono espressi da Sankara in un famoso discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, il 4 ottobre 1984. Abbiamo scelto questo discorso come “pagina speciale” per il traguardo delle 30000 canzoni nel nostro sito. Nel discorso, oltre ad esporre i cardini della Rivoluzione nel suo paese, Sankara affronta anche temi di politica internazionale, appellandosi a una solidarietà speciale che unisca i tre continenti del “sud del mondo”, Asia, America Latina ed Africa. Prende una posizione netta contro il Sudafrica dell’Apartheid e contro l’arroganza militarista israeliana in Medio Oriente e – citando Fidel Castro – lancia un appello al disarmo evocando quanto di costruttivo si potrebbe fare con le risorse che l’umanità sperpera nel settore militare a scapito della pace.
Tre anni dopo questo discorso, degli uomini armati fanno irruzione al Consiglio Nazionale della Rivoluzione nella capitale. Il presidente si precipita fuori, le mani in alto, dicendo “sono io quello che cercano”. Non gli danno il tempo di proferire parola, viene falciato a mitragliate. Nessuno dei suoi consiglieri e guardie del corpo viene risparmiato. Il responsabile di questo nuovo colpo di stato è Blaise Compaoré, numero due della Rivoluzione, che si presta a tradire il Presidente probabilmente cedendo alle pressioni del governo francese. Secondo altre fonti fu lo stesso Compaoré ad uccidere Sankara. Le circostanze dell’assassinio non sono mai state completamente chiarite. Sotto la dittatura di Compaoré tutte le riforme di Sankara vengono annullate e il Burkina Faso ripiomba nella miseria più totale. Compaoré è rimasto al potere fino al 2014 quando è stato finalmente cacciato durante le sollevazioni popolari.
Nel presentare questo testo, un discorso estremamente diretto e sincero che si dice comunemente che sia stato “il discorso che è costato la vita” a Sankara, abbiamo voluto renderlo ancora più diretto ed esplicito. Abbiamo quindi affidato al nostro Anonimo Toscano del XXI Secolo la traduzione integrale in livornese. Che, dé, uno che parla così chiaro non guasterebbe avercelo anco dalle nostre parti!
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