Antiwar Songs Blog

il Blog delle Canzoni contro la guerra

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Una playlist “ufficiale” / Une playliste “officielle” / An “official” playlist

By Antiwar Songs Staff on 2 Settembre 2017

(la version française suit le texte italien / English translation at the bottom)

Dopo anni che continuiamo ad inserire nel nostro sito canzoni contro la guerra con i relativi video, abbiamo pensato che fosse una buona idea cominciare a raccoglierle su YouTube in una playlist “ufficiale”. In realtà, in quanto sito antimilitarista gli ufficiali ci piacciono poco quindi diciamo semplicemente che abbiamo cominciato a compilare una delle possibili liste di video di canzoni contro la guerra contenute in questo sito ormai enorme.

LINK ALLA PLAYLIST

Ci aspettiamo qualche domanda. Perché mai mettersi a fare una cosa del genere se già da anni inserite i video a corredo delle canzoni? E perché proprio su YouTube?

Se è vero che da anni inseriamo i video delle canzoni, è anche vero che a causa delle continue rimozioni per violazione di copyright moltissimi video delle canzoni non sono più validi. Questa del copyright è una storia totalmente assurda dato che a volere essere ligi alla legge youtube praticamente non dovrebbe esistere visto che il 90% dei suoi contenuti è coperto dal copyright e ogni tanto viene rimosso per poi essere puntualmente reinserito. E’ anche vero che le cose stanno migliorando dato che molti artisti, più o meno famosi, hanno dei canali ufficiali in cui pubblicano i videoclip (ormai MTV trasmette solo stupide sitcom…) e ci sono più possibilità che un video ufficiale resista nel tempo. Nel creare la playlist abbiamo ridato una rinfrescata ai video di canzoni anche fondamentali che erano rimaste senza possibilità di ascolto. Quanto alla scelta di YouTube, non crediamo certo di fermare la guerra o fare la rivoluzione attraverso il sito di una multinazionale, semplicemente è un dato di fatto che al momento è la più grande risorsa per trovare filmati e musica di tutti i generi e sarebbe ingenuo pensare di poterne fare a meno.

Per quanto riguarda la scelta delle canzoni e di quali video inserire: siamo partiti con le 12 CCG fondamentali e abbiamo proseguito a ruota libera. La lista non vuole essere una compilation delle “migliori” canzoni contro la guerra o delle “più significative” anche se ovviamente ne contiene di bellissime e di molto importanti. L’ordine non segue quello di inserimento né costituisce una”classifica”. Abbiamo solo cercato di spaziare, alternando folk, rock, canzone d’autore e popolare in maniera abbastanza equilibrata. Per ora c’è una netta maggioranza di canzoni in inglese, italiano, francese e spagnolo ma non abbiamo tralasciato altre lingue e altri luoghi. Comunque il progetto è appena cominciato (non siamo neanche a 150!) e contiamo di aggiornarlo costantemente. Forse grazie alla playlist anche qualcuno che non conosce il nostro sito potrà conoscere nuove canzoni, e magari venire a visitarci.

Naturalmente il progetto è aperto quindi se avete video da proporre per la playlist segnalatecelo in questo post o direttamente sulle varie canzoni.

Abbiamo cercato di limitarci a quelle che chiamiamo CCG DOC, cioè senza addentrarci nei vari percorsi e argomenti collaterali che il sito tratta nei dettagli. Magari un giorno potremmo preparare playlist specifiche per alcuni percorsi.

Creando la playlist mi sono accorto che mancava il video di una canzone che è tra le primissime della raccolta primitiva a cui teniamo particolarmente: Mio nonno partì per l’Ortigara di Chiara Riondino. In realtà c’era un video di un’esibizione dal vivo in cui Chiara ne canta un frammento insieme ad altre canzoni. Mi sono permesso allora di creare un nuovo video, utilizzando una registrazione di fortuna e delle immagini tratte da vari documentari sulla Prima Guerra Mondiale e da film di Monicelli e Kubrick. Naturalmente ci piacerebbe se la stessa Chiara Riondino pubblicasse un video con una registrazione migliore di questa bellissima canzone. Cogliamo l’occasione per lanciare l’appello…

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A proposito della “grafica” di questo sito e di che cosa sia esattamente.

By Antiwar Songs Staff on 24 Giugno 2017

In questi ultimi tempi, il nostro sito ha ricevuto diverse “critiche” a proposito della sua cosiddetta “grafica”. Secondo alcuni, la “grafica” di questo sito sarebbe “obsoleta”, “invecchiata”, “non accattivante”, fino ad arrivare addirittura ad essere definita “orrenda” e quant’altro.

Sarà quindi bene chiarire e ribadire a tutti costoro che cos’è questo sito, come funziona, quali scopi si prefigge da quasi quindici anni e che cosa sia per esso, e per chi lo gestisce o vi collabora a vario titolo, l’intento fondamentale.

“Canzoni Contro la Guerra / Antiwar Songs” è un sito di memoria storica, di analisi culturale e di approfondimento basato su una prospettiva particolare, quella delle canzoni e della musica di ogni tempo e paese che abbiano un qualche riferimento alle guerre, e a tutti i tipi di guerre, come espressione ultima e decisiva dell’annientamento operato dal sistema capitalista, militarista, imperialista, ed anche di sistemi storici che si sono voluti di opposizione, ma che in realtà ne hanno condiviso quasi sempre i metodi oppressivi, sanguinari e di sfruttamento.

Viene gestito e sviluppato da un gruppo di persone che non hanno intenti “commerciali” e/o di altro genere, e men che mai “estetici”. La sua struttura è assolutamente funzionale a quelli che sono i suoi veri e dichiarati scopi, ed anche (ovviamente) a permettere a tutti coloro che lo desiderano di poter collaborare e interagire.

“Canzoni Contro la Guerra” non è volutamente e né minimamente interessato a “grafiche”, a finestrelle scintillanti, a pop-up acchiappaclick, a “features”, e né tantomeno agli stupidi criteri “estetizzanti” di chi fabbrica siti tanto “carini” quanto generalmente privi di un qualsiasi contenuto che non sia la pura esteriorità.

“Canzoni Contro la Guerra” ha sempre rifiutato categoricamente ogni forma di pubblicità al suo interno, ed i suoi gestori non hanno mai guadagnato mezzo centesimo dato che è loro intenzione, ovviamente nei limiti del loro possibile, mettere a disposizione il sapere, la storia e la cultura e non “accattivare” o trarne il benché minimo “utile”, fossero pure cinque euro.

“Canzoni Contro la Guerra” ha, peraltro, acchiappato non pochi “click” nella sua storia, e non certamente grazie alle sue “grafiche”; li ha acchiappati grazie ai suoi contenuti. Non li ha acchiappati grazie all’abbraccio mortifero coi “social media”, con Facebook o quant’altro. Non è mai stato, e mai sarà, una palestra per decerebrati planetari, masturbatori mentali, bimbiminkia vari, anonimi dandies da quattro soldi e “esteti” da barzelletta, sia in campo informatico che in altri ambiti.

“Canzoni Contro la Guerra” non è un sito di “lyrics” o di “fan” come ce ne sono a centinaia o migliaia, con “grafiche” più o meno aggiornate e “belline”. Nella maggior parte dei casi, a tali belle “grafiche” sviluppate a pagamento corrisponde soltanto un raffazzonamento testuale assolutamente tragico. Non è né un sito per teenagers né per talebani di questo o quell’artista. Non é un sito di “arte per l’arte”, e dove l’arte sia il criterio supremo. Il criterio supremo di questo sito è la Storia cantata e suonata.

“Canzoni Contro la Guerra” è peraltro pronto ad accettare critiche di qualunque tipo, ma solo riguardo ai suoi contenuti, nell’ottica di migliorarli sempre, di correggerli, di ampliarli. E’ chiaro che un sito di tali dimensioni è spesso molto diseguale e non può essere esente da critiche. La sua stessa struttura cosiddetta “obsoleta” permette però di interagire continuamente: importanti pagine intere si sono venute via via formando negli anni esattamente in questo modo, e continueranno così a formarsi, senza l’assillo né del tempo e né del denaro.

“Canzoni Contro la Guerra” non intende, ovviamente, far “finire le guerre” a base di canzoni e musica, e non è neppure un sito autoreferenziale. Soprattutto, spregia ogni tipo di “estetica” che lascia volentieri ai professionisti del settore e al loro sbarcare più o meno il lunario per qualche padrone con tutti gli ammennicoli immancabilmente conditi con buffissime parolette in inglese, lingua nella quale -peraltro- in qualsiasi paese anglofono non saprebbero chiedere nemmeno un’indicazione stradale.

La “grafica” di questo sito è assolutamente ottima per quelli che sono i suoi scopi, e di questo non finiremo mai di ringraziare il Webmaster, che ci ha profuso tempo ed energie senza chiedere niente, ed anzi non di rado rimettendoci di tasca sua. Soprattutto mettendo agevolmente in grado di usarlo anche a persone le cui specializzazioni sono ben lontane dall’informatica e dalla fabbricazione di siti più o meno “updated”.

Chi giudica secondo presupposti criteri “estetici” un sito come questo dimostra soltanto una cosa, vale a dire quella di non aver capito assolutamente nulla di quel che è. Giudichi quindi secondo i suoi contenuti, proponga varianti, migliorie, interpretazioni, nuove fonti, e quant’altro. Faccia pure liberamente le sue eventuali critiche, ma si astenga da criteri “grafici” o comunque buffamente estetizzanti, che disprezziamo. Non è una cosa che ci tocca, come non ci toccano le fregole “social”. La comunicazione qui è diretta e non la desideriamo mediata per far fare miliardi al sig. Facebook e alla sua rovinosa truffa globale nel nome della “comunicazione” (che in realtà non comunica un bel nulla).

A tutti coloro che, invece, per un motivo o per l’altro hanno apprezzato il (non facile) lavoro che andiamo svolgendo da molti anni, va non soltanto il nostro ringraziamento ma anche la promessa e l’impegno di continuare su questa strada accidentata sì, ma che riteniamo l’unica praticabile e, soprattutto, l’unica degna. Non per bearci di essere chissà quale “oasi” o per snobismo, ma per continuare ad essere un granello di Lotta, di Conoscenza e di Resistenza.

Lo Staff di “Canzoni Contro la Guerra / Antiwarsongs / Chansons Contre la Guerre”.

(Segue traduzione in francese. Verrà fornita quanto prima la traduzione completa in inglese).

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Radio Fragola Trieste – Una trasmissione dedicata a Gian Piero Testa

By Antiwar Songs Staff on 20 Maggio 2017

Qualche settimana fa, abbiamo ricevuto una mail che ci ha particolarmente commosso:

Mi chiamo Thanassis Papathanassiou e vi scrivo da Trieste. Sono arrivato a Trieste il lontano 1984 per studiare all’Università come tanti altri giovani greci. Col passare del tempo mi sono trovato bene, ho amato Trieste e così decisi di rimanerci. Ovviamente la passione per quello che è rimasto indietro è rimasta sempre accesa e  mi ha portato a condurre per diversi anni una trasmissione alla radio riguardo la cultura ellenica, principalmente quella musicale, e la vita dei greci Triestini alla città che per diversi secoli li ha ospitati (i primi greci a Trieste arrivano verso la metà del 18imo secolo). Attualmente la trasmissione (Via della Grecia n.104,5) va in onda ogni Domenica dalle 14 alle 15:30 dalle frequenze di Radio Fragola.
Ho fatto questa introduzione per spiegare il “legame” che si è creato tra me e Gian Piero Testa. Il problema che da sempre mi tormentava era in che modo sarei riuscito a trasmettere oltre il contesto storico, anche e soprattutto il sentimento che la musica crea.. La difficoltà linguistica era uno degli ostacoli.. far sentire una canzone vale a dire soprattutto farla capire.. di solito amiamo quello che abbiamo capito, quello che abbiamo scoperto e conquistato, che è diventato, in un modo o nell’altro, nostro.. Ecco quindi che nelle continue ricerche mi appariva sempre lo stesso nome: Gian Piero Testa e la sorpresa aumentava quando oltre alle traduzioni leggevo anche i suoi commenti.. impressionante, non erano i commenti di uno che ti guarda dall’altra parte della riva.. lui stava lì, vicino a me…

 

 

All’inizio pensavo che fosse un illuminato e bravo traduttore che aveva trasformato la sua vocazione in passione.. Leggendo però i testi che accompagnavano le canzoni mi sono reso conto che era molto di più.. era una persona che riusciva a rompere i codici linguistici ed arrivava fino ai messaggi crittografati delle parole e dei sentimenti che esse facevano nascere.. Conoscere una lingua non vuol dire necessariamente anche capirla..

 

Avevo sempre in mente di organizzare con l’aiuto della Comunità Greca a Trieste una serata dedicata a lui. La mia curiosità, di conoscere questa persona cresceva sempre di più, ogni volta che “ci incontravamo” per le esigenze di qualche spiegazione su una musica facevo sempre lo steso pensiero, conoscerlo e farlo conoscere a tutti quelli che sono coinvolti con la cultura ellenica. Lui, ogni volta mi offriva generosamente qualcosa che io non potevo raggiungere, il punto di vista “italiano” da un “greco”. Io purtroppo sono e sarò per sempre intrappolato nella gabbia sentimentale che ti creano le esperienze giovanili, le emozioni e le passioni del passato.. Lui essendo libero da questi vincoli e contemporaneamente un “greco” mi dava sempre quello che chiedevo…

 

Purtroppo, come succede spesso, il tempo mi ha ingannato, ho pensato che siamo eterni ed ho sottovalutato il presente.. mi dispiace non ce l’ho fatta…
Domani, domenica 21 maggio a partire dalle 14 sulle frequenze di Radio Fragola andrà in onda una trasmissione interamente dedicata a Gian Piero Testa, trasmettendo le canzoni che a lui piacevano, seguendo i suoi suggerimenti. Il nostro Riccardo Venturi interverrà telefonicamente per condividere un ricordo di Gian Piero e raccontando la passione per la cultura greca che lo aveva portato negli ultimi anni della sua vita a collaborare al nostro sito, traducendo e commentando i capolavori della musica e della poesia greca moderna.

 

Per i non triestini: Radio Fragola è ascoltabile via web all’indirizzo http://www.radiofragola.com/

 

Gian Piero Testa e Riccardo Venturi

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Greci in Polonia: una storia dimenticata

By Antiwar Songs Staff on 15 Marzo 2017

ellineswpolsce

Nella primavera del 1949, i comunisti perdono la guerra civile in Grecia; un gruppo di andartes si rifugia con le loro famiglie in un villaggio poco fuori la cittadina di Grevenà, nella Macedonia ellenica; comincia così una storia di emigrazione, perlopiù sconosciuta anche agli stessi greci. Nella Grecia del 1949, quel che attende gli sconfitti è la fucilazione o l’internamento in qualche isola come Makronissos; nel gruppo si trova Evangelia Chondroyannis assieme alla madre e ai cinque fratelli, che ha raccontato questa storia alla rivista Themata in un articolo pubblicato il 1° dicembre 2013 con un sottotitolo piuttosto significativo: In questi giorni la Grecia accoglie profughi da paesi dove infuriano guerre. Sessant’anni fa molti greci abbandonarono la loro patra per la lontana Polonia. Una storia sconosciuta della Grecia post-guerra civile.

La lontana Polonia? Mi alzo dalla sedia e prendo un libro che ho da non so quanti anni, un corso di greco moderno scritto, appunto, in polacco. Intensiwny kurs języka nowogreckiego, redatto da Małgorzata Borowska e pubblicato nel 1991 dal Wydawnictwo Naukowe PWN di Varsavia. C’è addirittura ancora attaccato il prezzo, 90.000 złoty di allora. Forse, ora, capisco un po’ meglio il remoto perché di quel libro, a parte naturalmente il normale desiderio che ogni polacco può avere di imparare il greco moderno. Dei greci che scapparono dal loro paese come profughi politici per rifugiarsi in Polonia; o meglio, nella Polska Rzeczpospolita Ludowa di quei tempi. Dice Evangelia Chondroyannis: “Prima passammo in Jugoslavia, ma poi andammo in Albania [l’Albania di Enver Hoxha, ndr]. Passammo circa quattro mesi a Tirana, ma si trattava solo di una tappa. La destinazione finale era la Polonia.”

Dall’Albania, una nave portò i profughi greci a Gibilterra, e da lì in Gran Bretagna. Qui devo avvertire che il racconto avrà una particolarità: l’articolo greco da cui lo riprendo riporta i nomi delle località polacche traslitterate nell’alfabeto greco. Risalire all’esatta forma polacca sarebbe un’impresa improba; ma, forse, Christoforos Voronas potrà dare una mano… Riporto dunque questi nomi traslitterandoli dal greco così come appaiono nell’articolo, a parte quelli facilmente individuabili.

Evangelia Chondroyannis aveva nove anni. Si ricorda che, dalla Gran Bretagna, attraverso il Mar Baltico i greci arrivarono nella cittadina polacca di Tzívnof. Un viaggio lunghissimo, ma tranquillo e sicuro date le condizioni. In tutto, dicono le statistiche, arrivarono in Polonia 14.500 ifugiati politici comunisti greci, comprese donne, bambini, anziani e feriti. Per loro, a Tzívnof, che si trova sulla costa baltica, fu aperto un ospedale apposito. I profughi speravano di poter tornare in Grecia dopo la guarigione, ma non accadde mai. Rimasero in Polonia.

Come spiega Mietsisláf Vogiéfski (credo sia un Mieczysław Wojewski), insegnante di economia nonché presidente dell’Associazione di Amicizia Polacco-Greca (o Greco-Polacca), “Si era nella guerra fredda e il mondo non doveva sapere che la Polonia aveva aiutato il movimento della sinistra greca”. I greci scappati in Polonia erano considerati come dei traditori dalle autorità greche, ed erano stati privati della cittadinanza.

I polacchi, sembra, trattarono benissimo i profughi greci nonostante la Polonia fosse appena venuta fuori dalla II Guerra Mondiale e mancasse più o meno di ogni cosa. I greci, a loro volta -ricorda Evangelia Chondroyannis- erano letteralmente assetati di istruzione; e qui fa tutta una lunga digressione sulla sua storia personale e su tutto il suo corso di studi in Polonia, particolarmente a Cracovia. Si sposò mutando il suo nome in Loútsko, ma afferma che nessuno dei greci credeva ancora che la loro permanenza in Polonia sarebbe durata ancora a lungo. Evangelia tornò per la prima volta nel suo paese in Grecia dopo 28 anni passati in Polonia; e racconta quanto segue: “Quando tornai nel mio paese in Grecia dopo ventotto anni, allora capii quali e quante cose avevano fatto i polacchi per noi. I greci del mio paese sapevano a malapena leggere e scrivere in greco; io parlavo indifferentemente il polacco e il greco, avevo studiato, mi ero laureata; avevo 37 anni, e i miei coetanei e coetanee al paese ne dimostravano sessanta.”

Pare che i quattordicimila greci emigrati alla fine degli anni ’40 nella perfida Polonia comunista si siano trovati molto bene; sono cittadini polacchi, hanno prosperato, si son fatti le loro famiglie e dicono di essere stati trattati molto meglio di quanto non lo siano stati i greci nella libera e democratica Germania Occidentale del dopoguerra, dov’erano stati messi a fare i Gastarbeiter nelle fabbriche.

La maggior parte dei profughi greci in Polonia era stata sistemata nella città di Zgorléts, al confine con l’allora DDR. Furono poi trasferiti a Polítse, vicino a Stettino, dove fu pure aperto un grande centro pediatrico riservato ai bambini greci, e fu riservato ai profughi un intero quartiere costruito dai tedeschi durante la guerra per i loro “lavoratori”. In tutto, nel centro pediatrico furono curati circa 2500 bambini greci. A Polítse furono costruiti per i greci un teatro, una mensa e un edificio culturale per la comunità. Si formò una compagnia teatrale greca e tante altre cose. Solo che nel resto della Polonia non se ne sapeva generalmente nulla, ricorda un altro profugo, Thanasis Alexiou, 76 anni. Laddove i greci erano presenti, però, dice Alexiou, i polacchi dimostravano una grande simpatia verso di loro. Non passò molto tempo che, come è logico che sia, la maggior parte dei greci divenne polacca a pieno titolo, dissolvendosi nella realtà del nuovo paese. Cioè integrandosi pienamente, come si dice adesso. Numerosissimi furono i matrimoni misti.

E’ andata a finire che i discendenti di quei profughi comunisti / stalinisti / eccetera, sono diventati e rimasti polacchi. I più, polacchi e basta. Finito il comunismo, adieu alla Polska Rzeczpospolita Ludowa, Solidarność, Lech Wałęsa (anzi, Leh Vaouénsa, Λεχ Βαουένσα), il boom economico, i gemelli Kaczyński. E’ cambiato tutto in Polonia e è cambiato tutto in Grecia, per il meglio o per il peggio che sia; ma fatto sta che i greci, in Polonia, ci sono rimasti eccome. Non moltissimi, a quanto sembra, sentono ancora molto le famose “radici”; ma qualcuno sì, ancora. Né la Polonia di adesso sembra essersene dimenticata. Ad esempio, al 21° Ginnasio di Stettino, si insegna il greco moderno (e chissà che non venga utilizzato quel Kurs che non mi ricordo nemmeno più come mi sia capitato in mano col suo prezzo ancora attaccato, visto che in Polonia non l’ho comprato di certo). Il 23 ottobre, il medesimo Ginnasio stettinese (o stettiniano?) organizza la “Giornata Greca”, alla quale partecipano pure gli adesso anzianissimi profughi della prima ora, quelli rimasti. A Polítse ogni anno viene festeggiato il 25 marzo, che è la festa nazionale ellenica. Il sindaco polacco di Polítse, vale a dire Vládislaf Diakoún, dice di non riuscire neppure a immaginarsi la sua città senza i greci. Strano posto l’Europa, no?

L’articolo di Themata è firmato in coppia, da una signora polacca, Elżbieta Biś, e da una signora greca, Dimitra Kyranoudi. Forse sarebbe finita qui, questa storia di profughi una volta tanto finita bene. Però, certo, dimenticavo questa canzone qua, quella di questa pagina.

ellwpol

La storia dei profughi polacci in Grecia sarà stata anche e pressoché ignota sia in Polonia che in Grecia; però, sicuramente, nel 1977 era nota a Kostas Virvos, il quale è morto a 89 anni il 6 agosto 2015 nella sua casa di Paleò Fàliro. Era nato a Trikala il 29 marzo 1926; era stato, in gioventù, membro della Resistenza e poi dell’EAM/ELAS e aveva passato i suoi bravi anni di guai, senza però emigrare né in Polonia, né altrove. Dal 1954 al 1985 aveva fatto l’impiegato statale, il poeta e il cantautore. La prima canzone la aveva scritta nel 1948, annataccia senz’altro, e gliela aveva cantata nientepopodimeno che Markos Vamvakaris.

Come Kostas Virvos conoscesse la storia dei profughi greci in Polonia, sinceramente non lo so. Questa canzone del 1977 gliela cantò però un altro mostro sacro della canzone greca, Charàlambos Garganourakis. La canzone si trova in un album che si chiama, toh, “Gli sradicati”. Parla di un profugo greco in Polonia, appunto, che vede dissolversi la Grecia in suo figlio che non gli parla in greco, dice niema (“no” in polacco, o meglio, “non c’è”), ha sposato una polacca che era stata rinchiusa a Auschwitz e che riconosce quanto fatto dalla Polonia: le case, i giardini. Solo che c’è un problema: la Scuola Greca (sì, perché ci dovevano essere pure quelle) è lontana miglia. E suo figlio è diventato polacco. Succede sempre così, ed è il sugo di tutta la storia.

Quando mio figlio mi dice niema
e non mi parla in greco,
mi si gela il sangue dentro
e lente scendono nere lacrime amare.

In tutto siamo una manciata di greci
in questo paese qui in Polonia.
Abbiamo le nostre case, abbiamo un giardino,
ma la scuola greca è miglia lontana.

Quando mio figlio dice niema
tiro un sospiro, e soffro.

Viene dal lager di Auschwitz
la mia bella moglie,
una madre dolce come la mia,
ma non sa una parola di greco.

In tutto siamo una manciata di greci
in questo paese qui in Polonia.
Abbiamo le nostre case, abbiamo un giardino,
ma la scuola greca è miglia lontana.

Quando mio figlio dice niema
tiro un sospiro, e soffro.

Ora vado a rimettere a posto il corso di greco scritto in polacco, che per la cronaca, sullo scaffale sta infilato tra la Gramàtica catalana di Pompeu Fabra, esule antifranchista, e un corso di lingua feroese, An Introduction to Modern Faroese, scritto in inglese da un tizio, William B. Lockwood, che lo ha dedicato a suo fratello 21 enne scomparso in guerra nelle acque dell’Atlantico settentrionale. [RV]

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Farewell to My Pal

By Antiwar Songs Staff on 20 Dicembre 2016

Farewell

A goodbye poem sent by our friend and contributor from Finland, Juha Rämö

Now hear these words all you
who do what a person’s got to do:
My calling here is sadly done
and I must say it was a great fun,
an honor, a thrill, a light in my way,
a joy that makes my memories sway.
The count of songs in my lingo weird
I’ve tenfolded scratching my beard.
But everything good comes to an end
is a fact I can’t get around or bend.
No longer will I be a pain in the ass,
nor will I be a weed in the grass.
Now it’s time for this odd duck
to wish you all the best of luck.
Take care and don’t let the flare
of these songs vanish in the air.
Keep up this mighty chant,
hold on, I no longer can’t.

 

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Tre amici in guerra

By Antiwar Songs Staff on 21 Settembre 2016

saraolim

Il 9 ottobre 2011, quando chi scrive non si trovava, come dire, nel pieno delle sue forze, veniva inserita nel sito questa (straordinaria) canzone degli Zabranjeno Pušenje; il medesimo giorno, Marko, in un commento, faceva presente che mancava “una traduzione fatta bene”. Cinque anni dopo, la traduzione è stata finalmente fatta, o tentata, non si sa quanto bene ma perlomeno capace di rendere l’idea di questa storia. Una storia, probabilmente, di tantissimi nella Sarajevo in guerra e sotto assedio: Tri ratna havera, appunto.

Della vicenda narrata della canzone è forse bene fare una sorta di riassunto esplicativo; ma ancor prima, bisognerebbe soffermarsi sul titolo tradotto, forse sbrigativamente, “tre amici in guerra”. Le traduzioni, di solito, funzionano assai poco; da una traduzione, ad esempio, non può risultare come mai –ad esempio- non sia stato utilizzato il termine comune per “amico”, prijatelj, e sia stato scelto haver, termine “sarajevese” quant’altri mai e di origine, ebbene sì, chiaramente ebraica. E’ l’ebraico (e yiddish) khaver (חבר) “amico, compagno”. L’uso di una parola è importante; in questa vicenda dove i protagonisti sono un musulmano, un serbo e un cristiano, per definire la loro amicizia viene utilizzata una parola…ebraica. Quasi a voler far notare che, a Sarajevo, c’era pure una comunità ebraica molto antica; o, forse, anche per rimandare a stermini e a lager vicini e lontani. Chissà; ci sarebbe anche da ragionare sul quel ratna, aggettivo che significa propriamente “di guerra, bellico”. “Tre amici di guerra” o “in guerra”? Senza nessunissima intenzione di autocitarmi, ma soltanto ai fini di questa canzone, mi viene da rimandare alla ”Guerra di Pero”, una vecchia cosa che avevo scritto 16 anni fa e che parlava, più o meno, di una cosa del genere che avevo visto coi miei occhi, nel 1993.

vucko

Detto questo, torniamo al riassunto esplicativo. La vicenda inizia il 18 febbraio 1984, il giorno prima della chiusura dei giochi olimpici invernali che si svolsero a Sarajevo. Furono, si dice, una grande festa “dello sport e della fratellanza”; la città visse con entusiasmo quell’occasione, erano stati costruiti suggestivi e modernissimi impianti sulle montagne che circondano Sarajevo e tutti si sentirono coinvolti nonostante il governo federale jugoslavo avesse, per usare un eufemismo, lasciato un po’ sole le autorità bosniache ad arrangiarsi. Furono dominate, quelle Olimpiadi tenutesi in un paese poi scomparso, da un altro paese scomparso: la Germania Est, che vinse ben 9 medaglie d’oro. Seguita da un altro paese scomparso, l’Unione Sovietica, che ne vinse 6. L’Italia ne vinse due: storica quella della sciatrice Paoletta Magoni, che si aggiudicò lo slalom speciale svoltosi sul monte Igman, monte che otto anni dopo avrebbe visto ben altre vicende. Per la cronaca, la Jugoslavia vinse soltanto una medaglia d’argento, ma fu una medaglia storica: era la prima mai vinta dal paese in un’olimpiade invernale. La vinse lo sciatore sloveno Jure Franko nello slalom speciale. (Sulle olimpiadi di Sarajevo si veda magari anche questa bella pagina). Ovunque campeggiavano i manifesti con la mascotte dei giochi, il lupacchiotto Vučko.

Una grande festa; e una “festa terrificante” la fanno pure i nostri tre amici, Mufa, Kiki e il narratore, la notte prima della chiusura dei giochi. Senza minimamente pensare ad essere “musulmani”, “serbi” o “cristiani/croati” o quant’altro; l’antica normalità di Sarajevo. Normalità? Il saggio “zio ciccione” (c’è sempre uno zio ciccione in questi casi, che la sa lunga) sa bene cosa sta covando sotto la cenere e mette in guardia i tre ragazzi ai quali “sta grondando via la gioventù dalla vita”: sì, bravi, fate festa e divertitevi ora, tanto lo vedrete tra poco cosa vi aspetta. Tutto si stava già preparando per le olimpiadi del massacro.

La notte prima che si spegnesse la fiamma olimpica
Mufa, Kiki ed io abbiamo fatto una festa terribile
La gioventù ci grondava via dalla nostra vita
Come un fiume che scorre per un terreno carsico
Tutto quel che c’era, era là, sul tavolo,
Niente ci è restato.

E allora disse mio zio ciccione
Un po’ piangendo e un po’ ridendo,
Tutte queste vostre stronzate
Le pagherete, una volta o l’altra.

La vicenda salta infatti, direttamente, ad un’altra, e ben differente, “notte prima”. E’ la notte della “rivolta del popolo armato”: siamo sempre a Sarajevo, ma nell’aprile del 1992. Probabilmente, la notte prima della grande manifestazione contro la guerra che fu attaccata dalle milizie serbe appostate sui monti attorno alla città, quelli delle Olimpiadi di otto anni prima. I loro giochini li avevano organizzati a puntino, i Karadžić, i Milošević, gli Izetbegović, i Tuđman, la Bundesbank, Helmut Kohl , tutti quanti; si avvera la profezia dello zio ciccione. I tre amici sono chiamati a stare nel loro campo; “nati sulla stessa terra, ma da radici diverse”. Del resto, da quelle parti c’è una normalità storica di convivenza pacifica (a Sarajevo, la città) ma c’è anche quella dei nazionalismi, dei clan e di tutte quelle maledette “radici”, giustappunto. E così fra i tre amici cala la muraglia cinese, davanti all’inferno. Il musulmano Mufa difende la città assediata con parole chiare: chi non la difende, è un fetente. Il serbo Kiki sembra defilarsi davanti all’orrore: si mette a imbiancare la casa. Il narratore scappa via, si volatilizza. Mufa sembra essere uno importante: addirittura lo si vede sulla CNN; Kiki invece, a un certo punto sbarella di testa, e lo portano via. E così, i tre vecchi amici se li porta via la bufera, come sempre accade in questi casi.

Mufa lo trova nascosto in una casa nel centro di Sarajevo; la vecchia amicizia sembra tornare per un attimo, e ordina che non gli venga fatto del male e che sia consegnato ai “suoi”, agli assedianti della “Repubblica Serba”; ma i “suoi” non accolgono granché bene il transfugo che non era andato a combattere assieme a loro. Kiki, passato il confine, si ritrova nel fango e con un fucile puntato addosso a cura del fornaio del quartiere, Boro, che ora comanda qualche milizia in questa “guerra di porte accanto”. Ma è pur sempre un serbo, e gli viene presentata l’occasione di togliersi di mezzo, scappando in Canada. Cosa che Kiki fa, e alla svelta. Via da quel manicomio fatto di ex “vecchi amici”, di fornai di quartiere, di ex festaioli entusiasti per le olimpiadi e di poveri zii ciccioni che magari sono stati ridotti in poltiglia in qualche mercato. Alla fine, anche Mufa se ne va, ospitato dalla prima moglie del fratello in Svizzera e in preda alla nostalgia di Sarajevo, di una Sarajevo che non c’è più e che non ci sarà mai più, bruciata assieme alla sua biblioteca, alla sinagoga, alle sue olimpiadi.

La notte prima della rivolta del popolo armato
Stavamo seduti un’ultima volta, Mufa, Kiki ed io
Tre amici, tre storie, tre lingue straniere,
Siamo cresciuti sulla stessa terra, ma da radici diverse

Mufa sparava cazzate sui diritti umani,
Kiki si lagnava di avere la vista debole
Davanti a noi c’era l’inferno
E tra di noi una muraglia cinese

Mufa, Kiki ed io

Una volta muore l’arciduca,
Un’altra il capo del corteo nuziale,
Non si sa di chi è la prima testa,
Così, qua, comincia la guerra

Mufa sapeva a chi apparteneva,
Era pronto e aspettava quel giorno.
Io mi ero volatilizzato,
E Kiki è rimasto a imbiancare l’appartamento

Alla CNN guardavo Mufa
Con il mitra, in scarpe da tennis,
Dice che difende la sua città
E che chi non la difende, per lui è un fetente

Kiki sapeva che erano cazzate
Ma non sapeva badare a se stesso,
Abbaiava all’intorno come un pazzo e rideva
Finché una notte non lo hanno portato via

Mufa, Kiki ed io,
Ci ha portati via la bufera
Per tre paesi, tre strade, tre vecchi amici incazzati
Mufa, Kiki ed io

Mufa lo trovò dopo sette giorni
In una casa a Bjelave
E’ entrato zitto e ha detto soltanto:
Lasciatelo andare o faccio il culo a qualcuno.

Quella notte era sorda e fredda,
E fredda era anche la Miljacka,
Mufa aveva ordinato di lasciarlo passare,
Si aspettava la parola dei cetnici

E’ caduto nel fango e ha sentito la canna di un fucile,
Ha visto una faccia barbuta e arrogante,
Ha visto la morte e ha sentito le parole:
Benvenuti nella Repubblica Serba

Al comando lo aspettava Boro, il fornaio:
Ascolta, mio caro, fai come fanno tutti:
Ti presenti spontaneamente, io ti mando a Hreša
E dopo due mesi prendi e vattene in Canada

Di Mufa ho sentito che è in Svizzera,
Sta dalla prima moglie di suo fratello
Dicono che non può stare senza Sarajevo,
Senza quell’acqua, senza quell’aria

redline

La vicenda si sposta ad un’altra “notte prima”: è quella prima dell’entrata in vigore dell’accordo di Dayton formalizzato a Parigi il 14 dicembre 1995, che pose fine alla guerra in Bosnia spezzettandola in varie “entità”. Nel frattempo, Kiki manda ai vecchi amici cartoline dal Canada, con le cascate del Niagara, chiamandoli “piattole” come da ragazzi. La gioventù è, appunto, grondata via. La falla della guerra l’ha prosciugata del tutto. Nella sola Sarajevo, durante l’assedio triennale, sono state prosciugate undicimilacinquecentoquarantuno vite di tutte le età, giovani, vecchi, bambini. Ed è stata prosciugata tutta una storia, da un lato. Dall’altro, ritengo che non sia da idealizzare troppo, questa storia, come hanno spesso teso a fare certi intellettuali alla Sofri coi loro viaggettini e i loro reportages conclusisi con l’appoggio ai bombardamenti NATO. A Sarajevo convivevano sia la convivenza sia il possibile massacro, e non certo dal 1992. A Sarajevo e in Bosnia, a mio parere, tutto potrebbe ricominciare anche domani; e sarà bene tenerlo oltremodo presente.

Da Kiki è arrivata una cartolinetta
Con sopra le cascate del Niagara,
Ci ha scritto il mio nome e indirizzo
E un “Ciao, piàttole”

La notte prima dell’entrata in vigore degli accordi di Dayton
Ho sognato che eravamo ancora insieme, Mufa, Kiki ed io
Il tavolo sembrava pieno di ogni sorta di piatti,
Era mattina, fiori, rugiada, e una ragazza del paese

Il sole era chiaro e luminoso,
Com’è sempre dopo una notte di pioggia,
Solo che noi non eravamo più
Tanto gagliardi e forti,

Mufa, Kiki ed io.

In questa notte prima dell’accordo di Dayton, il narratore fa un sogno, e non importa se ad occhi chiusi o ad occhi aperti. Sogna di essere ancora insieme ai suoi due vecchi amici, ai suoi haveri portati via dalla bufera. Nel sogno, è una bella mattinata di sole dopo una notte di pioggia. Sul tavolo, ogni sorta di buone cose da mangiare, e c’è pure una bella ragazza di paese. Solo che i tre “vecchi amici” sono stanchi. La gioventù se n’è andata nella guerra. Le forze non ci sono più; sono state spese a dividersi, a sbudellarsi, a scappare via. La cerimonia di apertura e di chiusura delle olimpiadi del 1984 si era svolta allo stadio di un’altra famosa canzone degli Zabranjeno Pušenje: tutto è andato, appunto, in fumo. Questa canzone, questa di questa pagina, è del 1997; due anni dopo gli accordi di Dayton. Fa parte di un’album che si chiama “Io non sono di qui”: la certificazione di non essere oramai più di un luogo che non c’è più. Sul monte Trebević si trovano ancora le rovine, spettrali, della pista di bob. [RV]

pistabob

Posted in Canzoni | Tagged Guerre jugoslave, Jugoslavia, Sarajevo, Zabranjeno Pušenje

Dachau Express: livre et B.D. / libro e fumetto

By Antiwar Songs Staff on 8 Settembre 2016

DACHAU2BEXPRESDACHAU EXPRESS est cette série de 24 chansons, 24 canzones commentées qui avaient vu le jour dans les Chansons contre la Guerre (Antiwarsongs, Canzoni contro la guerra…), relayées par le blog de Marco Valdo M.I.

Par la suite, elles avaient fait l’objet d’une exposition – 25 panneaux, illustrés par Nicolas De Cicco – qui firent le tour de la Wallonie.
À présent, il y a un livre qui reprend les chansons, le texte des commentaires et les dessins originaux de Nicolas De Cicco.

Ce n’est pas tout, Nicolas De Cicco a entrepris de décliner cette histoire de Giuseppe – Joseph Porcu, cet insoumis italien qui déserta en 1939 de l’armée italienne pour ne pas être complice du fascisme, sous la forme d’une série de 3 volumes de bandes dessinées et même, peut-être, une trilogie de 4 volumes – 4 comme les 3 mousquetaires de Dumas. Ce premier volume s’intitule L’INSOUMIS – Je suis un déserteur.

UN LIVRE, UNE B.D. : OÙ LES TROUVER ?

Grâce à audace d’imprimeurs de la région, ces livres existent maintenant.
On peut les commander à l’adresse :

DACHAU EXPRESS, il comporte 152 pages.


L’INSOUMIS – Je suis un déserteur.
– une B.D. au format classique, 48 pages.


DACHAU EXPRESS è una serie di 24 canzoni di Marco Valdo M.I., 24 canzoni commentate che hanno visto la luce nel sito delle Canzoni contro la guerra, e riportate nel blog di Marco Valdo M.I.

In seguito sono state oggetto di un’esposizione – 25 pannelli illustrati da Nicolas de Ciccio – che ha fatto il giro della Vallonia.
Oggi è stato pubblicato un libro che riprende le canzoni, i testi dei commenti e i disegni originali di Nicolas De Cicco.

Non è tutto. Nicolas De Cicco si è impegnato a declinare questa storia di Giuseppe – Joseph Porcu, questo renitente alla leva italiano che disertò nel 1939 l’esercito italiano per non essere complice del fascismo, sotto forma di una serie di 3 volumi di fumetti, e addirittura, forse, una trilogia di 4 volumi – 4 come i tre moschettieri di Dumas. Questo primo volume si intitola L’INSOUMIS – Je suis un déserteur.

UN LIBRO, UN FUMETTO : DOVE TROVARLI ?

Grazie all’audacia di alcuni tipografi belgi, questi libri ora esistono.
E’ possibile ordinarli ai seguenti indirizzi:

DACHAU EXPRESS, 152 pagine.


L’INSOUMIS – Je suis un déserteur.
– un fumetto in formato classico, 48 pagine.

Posted in Canzoni | Tagged Marco Valdo M.I.

Avete sentito? La guerra è finita

By Antiwar Songs Staff on 3 Agosto 2016

Phil-Ochs

Il 23 novembre 1967 Phil Ochs pubblica sul Village Voice un articolo intitolato Have You Heard? The War is Over! che è praticamente la presentazione del concetto alla base della sua canzone “The War Is Over“, l’idea di dichiarare dal basso la fine della guerra. La trovata era di Allen Ginsberg che aveva scritto l’anno precedente una lunga poesia contro la guerra intitolata Wichita Vortex Sutra #3. in cui dichiarava che la guerra può essere fermata dal potere della poesia. Ecco la traduzione integrale dell’articolo:

Protestare contro la guerra vi stanca e vi rende agitati? La disobbedienza civile vi rende nervosi e irritabili? La vostra difesa dei valori progressisti vi lascia senza amici e con dei dubbi sul vostro alito? Difendere la necessità di respingere l’aggressione comunista vi sfinisce e vi dà una sensazione di divario generazionale?

D’altra parte, siete stanchi di prendere farmaci per evitare le responsabilità schiaccianti di un mondo serio e controllato? Volete fare qualcosa contro la guerra e tuttavia vi rifiutate di abbassarvi al livello bassissimo delle attuali manifestazioni?

Siamo tutti stanchi di questa guerra schifosa?

In questo caso, amici, fate quel che io e migliaia di altri americani abbiamo fatto – dichiarate la fine della guerra.

Esatto, dico di dichiarare che la guerra è finita. Dichiararlo dal basso.

Questo semplice provvedimento ha portato sollievo a innumerevoli cittadini frustrati, ed è incredibile che per tutto questo tempo nessuno ci abbia pensato, forse perché troppo ovvio. Dopotutto, questo è il nostro paese, le nostre tasse, la nostra guerra. Siamo noi che la paghiamo, siamo noi che andiamo a morirci, la guardiamo con curiosità in televisione – dovremmo almeno avere il diritto di farla finire.

Ora, io godo della violenza come chiunque altro, ma quando è troppo è troppo. Cinque stagioni sono abbastanza anche per i telefilm più elettrizzanti.

Sabato 25 novembre dichiareremo che la guerra è finita e celebreremo la fine della guerra nel parco di Washington Square, all’una del pomeriggio.

Per un giorno solo, voi e le vostre famiglie potrete veder realizzato quel momento che stavate tutti aspettando. Per quanto tutto ciò possa sembrare grottesco, è certamente molto meno grottesco della guerra stessa. Non è che consiglio tutto questo come sostituto di altre azioni; si tratta semplicemente di un attacco di disobbedienza mentale ad una società ubbidientemente folle.

Questo è il peccato per eccellenza contro una struttura di potere bizzarra e imbarazzante, il rifiuto di prenderla sul serio. Se voi stessi vi sorprendete all’idea che la guerra sia finita, immaginate l’incredulità dei governanti quando lo verranno a sapere.

Due o tre anni fa la moralità di questa guerra è stata messa in discussione, e l’opinione di quelli che dicevano che la guerra era indecente e inefficace si è dimostrata giusta. E se avete l’impressione di aver vissuto in un mondo parallelo durante gli ultimi due anni, in parte è perché questa struttura di potere si è rifiutata di ascoltare la voce della ragione, o di riconoscere di avere avuto torto. Ma come tutti i prepotenti e gli imperi impazziti, non cederanno semplicemente perché sono più forti…

La vecchia America si è dimostrata abbastanza decadente da scegliere di sacrificare una delle sue migliori generazioni gettandola nel camion della spazzatura della propaganda della guerra fredda. A che razza di bassezze sono giunti per arrivare a disonorare lo stesso significato della parola “onore” chiedendo ai giovani di morire per niente? Questa non è la mia America, questa non è la mia guerra; se ci sarà un America, non c’è guerra – la guerre est finie!

Il patriottismo criminale di oggi richiede la corruzione di ogni cittadino, e ora ne paghiamo le conseguenze – non solo nelle giungle dell’Asia, ma anche nelle città d’America devastate dal materialismo. Adesso siamo le pattuglie smarrite che inseguono la loro anima a nolo, come vecchie puttane al seguito di eserciti stanchi.

Avete sentito? La guerra è finita!

THE WAR IS OVER

La guerra del Vietnam durerà ancora otto anni, ma finalmente l’11 maggio 1975 lo stesso Phil Ochs organizzò un affollato concerto al Central Park a cui parteciparono Pete Seeger, Joan Baez, Paul Simon, Patti Smith, Tom Paxton, Richie Havens e molti altri artisti. Il concerto prendeva il nome dalla canzone di Phil Ochs che finalmente era diventata reale. Quella fu l’ultima occasione in cui la canzone fu cantata in pubblico dal suo autore. Meno di un anno dopo il grande cantautore pacifista, vittima dell’alcool e della depressione, decise di togliersi la vita.

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