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il Blog delle Canzoni contro la guerra

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Ostalghia, Осталгия

By Antiwar Songs Staff on 12 Giugno 2016

ostal

Da oramai parecchi anni, il carrarino Davide Giromini detto “Darmo”, con la sua Cooperfisa, le sue pettinature estreme, le sue varie formazioni e progetti, i suoi gatti neri e il suo celeberrimo disimpegno (termine non facilmente coglibile da chi non abbia mai avuto la ventura di mangiarsi una pasta al pomodoro in casa sua), porta avanti, imperterrito e forse unico in questo decostrutto paese, il suo racconto di quel che è avvenuto dopo. Dopo che cosa? Si sarebbe magari tentati di dire dopo i favolösi anni settanta, e partiamo giustappunto da qui, ché da qualche cosa si deve pur partire. Di che cosa sia avvenuto dopo quegli anni, in generale lo si sa; i protagonisti (più o meno sedicenti) di quel periodo si sono accaparrati, quasi con una sorta di copyright intoccabile, il termine generazione. Ad un certo punto è quasi sembrato che di generazioni, fatto salvo l’uso biblico e ecclesiastico, non ne fossero esistite prima, e soprattutto che non ne siano più esistite dopo. Quella dei giovanotti degli anni sessanta e settanta, ora arzilli sessanta o settantenni con pensioni, impieghi pubblici, libri di maggiore o minore valore, ex lotte armate, ritaglini in centri sociali, solitudini più o meno sbandierate, non di rado carriere prestigiose e voltafaccia sesquipedali, è praticamente diventata la generazione, per antonomasia; si dà il caso che il Giromini, però, appartenga a quella un po’ dopo. A quella che non c’è, come tutte le successive. A quella dei riflussi, degli anni ottanta, venuta su a cartoni animati giapponesi o d’altro sol levante o ponente, a lorelle cuccarini, a fine delle ideologie, a non me ne sdruma un drigo, a cadute epocali di “muri” presupposto dell’erezione d’altri e peggiori, esterni e interni; a quella delle trasformazioni, delle crisi sistemiche, delle legalità, de’ giudici-eroi, e di chissà quant’altre cose che il recente passato e il presente ci propinano. Bene, Davide Giromini, fisarmonica e pettinatura estrema alla mano, si è assunto il compito di raccontare tutto questo.

(specimen di pettinatura estrema)

(specimen di pettinatura estrema)

Tutto questo dopo. Lo ha fatto in diversi album di canzoni che, anche qua dentro, alcuni si sono addannati a definire quantomeno fondamentali, anche perché vanno ben oltre le semplici canzoni. Sono una storia, una ricostruzione, un percorso che ci mena all’oggi, alla momentaneità. I bambini sono diventati adulti senza avere potuto far parte della Generazione, quella con la G maiuscola, procedendo tra nostalgie indotte e aneliti a trovare una propria strada verso il cambiamento; ma se cambiamento c’è stato, esso ha portato alle rovine, ai berlusconismi, agli oblii, al ritorno del fascismo, alle tecnologie di controllo capillare delle masse e degli individui, alle decerebrazioni dei social media e degli smartphone. Un tentativo è stato troncato nel sangue, a Genova nel 2001; e da allora, ghetti, riserve indiane appena tollerate e più sovente sgomberate, ritorni di valori, carrette sui mari, reticolati balcanici, e guerra, guerra, guerra a vagonate col suo corollario di degradi, sicurezze, paure, terrori e terrorismi più o meno di stato (sempre ammesso che lo stato esista ancora, e non concesso). Nella sua indipendenza estrema quanto le sue pettinature, Davide Giromini, si è messo al lavoro da una qualsiasi periferia del mondo. E continua a raccontare, a suonare in posti che vanno dagli appena probabili agli altamente improbabili, a scrivere il suo racconto, o storia, o percorso.

Racconto, storia o percorso dove c’è davvero tutto. I postcomunismi (o il “fine comunismo”, che peraltro si interscambia col “comunismo fine”), le magnifiche imbecillizzazioni & progressive dei compagni da quelli de Fornovo (che uno vedrebbe scritto benissimo in cirillico: Форново) fino a quelli di Rignano sull’Arno, la distruzione di un mondo, le cattive coscienze che per qualcuno devono essere state ancora più cattive, la grande storia e quella, apparentemente, più piccola, sommessa, locale. Non è facile, e lo so bene, districarsi nello squisito labirinto che il Darmo ha messo su negli ultimi anni, passando di qua e di là, collegando passati oramai lontani a futuri che non si sa nemmeno se arriveranno, transitando per presenti turbinosi perché il presente, che lo si voglia o meno, turbinoso è sempre anche se non molti hanno la capacità, ed anche il desiderio, di percepirlo seriamente. Ma non si creda che il racconto, storia o percorso intrapreso da Davide Giromini abbia come obiettivo esclusivamente la Storia; nel suo autentico Canto alle generazioni sequestrate (parafraso qui il titolo di uno dei suoi album del percorso), Davide Giromini ha fatto come un affresco globale restando, imperterrito, abbarbicato al suo fazzoletto di terra apuana, all’Apuamater che non è soltanto l’iconografia degli anarchici, dei cavatori, dei resistenti. E’ iconografia perfetta anche di speculazioni, di disastri, di lavoro schiacciante e schiacciato, delle evoluzioni, delle fabbriche chiuse, dei rincoglionimenti mediatici (un giorno qualcuno capirà, forse, il lancinante grido di dolore lanciato da Basta figa). Tutto è rimasto, naturalmente, liberamente ascoltabile. In qualche album strascinato in giro e esposto sui banchetti, in qualche demartino o fosdinovo (altro perfetto cirillico: Фосдиново), in concerti, in video Tubeschi. Liberamente ascoltabile, ma altrettanto liberamente ignorabile. Perché questi sono i tempi dell’ignorabile. Può darsi, chissà, che il Giromini, i suoi album e le sue storie di una generazione diventino il fenomeno postumo di un qualche 2088, come accadde a Guido Morselli coi suoi romanzi. Oppure che, nel 2088, ci sia un altro Giromini che si addannerà a raccontare qualche post di chissà che cosa; ma noi non ci saremo, vedetevela un po’ voi futurajoli.

Ultimamente, anno Domini 2016, il Giromini ha pensato bene, però, di fare una specie di album antologico di tutto questo percorso. Lo ha chiamato Ostalghia, e lo suona assieme alla sua attuale band di accompagnamento, dall’evocativo nome de La maledizione. Pur contenendo in massima parte brani già noti, con la sua “Maledizione” l’album non è immediato. Ci vuole un po’ per (ri)abituarsi, dopo anni di sound apuanamente sperimentali, all’essenzialità delle riproposizioni di Ostalghia; poi ci si (ri)abitua, e il Gran Darmo ti si riattacca addosso. Brani già noti, certo, ma con una significativa novità: i brani recitati presenti in alcuni di essi, l’integrazione evocativa. Volto Nascosto è integrata con l’oramai consueta traduzione di Bigmouth Strikes Again degli Smiths, diventata da un po’ come una specie di “trademark” girominiano (naturalmente i brani recitati saranno trascritti al più presto nelle rispettive pagine del sito). Ci si deve un po’ (ri)abituare anche alla voce di Davide Giromini, che è sempre quella ma che, in quest’album, in alcuni punti lo fa immaginare alle due e mezzo di notte con una candela in mano in un maniero scozzese diroccato; e, come si dice appunto in Scozia, ‘gli è i’ su’ bello.

Se l’intero album è una summa, la canzone che viene presentata in questa pagina, si può dire, è come la summa della summa. Non a caso è la canzone che dà il titolo all’intero album; Ostalghia è agghiacciantemente bella. Sapete, una di quelle cose senza nemmeno mezza parola fuori posto, e dove le eventuali citazioni non sono più nemmeno tali, ma stanno lì a incastrarsi perfettamente come tessere di un mosaico, quel mosaico che Davide Giromini è andato costruendo in questi anni per la sua generazione. La dissoluzione globale di un mondo, senza che al suo posto sia stato inserito nient’altro che il Nulla; ma una dissoluzione astiosa, piena di errori, di rimorsi, di svilimento di simboli. E si va avanti, col sole che rinasce senza essere nato. E chi ha compagni, magari non morirà; il problema è avere dei compagni, perché nessuno è più compagno di nessuno. Si potrà dire che i “germi” c’erano già, e che nessuno se n’è accorto, nemmeno quando i germi erano diventati grossi come elefanti. Ma tutto questo, il Giromini lo ha già raccontato. Quasi impossibile accorgersi anche di elefanti, in trenta e rotti anni di rincoglionimento mediatico, di vuoto pneumatico, di inculcamenti, di ogni cosa. Si ascolta quindi questa Ostalghia, e chi può si canticchia alla bell’e meglio anche la sua traduzione russa, appositamente fatta preparare, pensando a quali e quanti surrogati devono essere propinati. In quel famoso castello scozzese che il Giromini a volte sembra frequentare, di fantasmi ce ne devono essere parecchi, e mai semplici; contemporaneamente, quel che si avverte è sempre quello scrupoloso retrogusto di quelle plaghe tra Carrara e Ortonovo (Ортоново), tra Nicola e Palvotrisia, tra La Spezia e Murmansk, tra l’Aurelia e la Transiberiana. La voglia di Castelnuovo Magra sopra la fronte di Gorbaciov. Ostalghia è un amaro, terribile capolavoro che resterà, naturalmente, sbattuto fra ex case del popolo (non a Cortina), fra demartini e fosdinovi, tra salette, tra album autoprodotti o quasi, tra siti internet, tra video YouTube, tra maree e contromaree; ma ha la natura del tarlo, e come tale si roderà il suo legno.

ОСТАЛГИЯ

Мы были взрослым детьми
с совестью в какой-нибудь песне,
горький эликсир науки
смешивал веру и разум.
Раскаяние – наш Будапешт,
К Элизе – наша рана
бесцветное прошлое партизанов,
показное новое сознание
в небе Праги.

Мы были красивые и проклятые
после сна Богемы,
в онирическо-алкогольных заводах
социалистов в фазе рем.
Мы были красным знаменами
забытым в отбеливателе,
пустым, выцветщим симболами
мы искали Народные дома в Кортине.

Солнце внутри нас
встаëт снова не родившись
и фильтрует обострения
нашего ветра давнопрошедшего.
Лебединая песня,
телевидение,
американский закон
чистя родинку Афганистана
на челе Горбачëва,
чистя родинку Афганистана
на челе Горбачëва.

Товарищи, давай оставим это,
это – вопрос соблазна,
и не выборов как за Мару Каголь,
не заводов и занятости,
не фашистов и капитализма,
а большевистского футуризма,
это винтовка, это летающий берет
в какой-нибудь песне.

Животные с сознанием,
деволуция, неправильная дорога,
которая в бороде Маркса надевает нам
маску отца, который сделал эвтаназию.
И если смерть – утешение
жизни и еë узаконение,
к чему это, отрицать Бога?
К чему это, подумать еще раз,
что тот, кто имеет товарищей,
не умрëт?

Солнце внутри нас
встаëт снова не родившись
и фильтрует обострения
нашего ветра давнопрошедшего.
Лебединая песня,
телевидение,
американский закон
чистя родинку Афганистана
на челе Горбачëва,
чистя родинку Афганистана
на челе Горбачëва.

Posted in Canzoni | Tagged Album, Apuania, Davide Giromini, Generazioni, Pettinature estreme

Brucia la strega, o come si diventa nazisti

By Antiwar Songs Staff on 9 Maggio 2016

burngallows

Burn the Witch (Brucia la strega) è il singolo che apre il nono e più recente album dei Radiohead, disponibile in rete dall’8 maggio 2016.

moonshaped

Una canzone sul “Come si diventa nazisti”, per citare il famoso studio che lo storico americano William Sheridan Allen (1932-2013) pubblicò nel 1965 (titolo originale: “The Nazi seizure of power; the experience of a single German town, 1930-1935”. L’edizione italiana di Einaudi era introdotta dal sociologo Luciano Gallino il quale scriveva, tra l’altro:

“La distruzione di una comunità politica, la fine della democrazia è sempre possibile – e oggi come allora gli avversari della democrazia stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, ch’è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà”.
nazitown
E proprio di questo parla “Burn The Witch”, una canzone di lunga gestazione, data più volte per perduta ed oggi ritrovata, con cui i Radiohead hanno fotografato la deriva nazionalista, populista e razzista della nostra decrepita Europa, ripiombata oggi in un’epoca simile a quella fra le due guerre, impreparata ed incapace a gestire la globalizzazione in una prospettiva favorevole all’uomo e cedendo invece su ogni fronte alle sue insidie intrinseche: le crisi economiche, lo strapotere dei capitali finanziari, i riassetti geopolitici, le migrazioni di interi popoli stremati dalle guerre e dalla fame… Un’Europa nei cui lindi paesini – della Baviera tedesca come dell’Essex inglese e pure nella mia bella Torino – proliferano quelli che evocano scenari apocalittici, invasioni di legioni di locuste nere ed islamiche, ed invocano muri, campi di concentramento, deliberati affondamenti di barconi carichi di donne e bambini, ruspe sui campi rom, roghi di omosessuali, Stato di polizia, l’uomo forte e chi più ne ha più ne metta…
Nel bellissimo video – un cartone con pupazzi animati in stop motion che ricordano la serie televisiva inglese degli anni 60 intitolata “Trumpton”, dedicata ai bambini – una ridente, bucolica ed operosa piccola comunità (e potrebbe quasi trattarsi di una di quelle dell’Essex, del Suffolk o del Norfolk dove nella prima metà del 600 avvenne una delle più feroci “cacce alle streghe” mai condotte in Europa, vicenda così ben cantata nel concept album The Violence di Darren Hayman and The Long Parliament) viene visitata da una sorta di ispettore il quale, sotto la patina di gaiezza, fiori, uccellini, festa ed armonia, non può fare a meno di notare alcune cose dissonanti ed inquietanti, come una bella forca seppur gentilmente infiorata, o una strana cerimonia di spadonari che danzano minacciosi intorno ad una giovane inerme legata ad un albero, o un operaio comunale intento a contrassegnare le porte di alcune case con una croce di vernice rossa, o un’altalena in un parco che è in realtà un aggeggio per l’ordalìa dell’acqua (se galleggi sei una strega), o raccoglitori di pomodori in una serra, sorvegliati da un minaccioso caporale ubriacone…
spadonari
Poi l’ispettore viene condotto a quella che sembra una festa in suo onore, nel corso della quale viene scoperta una statua che è in realtà un “wicker man”, un grande costruzione di legno in forma umana che, si dice, in certi antichi rituali celtici serviva a fare sacrifici umani… Il malcapitato viene indotto con un pretesto ad entrarvi e poi è proprio il sindaco del paese ad ordinare che l’ospite – non poi così gradito – sia arso vivo…
wickerman
La clip è una bellissima trasposizione visiva del testo del brano ed è anche un omaggio al film britannico “The Wicker Man”, un horror diretto nel 1973 da Robin Hardy sulla sceneggiatura di Anthony Shaffer.
thewicker
Un poliziotto viene spedito su di un’isoletta delle Ebridi per indagare sulla scomparsa di una bimba. Lì scopre una comunità agricola molto chiusa, dedita ancora a culti pagani e capisce che ogni anno una bimba viene immolata per propiziare il raccolto… Cerca di salvare la malcapitata di turno ma sarà lui stesso a finire bruciato vivo dalla gente del posto…
Resta nell’ombra
Applaudi alla forca
Assieme agli altri
È un attacco di panico a bassa quota
Canta una canzone col jukebox che va
Brucia la strega
Brucia la strega
Noi sappiamo dove vivi
Croci rosse su porte di legno
E se galleggi vai al rogo
Voci sottobanco attorno ai tavoli
Lascia stare ogni ragione
Evita ogni contatto visivo
Non reagire
Spara ai messaggeri
È un attacco di panico a bassa quota
Canta la filastrocca che va
Brucia la strega
Brucia la strega
Noi sappiamo dove vivi
Noi sappiamo dove vivi

Posted in Canzoni | Tagged Criptonazismo, Populismo, Radiohead, razzismo, Vecchia Europa | 2 Responses

All the flowers are back

By Antiwar Songs Staff on 15 Aprile 2016

seegwhereNel nostro sito, esistono una decina di “Canzoni fondamentali” che, nel corso degli anni, sono state considerate una sorta di canzoni contro la guerra universali. Stanno lì, da sempre, in bella vista sulla homepage; nelle rispettive pagine sono contrassegnate da un bannerino rosso con una “B” che sta per “Basic”. Avere quel bannerino, per una canzone contro la guerra, significa principalmente una cosa: essere conosciuta e cantata veramente in tutto il mondo. Non importa in quale lingua sia stata composta originariamente; si tratta davvero di canzoni storiche il cui valore e la cui importanza va ben oltre; sicuramente, come ama ripetere spesso un nostro collaboratore, “non hanno mai impedito o fatto terminare una guerra”, ma hanno comunque segnato le coscienze e, non di rado, anche gli eventi.

La prima di queste canzoni, anche numericamente, è Le déserteur di Boris Vian. Della numero 2, Where Have all the Flowers Gone di Pete Seeger si parla in questo articolo. Sì, perché, come spesso accade nelle pagine dedicate alle “Canzoni fondamentali” del sito, esse col tempo si stratificano. Sono talmente “antiche” e enormi, che diventano man mano un accumulo disordinato di traduzioni, commenti e quant’altro; inoltre, essendo pagine formatesi originariamente nei primissimi tempi del sito (oramai tredici anni fa, che per un sito Internet equivalgono a tredici secoli…), sono aggiornate abbastanza raramente e, quindi, “invecchiano” e presentano mostrano sovente imprecisioni dovute quasi sempre al fatto che, all’epoca della loro formazione, la Rete offriva molte meno possibilità di ricerca e di reperimento di dati. La pagina dedicata alla canzone di Pete Seeger era, in tutta sincerità, una di quelle. Qualche mese fa mi ci ero avventurato per caso mettendomi le mani nei capelli: era diventata un autentico guazzabuglio. Urgeva non una semplice ristrutturazione, bensì un rifacimento quasi di sana pianta; cosa che, con un mese circa di lavoro, è adesso terminata. Chiunque abbia presente la pagina com’era un mese fa e come è adesso, non mancherà (spero) di notarlo a prima vista.

peteseegerPresentare Where Have all the Flowers Gone è semplicemente inutile: nata in sordina nel 1956 a partire da alcuni versi di una canzone popolare ucraina letti da Seeger nel Placido Don di Sholochov, sui quali il musicista innestò una melodia ripresa dalla canzone popolare americana Drill Ye Tarriers Drill, la canzone “esplose” nei primi anni ’60. Con la sua “struttura a catena” ripresa da modelli poetici popolari che si perdono nella notte dei tempi, Where Have all the Flowers Gone, si può dire, è una canzone nata già universale perché parla, e nel modo più semplice possibile, di ciò che accade da sempre. I fiori son colti dalle ragazze, le ragazze son colti dai ragazzi, i ragazzi son colti dalla guerra, i soldati son colti dalla tomba e la tomba è colta da nuovi fiori. E tutto ricomincia come prima.

Un rifacimento “quasi di sana pianta” di una pagina come questa non può ovviamente constare solo di aggiustamenti o migliorie grafiche o comunque fisiche nella pagina. Molti dati, ad esempio, erano imprecisi e, in alcuni casi, addirittura sbagliati. Particolarmente nelle indicazioni autoriali delle versioni nelle varie lingue, c’è stato parecchio da lavorare e da correggere. Poiché la maggior parte delle versioni e traduzioni sono state cantate (spesso da interpreti di fama mondiale, come Joan Baez o Marlene Dietrich, che interpretò la versione tedesca scritta da Max Colpet nel 1962, Sag mir wo die Blumen sind, la quale è perlomeno famosa quanto l’originale, e talmente tanto da essere creduta da molti nel mondo come la canzone originale tout court), si è trattato anche di reperire i video di ogni singola versione, naturalmente laddove possibile. Sono state, per ogni versione, aggiunte delle introduzioni se rese necessarie dalla particolare valenza della versione stessa; e, naturalmente, ricercando sono venute fuori storie a volte incredibili. In senso divertente, come nel caso della versione svedese scritta nel 1962 da Beppe Wolgers, cantante e attore che interpretò la parte del padre di Pippi Calzelunghe nel famoso telefilm; oppure in senso tragico, come una delle due versioni ungheresi, interpretata da una cantante, Erzsi Kovács, che nei primi anni ’50 visse una impossibile storia d’amore con un calciatore della nazionale magiara progettando di scappare all’estero con lui (il calciatore fu tradito da una spia e fatto impiccare dal regime stalinista).

Per ogni versione, anche per quelle “non di autore”, sono stati effettuati controlli rigorosi; sono state aggiunte immagini e trascrizioni per le lingue non scritte in alfabeto latino e, naturalmente, sono state aggiunte nuove traduzioni. All’inizio del rifacimento, la pagina presentava traduzioni e versioni in 26 lingue; ora sono 42. Tutto questo ha un valore che va oltre il sito: poiché, ad esempio, praticamente tutti gli articoli sulla canzoni presenti nelle varie edizioni di Wikipedia sono basati sulla nostra pagina, anche le varie “Wikipedie” saranno prima o poi costrette ad aggiornarsi.

È ovviamente palese che i rifacimenti delle “pagine fondamentali” non termineranno con questo; tutte le “Basic” hanno bisogno di una lucidatina, mettiamola così. Una lucidatina, però, che non le renda soltanto più “belline” esteriormente, ma anche sempre più profonde, esatte e fruibili. Che lo si voglia o meno, si tratta di canzoni che hanno fatto la Storia e che si sono insinuate dentro di essa: è ad esempio possibile immaginare il movimento di protesta degli anni ’60 senza una canzone come Where Have all the Flowers Gone? Eppure quel movimento una guerra l’ha fatta finire, e ha buttato giù dalla poltrona un presidente.

Insomma, All the flowers are back. Non che siano mai andati via, perché la canzone continua ad essere famosissima, con versioni composte anche in anni recentissimi e negli stili musicali più impensabili per una melodia che è semplicissima, quasi elementare; però, chissà, anche una pagina Internet fatta nel miglior modo possibile potrà dare il suo contribuito, con le sue mille storie. Fra qualche anno, sempre che il grande Manitù ci conservi la salute, ci sarà naturalmente da rifare tutto daccapo.

Posted in Canzoni, CCG Fondamentali | Tagged Rifacimenti di pagine

Fabrizio, i Bretoni, il fumo e la notte

By Antiwar Songs Staff on 13 Marzo 2016

fabsmoking

A prima vista, sembrerebbero entrarci assai poco l’uno con gli altri, Fabrizio de André e i Bretoni; eppure, in questi ultimi tre mesi, sono andati di pari passo nelle “ristrutturazioni”. Ogni tanto, piglio una sezione del sito e la rifaccio di sana pianta, modificandola, ampliandola, integrandola, correggendola, sistemandola e quant’altro. Non c’è e non ci deve essere una “logica”; per la scelta, seguo realmente ciò che mi comanda una specie di istinto, incrociando storie e canzoni, musica e parole, autori e anonimi, culture e sensibilità apparentemente difformi. E’ un vero e proprio viaggio che, come tutti i viaggi, porta sovente a nuove scoperte che aggiungono memoria alla memoria; e mi piace pensare, non lo nascondo certamente, che questo sia in definitiva il compito più alto e più degno di questo sito.

arvretoned

Certamente, però, uno straccio d’idea seminale c’è sempre. Quando, un dato giorno, mi metto a ristrutturare una sezione intera, è perché si tratta quasi sempre di un insieme di pagine che si sono accumulate nel tempo in maniera assai disuguale, caotica, arruffata. In una data sezione esistono spesso pagine assai “antiche” relativamente al sito, prive di tutto (spesso persino delle più semplici indicazioni discografiche, per non parlare delle introduzioni e dell’iconografia), che coesistono con pagine completissime. Molto spesso, tali pagine contengono errori di ogni tipo, e si tratta quindi di fare un lavoro di verifica capillare (in primis storica e testuale). Nuove notizie vengono reperite, le quali conducono a nuovi testi da analizzare e da inserire. Per questo e per altri motivi, l’immagine del “viaggio” è quella che meglio si attaglia a tutto questo. Serve anche a dare l’esatta coscienza delle dimensioni che ha raggiunto oramai questo sito, di cui nessuno di noi vedrà mai una sistemazione definitiva e totale. Somiglia sempre di più ad una di quelle storie di fantascienza degli anni ’40 o ’50, dove viene narrato di viaggi intergenerazionali verso lontanissime galassie.

Questo viaggio è partito coi Bretoni. La “Sezione Bretone” del sito non è vastissima, e proprio nel corso della sua ristrutturazione ha varcato (e superato) la soglia delle 50 canzoni. Vastissima non potrà mai essere, avendo a che fare con canzoni in una lingua minoritaria, frammentata e non semplice. Non mi sarei mai azzardato a toccarla finché non avessi avuto di quella lingua una conoscenza sufficiente a muovermici a mio agio; quando me la sono sentita, è “sceso in campio” l’alter-ego bretone, Richard Gwenndour, laddove “Gwenndour” significa in bretone “acqua bianca”. Ed è cominciata così una sequela di giovani coscritti in partenza, storie spesso tragiche di una vecchia comunità rurale e marinara colpita dal flagello delle giovani generazioni mandate a far la guerra già prima della leva obbligatoria di epoca rivoluzionaria e napoleonica. Ma le canzoni bretoni, sia popolari che d’autore, ci parlano anche di dure condizioni di lavoro nelle campagne e in mare, delle lotte di anni remoti (come la “Rivolta dei Berretti Rossi” del 1675 narrata in Hañvezh ar bonedoù ruz) e recenti (come le battaglie sociali, indipendentiste ed ambientali degli anni ’60, ’70 e ’80) tra le quali mi piace scegliere quella contro la costruzione della centrale nucleare a Plogoff, narrata ad esempio in Keleier Plogoff; ci sono i gwerzioù dedicati ai grandi avvenimenti internazionali come le cupe e tragiche storie d’antiche guerre (ad esempio, il complesso di ballate note sia come An distro euz a Vro-Zaoz o Silvestrig.)

gelfur

La canzone e la musica bretone, popolare e d’autore, ha conosciuto a partire dagli anni ’60 del XX secolo una rinascita che ha portato molte sue figure ad una fama planetaria. Il nome più ovvio è quello di Alan Stivell, ma la “Sezione Bretone” è fatta anche per rivisitare e conoscere altri personaggi, come Gilles Servat, i Tri Yann, Denez Prigent e tanti altri, tra i quali vorrei nominare almeno Gweltaz Ar Fur e la sua “canzone di famiglia”, Ar soudarded zo gwisket e ruz, autentico capolavoro della canzone in lingua bretone:

I soldati van vestiti di rosso,
O lin de lin da lan de lin da
I soldati van vestiti di rosso,
E i preti van vestiti di nero.

Il miglior soldato che era nell’armata,
O lin de lin da lan de lin da
Il miglior soldato che era nell’armata
Sì che era il soldato Ar Fur.

E diceva ai suoi compagni,
O lin de lin da lan de lin da
E diceva ai suoi compagni,
Non credo di morire davvero.

Ma se dovessi morire in guerra,
O lin de lin da lan de lin da
Ma se dovessi morire in guerra,
Seppellitemi in terra benedetta.

Ma se morissi in casa di mio padre,
O lin de lin da lan de lin da
Ma se morissi in casa di mio padre,
Seppellitemi al paese di Brizieux.

Al paese di Brizieux nel camposanto,
O lin de lin da lan de lin da
Al paese di Brizieux nel camposanto,
Un abete da croce ci sta piantato.

Un albero da croce ci sta piantato,
O lin de lin da lan de lin da
Un albero da croce ci sta piantato,
E mai ha perso il suo fogliame.

Però quest’anno è appassito,
O lin de lin da lan de lin da
Però quest’anno è appassito,
Morto è il soldato Ar Fur.

La terra ha cominciato a bagnarsi,
O lin de lin da lan de lin da
La terra ha cominciato a bagnarsi
Assieme alle lacrime dei Bretoni.

Il miglior soldato che era nell’armata,
O lin de lin da lan de lin da
Il miglior soldato che era nell’armata
Sì che era il soldato Ar Fur.

I soldati van vestiti di rosso,
O lin de lin da lan de lin da
I soldati van vestiti di rosso,
E i preti van vestiti di nero.

Mentre la ristrutturazione della “Sezione Bretone” è nata ed è andata avanti sulla base di una data lingua, quella dedicata a Fabrizio De André è, chiaramente, basata su un autore. E’ nata nel bel mezzo della ristrutturazione della “Sezione Bretone”, e con essa è proceduta di pari passo, come fossero le due famose rette parallele che s’incontrano all’infinito (la scienza matematica è, non di rado, poesia pura). Come è facile immaginare, la sezione dedicata a “Faber” è non soltanto una delle più importanti del sito, ma anche una delle più antiche; comprende ad esempio una canzone come La guerra di Piero, che, oltre a fare parte del “gotha” di quelle che abbiamo ritenuto le dieci canzoni fondamentali contro la guerra di tutte le epoche, è anche la quinta canzone del sito in ordine di inserimento, tra le venticinquemila e rotte di cui attualmente consta.

warpeter

La sezione dedicata a De André è enorme e si trovava, spesso, in un caos babelico. Aggiunte disordinate, incompletezze, dimenticanze, incongruenze. Esisteva inoltre la necessità di inserire tutte le traduzioni in lingua inglese che un giovane americano innamorato di De André, Dennis Criteser, aveva inserito tra il 2013 e il 2015 in un blog interamente dedicato a questa cosa, Fabrizio De André in English. Pagine come quella dedicata alle “versioni modificate” di Via della Povertà erano in condizioni di caos primordiale, senza contare il fatto che la “Sezione De André” si estende anche a parecchi “Extra” e alle versioni italiane che De André aveva fatto da vari autori, e che si trovano naturalmente inserite nelle relative pagine (caso tipico, la Canzone del Maggio inserita nella pagina dedicata a Chacun de vous est concerné). Nuove canzoni e nuove traduzioni sono state inserite, anche in parecchie altre lingue; introduzioni sono state rifatte di sana pianta, assieme a riconsiderazioni, aggiustamenti, spostamenti. Ma non sto a farla troppo lunga; basta dare adesso un’occhiata alla “Sezione De André” per rendersene conto.

Durante il viaggio delle ristrutturazioni di questi mesi, non è “nato” soltanto il “bretone” Richard Gwenndour (che, a rigore, era già nato da un pezzo: è la “bretonizzazione” del mio nome che uso per la redazione della mia grammatica descrittiva del bretone che sto compilando fin dal 2003), ma anche un altro curioso personaggio, Gaspard de la Nuit, nome ripreso da un compilatore di incroci obbligati, ricerche di parole crociate ed altri difficili giochi della Settimana Enigmistica, di cui sono appassionato fin da ragazzino.

amicofragile

Se le ristrutturazioni sono state un viaggio, è stato un viaggio notturno. Nel silenzio di ore che, credo, per la maggior parte delle persone sarebbero considerate assurde. Ho degli orari e dei metabolismi che non raccomanderei molto in giro. Un viaggio, quello di Richard Gwenndour e di Gaspard de la Nuit, che è stato accompagnato da litri e litri di caffè (che, magari, fanno il paio coi litri e litri di corallo -e di whisky- di Amico fragile), da un gatto che entrava e usciva, dai rumori bizzarri e bellissimi della notte, da pacchetti di sigarette interi, dalla solitudine e dalla musica. Un viaggio e un volo, dove nella notte le scogliere di Bretagna e della “mia” isola di Ouessant si sono spesso incrociate e confuse con le storie di Faber, con la cella dove si è impiccato il Miché o dove stava l’impiegato nella sua ora di libertà, con l’asina dei Monti di Mola, con mille e mille direzioni ostinate e contrarie. E così, alla fine, Richard Gwenndour, Gaspard de la Nuit e il sottoscritto si sono ricomposti in un’armonia, in un tutto. A pensarci bene, si tratta della storia della mia vita intera.

E’ andata a finire che, il tredici marzo del 2016, il viaggio è terminato con un’antica ballata occitana, Mis amour, che Fabrizio De André interpretò nel 1995 assieme ai Troubaires de Coumboscuro. Era stata inserita in un album, A toun souléi, al quale aveva collaborato anche Alan Stivell; ed allora, proprio alla fine, De André e i Bretoni si sono dati la mano. Ha assistito alla cosa il terzetto formato da Richard Gwenndour il bretone, da Gaspard de la Nuit il fumatore notturno avvelenato di caffè, e dal sottoscritto. Che vi salutano piacendo loro di pensare d’avervi fatto cosa gradita mentre voi riposavate, like a flickering light in the darkness nel viaggio al termine della notte. [RV]

voboutnuit

Post Scriptum. Ma nel viaggio non sono stato sempre solo. A volte mi hanno accompagnato, e mi corre il gradito obbligo di ringraziarli e di abbracciarli, Bernart Bartleby, Krzysztof Wrona (a sua volta “bretonizzato” in Kristof Bran) e Flavio Poltronieri, immenso conoscitore di Bretagne.

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Colei che scioglie gli eserciti

By Antiwar Songs Staff on 6 Marzo 2016

lysisbann

Per la CCG n° 25000, abbiamo scelto di presentare la consueta “pagina speciale” dedicata stavolta ad un’opera teatrale intera proveniente dall’antichità classica: la Lisistrata di Aristofane. La storia del più famoso “sciopero del sesso” della Storia contro la terribile Guerra del Peloponneso, che in pratica segnò la fine del periodo migliore della civiltà Ellenica.

E’ l’anno 411 avanti Cristo quando, alle feste Lenee di Atene, viene presentata una commedia attribuita a tale “Callistrato”. Le feste Lenee si tenevano ogni anno per celebrare il dio Dioniso Leneo; il nome derivava dalle Λῆναι, vale a dire le Menadi, le adoratrici del dio Dioniso; era consuetudine che, durante tali feste, si presentassero delle tragedie e si svolgessero agoni poetici. Era abbastanza raro che venissero presentate delle commedie, come avvenne appunto in quell’anno 411 con la Lisistrata di quel “Callistrato” che abbiamo già nominato. Ora, si dà il caso che tutti sapessero che si celasse in realtà sotto quel nome, che significa, ironicamente assai, “Bell’Esercito” o “Bella Armata”; si trattava di Aristofane (nome che, a sua volta, significa “di nobile aspetto”), il quale, da sempre, con gli eserciti, belli o brutti che fossero, ce l’aveva assai. E ne aveva ben donde.

Si era, in quell’anno Quattrocentoundici avanti Cristo, proprio nel bel mezzo della Guerra del Peloponneso. Poiché si dice che le guerre sono in sé stupide, va detto che, in un’ipotetica “top ten” delle guerre più stupide della Storia, quella del Peloponneso entrerebbe di diritto. Fin dal suo inizio, per le solite questioni di egemonia e con Sparta che proprio non la voleva affatto, fu chiaro perlomeno alle menti più intelligenti che il suo risultato sarebbe, prima o poi, stato la fine della civiltà Ellenica. Nulla da fare: tirarono diritti. Nel 411 a.C., tra le altre cose, ad Atene il clima era tremendo dopo il fallimento della Spedizione in Sicilia, l’episodio centrale della guerra che provocò la rovina totale di Atene con le migliaia di suoi cittadini messi a morire di stenti e di fatiche nelle Latomie di Siracusa. E Aristofane, come suo costume, ci andò giù durissimo, con la Lisistrata. Sono passati 2500 anni, ed è ancora un simbolo non tanto di “pacifismo”, quanto di antimilitarismo, di accusa alla guerra e alla sua idiozia, e anche di denuncia della condizione della Donna.

Nella composizione della Lisistrata, va detto, entra anche un aspetto che non di rado viene sottaciuto, o minimizzato. Se il nome della protagonista, Lisistrata (Λυσιστράτη), significa “colei che scioglie gli eserciti”, in quell’anno 411 a.C. la sacerdotessa del tempio di Atena Poliade, personaggio storico, si chiamava Lisimaca (Λυσιμάχη), vale a dire “colei che scioglie le guerre”.Non solo: la sacerdotessa del tempio di Atena Nike si chiamava “Mirrina”. Come si vede, si tratta di nomi molto simili, o addirittura identici, a due personaggi di primissimo piano della commedia aristofanea. Non è probabilmente un fatto casuale: le due sacerdotesse dovevano, per forza di cose, appartenere a famiglie nobili, e quindi conservatrici. Si crede quindi che Aristofane, facendo smascherare proprio a Lisistrata e a Mirrina l’ignoranza e inettitudine del rappresentante della magistratura oligarchica e antidemocratica (il commissario), volesse lanciare un messaggio a tutta la cittadinanza, quello di non dividersi in caste e classi sociali dagli interessi contrapposti, ma pensare esclusivamente al bene della città. Cosa che, come è noto, non avvenne affatto.

Lysistrata

Poiché la Lisistrata dovrebbe appartenere a quel ristretto novero di opere teatrali di conoscenza veramente universale, sarebbe forse inutile ricordarne la trama pur per sommi capi; ma, poiché ultimamente la “conoscenza universale” soffre qualche acciacco di vecchiaia, sarà comunque bene farne rapida menzione. L’ateniese Lisistrata, un bel giorno, convoca le donne di Atene e di altre città (tra cui una spartana, Lampitò), per discutere un problema di non poco conto. Gli uomini delle città greche, infatti, a causa della guerra del Peloponneso, non hanno più il tempo di stare con le loro famiglie. E’ qui che Lisistrata propone una cosa semplicissima e altamente rivoluzionaria: lo sciopero del sesso. Finché gli uomini non firmeranno la pace, esse si rifiuteranno di : a) fare l’amore con loro / b) avere rapporti sessuali / c) dàrgliela (scegliere l’espressione che si preferisce). Le donne elleniche, in un primo momento, come dire, restano un po’ sbigottite e titubanti; poi si rendono conto della portata della proposta, e dei suoi possibili effetti, e si dicono favorevoli al piano di Lisistrata, facendo un giuramento.

Le donne, a quel punto, passano all’azione diretta. Occupano infatti l’Acropoli ateniese, per privare gli uomini dei mezzi finanziari per continuare a fare la guerra: Togli agli ometti soldi e sesso, e la guerricciola, pàff, passa in secondo piano. Arriva allora il “Coro dei vecchi ateniesi” il quale, per vendetta, vorrebbe dare alle fiamme l’Acropoli intera con tutte le donne dentro; ma viene fermato dal “Coro delle vecchie ateniesi”, che hanno solidarizzato con le donne più giovani. Gli uomini mandano allora un Commissario per trattare con le donne, ma Lisistrata ne smaschera la stupidità, l’idiozia, l’ignoranza, la comprensione nulla delle vicende che stanno accadendo (sembra di rivedere parecchie figure di “mediatori” negli attuali conflitti). Tra le donne, comunque, serpeggia qualche dubbio; parecchie inventano pretesti per voler tornare a casa dai mariti, e Lisistrata deve darsi molto da fare per impedire loro di lasciare l’Acropoli okkupata, concedendo solo a Mirrina di tornare dal marito Cinesia ma solo allo scopo di arraparlo ben bene per poi lasciarlo con un palmo di naso. Mirrina gioca alla perfezione il tiro al marito: gli fa credere di essere tornata per fare l’amore con lui, ma poi scappa lasciandolo lì a sbollire.

Nel frattempo, lo sciopero del sesso si fa sentire anche nelle altre città greche: da Sparta arriva un araldo, finalmente, per trattare la pace. La scena è notissima e esilarante: l’araldo spartano, infatti, ce l’ha palesemente incannato ed incontra proprio Cinesia, il marito di Mirrina, il quale è nella stessa identica condizione. I due si mettono d’accordo: Sparta invia ambasciatori pronti a trattare la pace, mentre Cinesia si occupa di informare le istituzioni ateniesi. Si riconciliano quindi anche i due cori, quello dei vecchi e quello delle vecchie ateniesi, e lo stesso fanno gli ambasciatori spartani e ateniesi davanti a Lisistrata trionfatrice. Questa si lancia in un elevato discorso pacifista che ricorda le radici comuni di tutti i popoli greci; ma tale discorso si trasforma presto in un profluvio di allusioni e doppi sensi sessuali da parte degli uomini. In un tripudio di danze e banchetti, si celebra il ritorno delle donne dai loro mariti.

La Lisistrata non è solo considerata una delle migliori commedie aristofanee; è, probabilmente, quella che ha avuto, in ogni epoca, l’influenza più profonda. Per la sua estrema modernità, non è esagerato affermare che abbia influenzato da vicino proprio i movimenti femministi del XX secolo. Occorre però specificare che le donne ateniesi di Aristofane non si battono propriamente né per la parità dei sessi, né per l’emancipazione della Donna: si battono per la pace, per fare finire la guerra. Tuttavia, la Lisistrata è il primo testo che ci sia noto che parli dell’emancipazione femminile, non soltanto per mezzo di un lamento patetico (questo era già avvenuto, ad esempio, nella Medea di Euripide, autore peraltro abòrrito da Aristofane che non perdeva occasione per attaccarlo e metterlo in ridicolo), bensì mediante un’autentica e fattiva collaborazione tra le donne, anche e soprattutto di diverse città, le quali appaiono perfettamente conscie delle loro possibilità e della loro capacità di imporre il proprio volere agli uomini. Il “coro dei vecchi Ateniesi” se ne accorge subito, lanciando un canto di allarme: ”Se cediamo, se gli diamo il minimo appiglio, non ci sarà più un mestiere che queste, con la loro ostinazione, non riusciranno a fare. Costruiranno navi, vorranno combattere per mare […] Se poi si metteranno a cavalcare, sarà la fine dei cavalieri.” (vv. 671-676). Le donne non si sentono per nulla “inferiori” e deboli, arrivando a pensare, se gli uomini riuscissero a strappare loro un atto sessuale con la forza, che comunque esse otterrebbero il loro scopo compiendo l’atto senza nessuna partecipazione. L’astinenza si rivela durissima per gli uomini, ma anche per le donne, tanto che Lisistrata deve impegnarsi a fondo per tenere unite le sue compagne. Ciononostante, malgrado le difficoltà, le donne resistono e la firma della pace arriva come una liberazione per entrambi i sessi.

La portata rivoluzionaria della Lisistrata non può essere compresa appieno se non si considera la condizione della donna nell’Atene del V secolo a.C. Si parla qui, naturalmente, della condizione delle donne libere, di condizione media e elevata: quella delle donne di condizione inferiore (per non parlare, ovviamente e purtroppo, delle schiave) non sarebbe mutata, in Grecia e altrove, fino ai tempi moderni. Anche la donna “libera”, nell’Atene di quell’epoca, aveva possibilità assai limitate: non aveva accesso né alle cariche pubbliche, né ad un’istruzione adeguata. Il compito della donna era quello di procreare e badare alle faccende domestiche, con o senza l’ausilio di schiavi (e schiave). La donna passava quasi tutto il suo tempo in casa, e non era mai presente nei luoghi pubblici ateniesi, come l’Agorà ed il Ginnasio. Fatto significativo assai, non è neppure chiaro se potessero assistere alle rappresentazioni teatrali. Poiché nelle tragedie e nelle commedie le parti femminili erano comunque affidate a uomini, è praticamente certo che anche nella rappresentazione originale della Lisistrata la sua parte e quella delle sue compagne siano state affidate ad attori maschi. Le donne delle famiglie di condizione inferiore erano spesso costrette a trovarsi un lavoro esterno (lavandaia, tessitrice, balia), che al tempo stesso costituiva un aggravio delle loro fatiche e l’unica possibilità di avere delle relazioni sociali. Il marito veniva scelto dalla famiglia; una ragazza era considerata in età da marito verso l’età di 14 anni e, in genere, veniva data in sposa ad uomini sulla trentina, assieme a una dote per il suo mantenimento. La donna non aveva il diritto di amministrare la propria dote (compito che spettava al marito) anche se, qualora la dote fosse consistente, le permetteva comunque di non avere problemi economici per tutta la vita. In tutto questo si deve considerare che, tra tutte le poleis greche, Atene non era probabilmente quella che garantiva maggiore libertà alle donne. A Sparta, ad esempio, la donna poteva disporre liberamente dei propri averi e poteva allenarsi facendo ginnastica. Nella “comunista” Sparta, probabilmente la donna aveva una vita sociale più vivace.

Posted in Articoli | Tagged Aristofane, Grecia, Lisistrata

We are forces of chaos and anarchy

By Antiwar Songs Staff on 30 Gennaio 2016

Paul Kantner

We Can Be Together è una canzone incredibile – che inseriamo oggi in memoria di Paul Kantner – che apre lo storico album Volunteers, quello con la copertina che ritrae i membri del gruppo davanti alla bandiera statunitense vestiti (o parzialmente vestiti) in modo del tutto eccentrico. La copertina si riferisce ovviamente alla title track (l’ultima in scaletta) in cui il gruppo afferma “we are volunteers of America.”. We Can Be Together è simile musicalmente e tematicamente.

La musica introduttiva è quasi marziale, ritmata, con batteria chitarra e piano che scandiscono il tempo di una marcia La chitarra solista e distorta di Kaukonen entra improvvisamente, come in una chiamata all’azione, introducendo il carattere di inno generazionale. Poi la musica si fa più tranquilla, e le parole potrebbero quasi far pensare ad una canzone d’amore, grazie anche alle due voci maschile e femminile. Possiamo stare insieme, io e te, dovremmo stare insieme, un classico incipit da canzone romantica. Ma subito dopo la musica riprende il suo carattere marziale (questa alternanza è lo stile della canzone e sarà ripetuta per tutto il pezzo) e si intuisce che di tutto si tratta tranne che di una coppia di innamorati.

Siamo tutti fuorilegge agli occhi dell’America, per sopravvivere rubiamo, imbrogliamo, mentiamo falsifichiamo, scopiamo, ci nascondiamo e traffichiamo. Siamo osceni, illegali, detestabili, pericolosi, sporchi, violenti… e soprattutto giovani!

In poche, essenziali, definizioni, riprese alla lettera – sembra – da un volantino distribuito a New York dal gruppo radicale anarchico The Motherfuckers, Kantner delinea il conflitto generazionale e politico che contrapponeva la generazione degli hippies alla generazione del presidente Nixon che – peraltro – stava mandando i giovani al macello della guerra del Vietnam.

Up against the wall motherfucker

Per quanto questi slogan possano sembrare estremisti – in effetti le parole erano scelte appositamente per apparire più radicali possibile per produrre un forte impatto emotivo – bisogna ricordare che a quel tempo se protestavi contro la guerra in Vietnam, se eri un maschio con i capelli lunghi, se fumavi una canna di tanto in tanto, se facevi sesso prima del matrimonio – e naturalmente se ascoltavi una band come i Jefferson Airplane – stavi probabilmente infrangendo una o più leggi e avevi piu di una ragione di temere il controllo del governo, la censura e le conseguenze penali.

Quando il We can be together viene ripetuto la seconda volta, appare chiaro che non si riferisce a un uomo o una donna, ma ad un gruppo di persone – forse un’intera generazione – che condivide uno stile di vita, degli ideali e dei sogni.

Il conflitto generazionale viene ribadito ancora più esplicitamente nel seguito: Siamo le forze del caos e dell’anarchia. Tutto quello che dicono di noi, lo siamo davvero. E ne andiamo molto fieri!. Non si tratta semplicemente di incomunicabilità. Noi non cambieremo e “loro” – la vecchia generazione, il governo, il potere – non ce lo perdoneranno.

Ecco che la musica torna alla melodia rilassata, ma stavolta abbiamo un messaggio molto diverso: Contro il muro, figli di puttana! Abbattiamo i muri!. Quel motherfucker, che riusci a mandare nel panico i dirigenti della casa discografica RCA che fecero di tutto per tagliarlo dal disco, viene pronunciato da Grace in maniera memorabile. Altri avrebbero sputato l’insulto con rabbia e violenza, invece Grace Slick pronuncia lentamente e soavemente ogni sillaba, permeando quasi la parola di grazia e d’amore. Grace fu anche la prima cantante a pronunciare la parola incriminata in diretta TV, in occasione della partecipazione del gruppo al Dick Cavett Show.

Il finale è la speranza, la terra promessa, la fine del conflitto. Un nuovo continente di terra e di fuoco dove arriveremo quando finalmente avremmo abbattuto tutti i muri.

Lo slogan Up Against the Wall Motherfuckers! era ripreso da una poesia del poeta afroamericano Amiri Baraka dedicata, ovviamente, alla comunità afroamericana e al movimento per i diritti civili. L’espressione divenne un grido di protesta del ’68 statunitense e i Jefferson Airplane grazie a questa canzone lo fecero diventare uno dei più celebri slogan rivoluzionari dell’epoca.

fonti: reason to rock, La Zamarra de Gustavo.

Posted in Canzoni, In ricordo | Tagged Jefferson Airplane, Paul Kantner, Vietnam

Imparare a non dimenticare

By Antiwar Songs Staff on 27 Gennaio 2016

Primo Levi

Primo on The Parapet è una canzone scritta da Peter Hammill per Primo Levi.
Scritta nel 1992, alcuni anni dopo la sua morte, avvenuta a Torino l’11 aprile del 1987.  Primo Levi cadde nel vuoto, nella tromba delle scale del suo palazzo torinese. Ancora oggi non si sa con certezza se si sia trattato di un suicidio o di una disgrazia; Peter Hammill, per questa sua canzone, sembra accettare la prima ipotesi.

Questa è una canzone che, da molti, è stata considerata “difficile”, oscura; i testi di Peter Hammill, l’ex leader dei Van Der Graaf Generator, lo sono spesso. Ci sembra invece che il suo senso sia chiarissimo. Addirittura lampante, espresso in modo non fraintendibile. Si impara, in questo “luminoso mondo nuovo”, soltanto a dimenticare? Potremmo aggiungere: in questo sempre più luminoso mondo nuovo, si impara soltanto a farsi costringere a dimenticare? È poi realmente, e in tutti i casi, una costrizione? La perdita della memoria storica è soltanto opera del potere, oppure anche noi ci mettiamo del nostro, con la pigrizia, con la stupidità della pancia piena, con tutta una serie di azioni e comportamenti che potremmo e dovremmo evitare?


Quattro cavalieri guidano il carro dell’Olocausto verso casa;
E con quale senso della storia contempliamo il nostro luminoso mondo nuovo,
con il video sgradevole a tutta forza dalle stanze
del nostro vicino della porta accanto?
Impariamo a dimenticare? Impariamo soltanto a dimenticare?

Questo sito è un sito principalmente di memoria, di ricostruzione e perpetuazione della memoria storia attraverso un’ottica limitata, ma pur sempre vasta come le canzoni. In questa canzone si afferma una cosa fondamentale: Dobbiamo imparare a non dimenticare. Peter Hammill, per affermarlo, prende come simbolo la morte di Primo Levi, dell’autore di Se questo è un uomo e de La tregua. La considera, come molti hanno fatto, un gesto volontario nel quale la memoria delle cose viste, delle terribili cose viste, ha un ruolo decisivo. Un monito dall’orlo di quella ringhiera dalla quale Primo Levi cadde.


Farò questo brindisi per Primo, che si è arrampicato e ha scavalcato la ringhiera,
Con una parola ultima di monito:
dobbiamo imparare a non dimenticare.

C’è dolore nel ricordo,
ma dobbiamo imparare a non dimenticare.

Vorremmo chiaramente dire che non possiamo pronunciarci sulle effettive cause della morte di Primo Levi. Prendiamo semplicemente atto dell’interpretazione di Peter Hammill, che del resto è stata quella di molti altri (così come altrettanti la hanno negata basandosi su considerazioni plausibili). Resta ciò che si dice in questa canzone; e resta la figura di Primo Levi, il testimone e la vittima della barbarie nazista che, come tale, e come israelita, ebbe il coraggio di prendere, nel 1982, una posizione chiarissima e durissima contro il massacro di Sabra e Chatila e contro il governo israeliano.

Questo, sì, era un uomo. [RV]

Posted in Canzoni | Tagged Peter Hammil, Primo Levi, Shoah

Copşa Mică, la città nera

By Antiwar Songs Staff on 15 Gennaio 2016

copsamica

Come quasi tutte le località transilvane, Copşa Mică, oltre al suo nome rumeno, ha anche un nome tedesco, Kleinkopisch, e uno ungherese, Kiskapus; vuol dire “piccola porta, porticella”. Si trova a nord della città di Sibiu; antica cittadina della minoranza tedesca (i “sassoni”, che la chiamavano Klîkôpeš), è vecchia di oltre seicento anni. Secondo il censimento del 2002, avrebbe 5369 abitanti; per oltre il dieci per cento sono di etnia rom. Negli anni ’50 del XX secolo vi vennero effettuati degli importanti scavi archeologici e paleontologici che portarono alla luce, tra le altre cose, lo scheletro di un mammuth molto ben conservato.

Nel 1936, però, a Copşa Mică fu aperta la Carbosin. La Carbosin produceva, sin dall’inizio, nerofumo per l’industria delle vernici e delle pitture industriali. Il nerofumo, o nero di carbone, o particolato carbonioso, o carbon black è un pigmento prodotto dalla combustione incompleta del carbone, di prodotti petroliferi pesanti, dal cracking dell’etilene o da grassi e oli vegetali. La Carbosin è stata definitivamente chiusa nel 1993; ha attraversato il regime autoritario di Re Carol, la dittatura fascista del conducător Antonescu, la guerra, il regime comunista, Nicolae Ceauşescu e i primi anni della democrazia di mercato dopo il 1989. Per cinquantasette anni ha depositato nerofumo (sostanza cancerogena), ceneri e polveri sottili su tutto ciò che si trovava a Copşa Mică, persone, animali, case, alberi, campi.

Nel 1939, sempre a Copşa Mică, fu aperta la SOMETRA (acronimo di “Societatea Metalurgică Transilvană”, che non ha bisogno di traduzione). La SOMETRA esiste ancora, ha la sua sede centrale proprio a Copşa Mică e da qualche anno fa parte di un importante gruppo metallurgico greco, la Mytilineos Holding. Produce e lavora, in estrema sintesi, piombo, zinco e loro derivati.

copsacopii

Chi arriva a Copşa Mică, adesso, vede le rovine della Carbosin; e i suoi effetti. La SOMETRA si vede meno, è più nascosta; ed è ancora più pericolosa e mortifera, anche perché esiste tuttora. Il lavoro. Operai. Fabbriche. Stabilimenti. La produzione industriale nella Patria Socialista. La produzione industriale nella Patria Capitalista. La disoccupazione. O lavori, o te ne vai. O lavori, o muori. Anzi: lavori e muori. E muore anche chi non ci lavora. Qualche anno fa, Copşa Mică divenne famosa in Europa per un suo poco invidiabile record: era risultata la città più inquinata d’Europa. Gli impianti industriali erano stati spinti al massimo durante il regime di Ceauşescu; quando dopo il 1989 la Carbosin fu chiusa, il 25% della popolazione di Copşa Mică se ne andò quasi di colpo. Resta la SOMETRA e resta l’aspettativa di vita degli abitanti di Copşa Mică, che è del 9% inferiore a quella degli abitanti del resto della Romania.

copsasome
Patologie, cancri, malattie respiratorie, di tutto. E così, Denez Prigent, nel 1997 ha scritto sulla vicenda di Copşa Mică un gwerz. Interamente in bretone e intitolato con lo stesso nome della cittadina rumena, naturalmente; ma bisogna conoscere bene questa tradizione per comprendere del tutto. Il gwerz bretone è una ballata giornalistica; parla di eventi e di disastri che avvengono in tutto il mondo. Ci sono gwerzioù (pronunciare: “gwérju” con la “j” francese) che parlano di Evita Perón, di Víctor Jara, della fucilazione di guerriglieri baschi, dello holodomor ucraino, del genocidio ruandese. “Ballata giornalistica” non significa che sia un articolo di giornale: il gwerz mescola fatti e dialoghi, immagini poetiche e cifre, considerazioni personali e elementi mitologici e locali. Non sapremmo dire se in altre parti del mondo esista una cosa del genere, quando si parla dell’attualità.

Nel suo impressionante gwerz su Copşa Mică, Denez Prigent “mette in scena” delle donne, una delle quali è incinta, e dei morti, dei funerali. Mette in scena l’avvenire che aspetta chi vive a Copşa Mică: andarsene. Mette in scena il lavoro industriale e la morte che, in un modo o nell’altro, decreta a chi lavora, a chi vive assieme a chi lavora e all’ambiente dove si lavora.

Il sole è sorto a Copşa Mică,
il sole è sorto ma la notte è rimasta
nere le foreste, nera la montagna,
neri i giardini, nere le case
neri i corvi, nero il vento
nera la rugiada, nera la bruma,
nero il fiume, nera la terra
nere le nuvole, nera la nebbia
nere le mani, nere le facce
e neri anche i cuori.
[…]

“Sì, ho partorito tre figli meravigliosi,
la fabbrica me li ha presi tutti.
Il primo è morto
a non ancora trent’anni,
il secondo è a letto malato
che urla di dolore giorno e notte,
e anche lui morirà presto.
Il terzo mi fa preoccupare,
neanche da un mese è in età da lavoro,
e vuole già entrare a lavorare,
e già entrare a lavorare vuole
nella fabbrica di piombo di Copşa Mică
e non posso impedirglielo
perché in questo paese non c’è lavoro.
Mio figlio è morto l’altra notte,
sto andando in chiesa al suo funerale,
mio figlio è morto, gli altri lo seguiranno
e non fra molto io pure li seguirò.”

Il 1° febbraio 1993 una delle due micidiali fabbriche, la Carbosin, chiuse definitivamente; per questo motivo il gwerz di Prigent si chiude con immagini di speranza e di rinascita:

Quest’anno per Santa Brigida
quella folle fabbrica è stata chiusa
quella folle fabbrica è stata chiusa
e quel giorno la neve è caduta,
la neve è caduta leggera come piume,
il sole è tornato a sorgere sulla città nera
sulla città nera il sole è tornato a sorgere,
e gli uccelli sono tornati sulla montagna.
Quell’anno, per Sant’Andrea,
abbiamo visto sui rami degli alberi
rispuntare le foglie.

Si è fatto aiutare nel canto, Denez Prigent, da tre “voix bulgares”: le cantanti, appunto bulgare, Ludmila Dinova, Irina Balčeva e Elena Dinova. Qualcuno potrebbe proporgli, a proposito, di scrivere, che so io, un “Gwerz Taranto”; il paragone viene, purtroppo, più che spontaneo. [RV]

Posted in Canzoni | Tagged Bretagna, emigrazione, Guerra alla Terra, inquinamento, Romania

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