“L’ultima lettera arrivo il sedici novembre del 1977. Poi più nulla. Dopo qualche tempo venimmo a sapere che in una pasticceria di Buenos Aires era stata sequestrata una ragazza, le cui caratteristiche fisiche corrispondevano a quelle di nostra figlia. Quando era entrata la patota, lei stava bevendo un caffè in compagnia di un giovane. Lui tentò la fuga, gettandosi contro la vetrata del locale ma si ferì e lo catturarono. Si chiamava Chiquito. Così almeno lo chiamava Laura. Noi non abbiamo mai saputo il suo nome e neppure lo abbiamo mai visto. Sappiamo solo che si amavano, e che quando li sequestrarono, Laurita era incinta di due mesi. Finirono nello stesso campo clandestino di La Chaca, ma poi questo lo scoprimmo anni dopo. Fucilarono Chiquito dopo tre mesi di torture. Tennero Laura in vita solo perché era incinta, per rubarle e vendere il suo bambino.
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In aprile una signora visibilmente terrorizzata avvicinò mio marito. “Ho un messaggio di sua figlia” sussurrò.
Raccontò di essere stata sequestrata per venti giorni e poi liberata. La patota cercava un suo nipote e tanto per non tornare a mani vuote l’avevano legata e incappucciata. Al campo (che non era riuscita a localizzare) aveva conosciuto Laura. Era viva e al sesto mese di gravidanza. Le avevano dato un materasso e le passavano un po’ più di cibo. Ci mandava a dire di non preoccuparci, che il bambino sarebbe nato a luglio e che, se fosse stato un maschietto, l’avrebbe chiamato Guido.
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Il pomeriggio del venticinque agosto aprii la porta di casa a un poliziotto che ci notificò un ordine di comparizione immediato al commissariato di San Isidro Casanova per “ricevere importanti comunicazioni”.
Chiamai mio marito e mio fratello. Arrivammo alla stazione di polizia verso le otto e mezza di sera. Era ancora inverno ma non sentii più il freddo quando incontrai gli occhi della guardia al cancello. Avevo capito. Lungo il tragitto le ipotesi si erano accavallate nella mia mente: ci avevano chiamati per informarci del trasferimento di Laurita all’autorità legale o per affidarci il bambino… o per dirci che l’avevano ammazzata.
Il commissario ci ricevette freddamente, ci mostrò la carta d’identità di Laura e ci domandò se si trattava di nostra figlia.
“Siamo i genitori” rispose Guido.
“Alle una e quaranta di questa mattina” ci informò in tono piatto, “sua figlia è rimasta uccisa nel corso di un conflitto a fuoco con le forze di sicurezza sulla strada nazionale numero tre. Insieme a un altro sovversivo ha tentato di sfondare un posto di blocco a bordo di un’automobile rubata…”.
“L’avete ammazzata, canaglie, assassini, criminali” urlai interrompendolo, ” era sequestrata da nove mesi. Come faceva ad andarsene in giro in automobile?”. Poi, pensai al piccolo Guido: “E il bambino, dov’è?” domandai disperata.
“Quale bambino?” mi sfotté il poliziotto, alzandosi. “Seguitemi” ordinò, “dovete riconoscere il corpo”.
Laurita era buttata sul cassone di un furgoncino, seminuda, accanto al cadavere del giovane assassinato insieme a lei. Mio marito e mio fratello si avvicinarono per primi… Poi si voltarono e mi sbarrarono il passo.
“Non la devi vedere” disse Guido, “ricordala com’era da viva. Se la vedi adesso, te vas a volver loca, diventi pazza”.
Seppi poi che a Laurita mancava metà della faccia, spazzata via da un colpo di fucile a pallettoni. Un’altra scarica le aveva devastato il ventre, certo per nascondere le tracce della recente maternità.
[…]
Nel 1980 mi recai in Brasile con una delegazione di Nonne per tentare, inutilmente, di far conoscere al Papa la nostra tragedia. A San Paolo incontrammo un gruppo di esiliati; tra loro c’erano alcuni sopravvissuti ai campi clandestini. Come sempre domandammo notizie dei nostri figli e nipoti.
“Nel campo di La Cacha c’era una ragazza incinta il cui nome di battaglia era Rita” ci informò una ragazza. “Era di La Plata e il padre era proprietario di una fabbrica di vernici. Venne trasferita all’Hospital militar per partorire. Guido, il bambino, nacque, mi sembra, il ventisei giugno e lei venne liberata la notte del ventiquattro agosto”.
Diventai un pezzo di ghiaccio. Rita era il nome montonero di mia figlia. Con le mani tremanti tirai fuori dalla borsa una sua foto e la mostrai alla testimone.
“E’ proprio lei” la riconobbe sorridendo.
Le raccontai che era stata assassinata e lei scosse la testa, incredula.
[…]
Io spero ancora di trovare Guido e riportarlo a casa”.
da Le Irregolari, Massimo Carlotto, Edizioni e/o
Le Abuelas de plaza de Mayo hanno incontrato il loro nipote emotivamente più importante: Estela de Carlotto, la loro presidente, ha potuto finalmente identificare, dopo oltre trent’anni di ricerche e di incertezze, il figlio di Laura, sua figlia desaparecida. Attualmente si chiama Ignacio Hurban, è un giovane uomo di 35 anni, sposato, che solo da poco ha saputo la sua vera storia; è pianista e compositore.
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