Antiwar Songs Blog

il Blog delle Canzoni contro la guerra

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Il respiro dell’Angelo e il Verme

By Antiwar Songs Staff on 25 Maggio 2015

milan

“Questo album rappresenta una continuazione del mio lavoro di lotta contro il primitivismo della cultura odierna, che ha preteso il suo tributo di vittime grazie agli spietati giochi politici di potere e ha causato un generale allontanamento dalla spiritualità.” – Milan Mladenović

La storia degli Angel’s Breath è tragica come tragico è il periodo del loro paese in quel periodo. 1994, le guerre jugoslave ancora in corso, l’espatrio e la coscienza della distruzione di un intero spirito, oltre a quella materiale e umana. Ma facciamo un passo indietro, al 1985.

In quell’anno, il musicista serbo Milan Mladenović, nato il 21 settembre 1958 e figlio di un serbo e di una croata, è il leader della rock band belgradese Ekatarina Velika; assieme a due altri musicisti rock jugoslavi, Mitar “Suba” Subotić (nato il 23 giugno 1961 a Novi Sad) e Goran Vejvoda (nato nel 1956 a Londra e figlio dell’ambasciatore jugoslavo nel Regno Unito Ivo Vejvoda, ex combattente nella Guerra di Spagna e ex partigiano), decidono di fondare un “project” che chiamano, in serbocroato, Dah Anđela (“Il respiro dell’angelo”): I tre cominciano a scrivere e a comporre, esibendosi più volte a Belgrado; ma, per motivi e obblighi personali, la band si scioglie ben presto e il progetto cessa di esistere.

All’inizio degli anni ’90, poco prima dell’inizio delle guerre jugoslave, Mitar Subotić si trasferisce a San Paolo del Brasile, dove continua a lavorare come musicista e produttore; Mladenović continua invece a vivere in Serbia, assistendo alla dissoluzione violenta della Jugoslavia ed al prevalere delle “facce senza volto” che sono le protagoniste di questo brano. Nella primavera del 1994, Milan Mladenović raggiunge Mitar Subotić a San Paolo, deciso a riattivare il progetto ora intitolato, in inglese, Angel’s Breath e a incidere tutto il materiale che era stato scritto in precedenza. Il progetto Angel’s Breath “rinasce” quindi in Brasile, assieme ai musicisti brasiliani Fabio Golfetti (chitarra), João Parahyba (percussioni), Madalena e Marisa Orth (coriste). L’album Angel’s Breath esce presso la casa Imago nello stesso 1994, con tutte le canzoni scritte da Milan Mladenović.

angelsbreath
Pur essendo inserito nella situazione jugoslava del tempo, l’album intendeva avere un valore di denuncia più generale e, si potrebbe dire, globale; secondo le parole dello stesso Mladenović, era una “continuazione del suo lavoro di lotta contro il primitivismo della cultura odierna, che ha preteso il suo tributo di vittime grazie agli spietati giochi politici di potere e ha causato un generale allontanamento dalla spiritualità.” Ciononostante, Crv (“Verme”), che ne è il brano più rappresentativo e celebrato, si riferisce palesemente a tutto ciò che l’autore aveva dovuto vivere, vedere e sperimentare in quegli anni di “strepito disordinato e insensato”; di egoismi, di spietatezza. Le guerre jugoslave e i loro protagonisti, insomma; gli agitatori nazionalisti di ogni “etnia”, le “facce senza lacrime e senza volto”, i ballerini delle danze rituali in trance “in un mondo che esiste solo nelle loro teste”. Il ritornello del brano elenca le loro caratteristiche: “Cicatrice, bara e verme; facce, pelo e sangue”. In queste sei semplici parole si possono riconoscere tutti quanti, i Tuđman come i Milošević, i Karadžić come i Mladić, gli ustaša, i violentatori, gli stupratori, gli agitatori prezzolati e tutti coloro che li sostenevano da qualsiasi parte in quel macello della carne e dello spirito.

Voi ciechi, voi sordi, voi gente egoista
che fate strepito disordinato e insensato
senza un perché e senza un per come
senza una domanda che potrebbe seccare
un sorriso fiero su una faccia senza lacrime
su una faccia che mai è diventata un volto

Cicatrice bara e verme
facce pelo e sangue
Cicatrice bara e verme
facce pelo e sangue

Voi che ballate muti la vostra danza rituale
voi contenti in trance
in un mondo che esiste
solo nelle vostre teste
gente senza scrupoli e senza pietà
gente senza un ricordo
voi che non conoscete un temporale,
un suono, un colore, un odore
voi gente senza memoria

Cicatrice bara e verme
facce pelo e sangue
Cicatrice bara e verme
facce pelo e sangue

Voi gente senza memoria.

Ho avuto modo di vedere coi miei occhi, in quegli anni, i risultati di quel massacro; una delle tante cose che, allora, mi colpirono fu la presenza palpabile di una “colonna sonora”. Rock bands serbe, croate, bosniache e d’ogni parte che incitavano alla guerra nazionalista e al macello. Una canzone come questa, da parte di una rock band esiliata, si potrebbe considerare un’eccezione da parte di chi si era rifiutato di mandare il cervello all’ammasso.

Milan Mladenović, in quel 1994, non rimase in Brasile; se ne andò prima a Parigi, dove registrò il video per “Crv” (quello che proponiamo, restaurato, in questa pagina) e poi tornò a Belgrado, dove intendeva riattivare la propria band, l’Ekatarina Velika. Il 24 agosto 1994 tenne un concerto a Budva, in Montenegro, in occasione del festival Pjesma Mediterana (“Canzone Mediterranea”), ma il giorno dopo fu colto da un malore e ricoverato in ospedale dove gli fu diagnosticato un cancro al pancreas senza nessuna speranza. Morì poco più di due mesi dopo, il 5 novembre 1994 a Belgrado, all’età di 36 anni. Il suo amico Mitar Subotić rimase invece in Brasile, dove fece uscire un album come solista, São Paulo Confessions. L’album uscì alla fine di ottobre del 1999, dedicato alla memoria di Milan Mladenović; pochi giorni dopo, il 2 novembre 1999, Mitar Subotić si trovava nel suo studio di registrazione assieme all’artista Bebel Gilberto, da lui recentemente scoperta, quando scoppiò all’improvviso un incendio dovuto a un corto circuito. Nel tentativo di salvare il materiale appena registato, Mitar Subotić morì asfissiato dal fumo; aveva 38 anni. Il materiale che aveva tentato di salvare era quello dell’album Tanto tempo di Bebel Gilberto, che, alla sua uscita, divenne l’album brasiliano più venduto di tutti i tempi al di fuori del Brasile.

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Ambaradan

By Antiwar Songs Staff on 21 Maggio 2015

debralibanosChe cosa mai vorrà dire “ambaradan”
una parola così sbarazzina
ma che casino, cos’è ‘sto ambaradan?
Una reminiscenza abissina.

La simpatica parola “ambaradan” (o “ambaradam”), che in italiano colloquiale significa “casino, confusione, baraonda”, non ha un’origine tanto simpatica, come già abbiamo avuto modo di dire nell’introduzione ad un’ omonima canzone degli Yo Yo Mundi, “Ambaradan” (del 2002). La battaglia per la conquista dell’Amba Aradam (nell’Etiopia Settentrionale) da parte delle truppe italiane durante la guerra abissina si svolse a partire dal 12 febbraio 1936 e fu un massacro dai risvolti, però, assai particolari. Nella battaglia dell’Amba Aradam, infatti, le truppe italiane erano alleate con delle tribù locali che, a loro volta, avevano stretto legami anche con gli etiopi. Nello scontro si creò ad un certo punto una tale confusione per cui nessuno era più in grado di capire contro chi combattesse. Questo gigantesco teatro dell’assurdo si concluse il 15 febbraio 1936 con i seguenti risultati: 36 ufficiali e 621 soldati italiani morti, 143 morti locali alleati con gli italiani, e circa 20.000 uomini da parte etiope. Si stima che la parola “ambaradan” sia entrata quasi subito nell’uso colloquiale italiano, a partire dai racconti dei reduci. La “bella impresa” delle truppe di conquista italiane è raccontata da Alessio Lega nell’introduzione alla sua recentissima canzone (interpretata assieme a Guido Baldoni). Alessio Lega, che la presenta da non molto durante i suoi concerti, è solito introdurla nel modo che segue:

“ Quando poi quel popolo cominciò, come succede a ogni popolo che si vuole ribellare, a costruire una guerriglia che i conquistatori chiamano sempre “terrorismo”, ecco che addirittura il massacro divenne indiscriminato. Quando, ad esempio, nella città conventuale di Debra Libanòs, dove si rifugiavano, come sempre si rifugiavano nelle chiese come avviene anche qui, la popolazione, la decisione fu di ammazzare, di fucilare tutti, compresi ovviamente i monaci, copti, che non erano nemmeno…e lì si è iniziata una bella tradizione di tagliare la testa ai capi guerriglieri, a metterla sulle picche e a farla viaggiare nelle scatole di cioccolatini di villaggio in villaggio. Quando oggi altre carogne mettono le teste sulle picche, vorrei che rivendicassimo questo primato italiano…cioè, anche all’Expo dovrebbero dirlo: eh, lo abbiamo inventato noi! Cioè, non è che ci possono rubare così le grandi idee italiane come mettere la testa sopra le picche. Sull’Amba Aradam, a un certo punto, fu identificato in una grotta un gruppo di resistenti che ormai erano ridotti a donne, vecchi e bambini. Per stanarli fu usato il terribile gas all’arsina, un gas all’yprite che al contatto con l’ossigeno si incendia. Su quelli che riuscivano a scappare da quelle montagne, da quelle grotte, fu fatto il tiro al piccione. Ma noi siamo italiani, ci siamo sempre comportati da brava gente, anche quando siamo andati a colonizzare lo abbiamo fatto per costruire strade e ospedali, questo si sa…non vogliamo riconoscere l’orrore che abbiamo seminato e così, cosa avremo mai fatto? Abbiamo fatto un ambaradan! Quando, ogni volta che entriamo in un posto disordinato, diciamo: “Che ambaradan che c’è qui!”…è un po’ come se un tedesco entrasse in casa mia e dicesse: “Però, che Auschwitz che c’è qui!”

Alessio Lega dice diverse cose che, naturalmente, non vorremmo sentirci dire. Ancora adesso, dopo quasi ottant’anni, tra gli italiani è sempre diffuso il falso mito della “brava gente”: ma sì, dai, si andava a fare la guerra, a aggredire un popolo, a massacrarlo e a sterminarlo con le armi chimiche, però poi si costruivano scuole, strade, ospedali… tant’è che, ad esempio, al massacro dell’Amba Aradam, è stata dedicata persino un’importante strada di Roma:

viaambaradam

Poiché Alessio Lega, assai giustamente, fa nella sua introduzione un riferimento al fatto che sarebbe come se un tedesco, vedendo un ambiente confusionario, dicesse “Ma che Auschwitz che c’è qui!”, si potrebbe a questo punto immaginare, che so io, una via di Berlino intitolata a Marzabotto o al Ghetto di Varsavia; ma, del resto, siamo il paese in cui recentemente si inaugurano monumenti a Rodolfo Graziani, e quindi è tutto normale. Nella “rossa Firenze”, un’importantissima e lunga strada è dedicata a padre Reginaldo Giuliani, il “cappellano delle Camicie Nere” che partecipò con grande entusiasmo alla guerra abissina e che ci lasciò le penne, dopo avere preso parte alle azioni squadriste, alla Marcia su Roma e all’impresa di Fiume. La lunga strada è sempre lì, come via Amba Aradam a Roma.

Sull’altopiano dell’Amba Aradam
ci siamo solo sporcati le mani
abbiamo fatto solo un po’ di ambaradan
noi brava gente, noi tanto italiani.

Così come Alessio Lega, nella sua introduzione, nomina il massacro del santuario di Debra Libanos, dove i nostri bravi italiani massacrarono senza pietà chi vi si era rifugiato, in barba alla secolare tradizione che vuole risparmiata la vita a chi si rifugia in una chiesa. Per fare le cose ammodino, i “nostri” massacrarono anche 297 monaci copti, e anche qui dovremmo rivendicare una nostra “eccellenza”, un primato storico: altro che ISIS, che di copti ne ha massacrati “soltanto” ventuno su una spiaggia in Libia. Senza peraltro che, allora, nessun sommo pontefice si accorasse tanto per il “massacro di cristiani”; ci sarebbe piaciuto che papa Francesco avesse ricordato quando i copti li massacravamo allegramente noi, e non i tagliagole islamici.

Sotto le grotte dell’Amba Aradam
c’erano donne coi vecchi e bambini
sopra le grotte dell’Amba Aradam
arrivano i nostri soldatini.

Col gas d’arsina e le bombe all’iprite
fanno saltare con i lanciafiamme
bravi cristiani che fanno le ferite
nel sacro cuore di tutte le mamme,

di mezzo migliaio di monaci copti,
di mezzo milione di negri ammazzati,
butta la pasta che sono tutti morti,
faccetta nera ora è cotta e mangiata.

Storie di tempi passati, si dirà. Mah, mica tanto. Alessio Lega ha infatti pensato bene di terminare questa sua canzone con un paio di riferimenti all’attualità; la quale, a pensarci bene, si manifesta sempre come ottant’anni fa, persino con lo stesso fascismo. Se nelle nostre città ci sono le strade dedicati ai preti camicie nere e ai massacri abissini, quante ce ne sono di dedicate ai “caduti di Nassiriya”, che erano là a fare la guerra per difendere interessi petroliferi dell’ENI (e va detto che ‘sta storia di Nassiriya sembra avere parecchio sviato anche degli insospettabili, quasi fosse un tabù indicibile riportarla alla sua vera natura), per non parlare dei “nostri marò” -ai quali vie non sono state ancora dedicate, ma che sono un cavallo di battaglia di tutte le tante destre italiane a partire da quelle classiche per andare a finire al PD. Ma, del resto, i “nostri marò” (sempre ricordando che il termine “marò” fu coniato da Junio Valerio Borghese per i membri della sua X MAS) altro non hanno fatto che rinverdire un’italica tradizione: quella di fucilare persone inermi nel loro paese, per poi essere esaltati come “eroi”. La chiusa di questa canzone di Alessio Lega lo fa squisitamente presente, e è possibile ipotizzare che la cosa non verrà presa benissimo quando la canzone, che è molto recente, verrà un po’ più conosciuta. Dal nostro canto, noialtri, che siamo un sito parecchio recalcitrante per non dire riottoso, contribuiamo volentieri e fin da subito alla diffusione di questa canzone, proponendone anche un video registrato sabato 16 maggio 2015 a Bologna, durante l’iniziativa “Una montagna di libri contro il TAV” organizzata dal centro sociale VAG 61 (che si trova in via Paolo Fabbri, la stessa via di Guccini, ma al numero 110). Una canzone piena di storia rimossa e di attualità mistificata la quale, del resto, alla storia rimossa si rifà precisamente:

Che cosa mai vorrà dire “ambaradan”?
Colonialisti più bravi e più forti
abbiam portato le strade nel deserto
per il grande viaggio di tutti quei morti.

L’Amba Aradam è la macchia dell’oblio,
è il monumento a Rodolfo Graziani,
i gagliardetti di Nassiriya,
sono i due marò che fucilano gli indiani.

Posted in Canzoni | Tagged "Nostri marò", Alessio Lega, Armi chimiche, Copti, Etiopia, Guerra d'Abissinia, Rodolfo Graziani

Piero dei Fossi

By Antiwar Songs Staff on 19 Maggio 2015

piciampi

È forse la prima volta in questo sito che la vera introduzione a una canzone viene affidata piuttosto al blog che alla pagina che la contiene e, in fondo, non ve n’è nessuna precisa ragione. Del resto, di fronte a Piero Ciampi, alla sua vita e alle sue canzoni è sempre bene non invocare troppe ragioni e troppa logica; anche perché chi scrive ha fin troppo ben presenti i luoghi della canzone, i Fossi, i Domenicani, i Bottini dell’Olio e tutto il resto. Abitava, sempre chi scrive, a pochi metri da dove Piero Ciampi era nato; e ha conosciuto pure lui certe lunghe, lunghissime notti briache e senza meta, concluse con due o tre ponci e micidiali panini al prosciutto e melanzane sott’olio alle cinque e mezzo di mattina a pochi metri da quell’Osteria dei Terrazzini, o Enoteca Mannari, dove un sei di marzo Piero fu, si dice, visto per l’ultima volta nella sua vita a Livorno. Quando ciò fu risaputo, ne nacque pure una canzone, intitolata appunto 6 Marzo, scritta da Alberto Cantone e dai Marmaja. Quando abitavo a Livorno, ogni sei di marzo l’oste dei Terrazzini organizzava una gigantesca frittura di pesce accompagnata da ettolitri di vino bianco; un anno, chi scrive ne bevve talmente tanto da far concorrenza diretta a Piero Ciampi e rotolò poi senza fiatare le scale del sottopasso della stazione di Livorno, davanti agli occhi di un amico che era venuto da Roma e che ora fa il meteorologo alla televisione. E che è stato anche uno dei primi ad ospitare, sul suo sito, la primitiva raccolta delle Canzoni Contro la Guerra del 2003; quando si dice delle strade che si incrociano. Come vedete, sto parlando di me stesso. Piero Ciampi fa anche di questi scherzi, e ora parliamo della canzone, che poi è una poesia. O della poesia, che poi è una canzone. Un altro degli scherzi combinati da Piero Ciampi, nato a Livorno il 28 settembre 1934 e morto a Roma il 19 gennaio 1980.

Un delizioso e solenne scherzo organizzato da Pino Bertelli, un altro anarchistaccio toscano, con la Ballata di Piero dei fossi. La Ballata, messa in musica da Massimo Panicucci, parla principalmente di due cose: di Livorno, e di Pino Bertelli. Parla di Pino Bertelli come parla di Riccardo Venturi, e di chiunque abbia avuto a che fare, direttamente o in sogno, con Piero Ciampi e con una Livorno che non è mai la città che si vede ora. Quando Livorno viene infilata nella Poesia, non ci possono essere troppa realtà; ci devono essere Piero Ciampi, Amedeo Modigliani, Angelo Froglia. Deve essere battuta da navi che portano nelle stive le mani mozzate di Víctor Jara e l’asma del Che Guevara, mentre i ‘Vattro Mori fanno i porci nelle cabine dei Bagni Pancaldi e Piero gioca al ciuco coi palombari, con la gentile partecipazione di un altr’òmo di mare, un genovese come genovese s’era fatto un altro poeta livornese, Giorgio Caproni:

Piero dei fossi
che giocavi con le carte al “ciuco” con i palombari
e i Quattro Mori nelle cabine svergognate dei Pancaldi
quando l’Amerigo Vespucci portava nella stiva

le mani tagliate di Victor Jara legate a un granello di sabbia
e l’asma libertaria di Ernesto “Che” Guevara, e un cantore
dei diseredati diceva che dai diamanti non nasce nulla
e dal letame nascono i fiori degli umiliati e degli offesi.

La Ballata di Piero dei fossi è quindi un giro per la Livorno che non c’è, che però è anche l’Isola che c’è e lo è in ogni momento della sua storia. La città dei novantuno bombardamenti subiti a partire dal 28 maggio 1943, quando anche Piero Ciampi dovette sfollare con la famiglia per ritrovare quella Livorno rasa al suolo del Dopoguerra, che rappresenta il tempo sospeso delle sue canzoni, allungato fino alla metà degli anni ’70. Diceva Piero Ciampi che Livorno era la città più difficile; come dargli torto. E, così, Pino Bertelli si getta a capofitto in questa difficoltà, che è la difficoltà del vivere e anche il resoconto stesso degli antidoti forniti dalla luce della Poesia e, why not, da litrate di vinaccio che prima o poi ti spediranno al creatore.

È la stessa vita dei ragazzi di borgo che si vendevano sul viale Carducci, dei pazzi, delle corse dei cavalli, del gioco, dei calendarietti dei barbieri con le donne gnude, e dei modi in cui tutto questo, passando attraverso il genio disperato di un uomo magro, esile, altissimo e briaco dentro a un fosso, viene trasformato in Poesia. Ma, si faccia attenzione: non una Poesia fine a se stessa, non uno sciorinare di lirismi senza scopi precisi: lo scopo, precisissimo, di Piero Ciampi, va sotto il nome di Libertà, totale, assoluta, senza compromessi.

Piero dei fossi
è lì che è stata abolita la tortura e la pena di morte
è lì che ogni esule o errante ha il suo cimitero di rose
e ogni eretico evangelico la sua isola incantata che c’è

lì dove anche i lebbrosi hanno avuto un padre
lì dove ogni uomo trovava un tetto di rosse speranze
quando le barricate erano di carretti, tavoli e letti
e le donne giocavano a nascondino nel bosco coi soldati.

Ed è così che la Ballata sembra assumere il tono di un’apologia e, forse, anche quello di una specie di agiografia; ma è soltanto un modo per mettere chiunque di fronte al disassamento che coglie quando Piero Ciampi (anche conoscendolo direttamente per una sola breve notte, come Pino Bertelli stesso racconta) ti irrompe addosso in modalità non superficiali. Per questo Piero Ciampi è sempre stato infinitamente più pericoloso di tanti solforosissimi versificatori e cantori più direttamente “politicizzati”; e il pericolo che ha espresso traendolo da se stesso e da una situazione sociale, personale e collettiva, che viveva in ogni momento sulla sua pelle, è stato probabilmente la causa principale della sua sconosciutezza, della sua emarginazione, del suo dimenticatoio dal quale fatica tuttora a uscire. Troppo libero per essere noto. Troppo incazzato. Troppo fragile. Troppo adolescente, e viene a mente non di rado il ragazzino di Charleville. Troppo briaco lui di persona, troppo ladro e troppo puttana mentre altri facevano i soldi cantando di briachi, ladri e puttane. Troppo tutto. Troppo Piero Ciampi; e di tutti questi troppi parla la Ballata di Pino Bertelli, uno che ha capito.

Proporla qua dentro? Si è proposta da sola, con la sua Livorno dopoguerresca, con la sua Anarchia, con la Storia e con la Geografia che racconta. Forse anche per questo ho preferito parlarne più compiutamente non direttamente sulla pagina; e, come sempre mi accade, ho piuttosto affidato l’oceano di cose che mi percorrevano ad una traduzione.

Piero Ciampi, chissà, avrebbe forse preferito che una canzone che parlava di lui fosse tradotta in francese, lingua che conosceva e che rappresentava per lui, anzi, una parte della sua vita e della sua cultura poetica. Ho scelto, però, di tradurla in inglese; un po’ perché mi è venuto di far così, e un po’ per una qualche ingenua voglia di “diffondere”. Tradurre un testo come questo in una qualsiasi lingua è comunque una follia totale; ne è venuta fuori questa cosa. Ci ho messo quasi una settimana a farla, non occupandomi praticamente di altro ed assumendo presto la facies del traduttore disperato. Ma tanto dovevo a Piero Ciampi, a Pino Bertelli, e a Livorno. Quella città che si fa sempre inventare assieme alle vite di chi ci è nato o vissuto. Si diffidi sempre da chi intende “raccontare” Livorno, perché per raccontarla sul serio occorre trasfigurarla; e per trasfigurarla ci vuole parecchio, parecchio vino.

Ed è così che Piero dei fossi ci parla. Anni fa, abitando oramai molto lontano da Livorno e in un luogo parecchio differente oltre che distante, organizzai persino la sua Resurrezione; ma non ce n’è alcun bisogno. Piero Ciampi è vivo e trinca assieme a noi e anche ar tegame di tu’ mà. Talmente pierociampi, che in mezzo a tutto il suo vino, com’è bello il vino, bevo un litro molto amaro e sono dentro un’osteria eccetera, nell’unica sua foto conosciuta dove beve qualcosa si sta tracannando una bottiglietta di birra.

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Riccardo Venturi.

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302.0

By Antiwar Songs Staff on 17 Maggio 2015

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Questa canzone è dedicata all’Organizzazione Mondiale della Sanità, è una canzone sulla medicina e riguarda una malattia la cui classificazione secondo la Classificazione Internazionale è 302.0.

Con queste ironiche parole, alla fine degli anni ’70, la Tom Robinson Band introduceva una trascinante canzone intitolata Glad to be Gay. La dedica introduttiva si riferisce al fatto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità fino al 1990 ha compreso l’omosessualità nella classificazione internazionale delle malattie.

Il pezzo, un vero e proprio inno scritto in occasione del gay pride del 1975 a Londra, se la prende con la violenza della polizia, che amava (e ama ancora spesso) accanirsi contro i gay e che negli anni 60 e 70, in particolare, aveva mano libera nei raid contro i loro luoghi d’incontro grazie al “1967 Sexual Offences Act” in base al quale l’omosessualità, tollerata come fatto privato, era criminalizzata se manifestata pubblicamente.

La polizia inglese è la migliore del mondo
non credo neanche a una di quelle storie che ho sentito
di quando hanno fatto irruzione nei nostri pub senza ragione
e hanno messo i clienti in fila al muro
hanno scelto gente a caso e li hanno spinti a terra
a resistere all’arresto distesi mentre li prendono a calci
hanno perquisito le loro case chiamandoli froci
Non penso proprio che cose del genere accadano qui

La canzone prosegue con un attacco all’ipocrisia di una società dove fiche e tette già occhieggiavano ad ogni angolo ma guai ad un nudo maschile… e, per giunta, se una donna nuda campeggiava in prima pagina, era facile che l’editoriale contenesse un attacco omofobico (vedi “The Sun”). Inutile dire che in una società dove l’omofobia viene istituzionalizzata, ogni “buon” cittadino si senta in dovere di pestare a sangue il primo “frocetto” che incontra… L’ultima strofa contiene un invito al “coming out” e alla lotta, un attacco ai pavidi, ai gay “mimetici” che per paura e per quieto vivere non si dichiarano e assistono senza fare nulla alle violenze e alle prevaricazioni subite da coloro che invece si espongono.

Allora siediti tranquillo a guardare mentre chiudono i nostri club
ci arrestano perché ci incontriamo e fanno irruzione in tutti i nostri pub
Assicurati che il tuo ragazzo abbia almeno ventun anni
Menti ai tuoi colleghi e racconta frottole alla tua gente
..

Nel 1978 “Glad to Be Gay” si piazzò al 18° posto della classifica dei singoli dopo solo una settimana dalla sua uscita, ma la BBC rifiutò di includere la canzone nella UK Top 40 Singles Chart.

Oggi è la giornata mondiale contro omofobia e transfobia, istituita nel 2005 proprio in occasione del quindicesimo anniversario della rimozione dell’omosessualità dalla lista delle malattie da parte dell’OMS. Vi invitiamo a visitare la nostra sezione intitolata l’ amore contro la violenza dei pregiudizi dove raccogliamo le canzoni contro la guerra ai “diversi”, e agli omosessuali in particolare, combattuta con rinnovato furore da molti eserciti – in primo luogo gli “eserciti” fedeli al Vaticano – anche nella “civile e democratica” Europa.

Posted in Canzoni, Percorsi | Tagged Omofobia, Tom Robinson

Grooveshark ha chiuso

By Antiwar Songs Staff on 12 Maggio 2015

grooveshark

Grooveshark, il popolare sito di streaming musicale che permetteva di ascoltare milioni di canzoni online ha deciso di chiudere dopo le numerose minacce di denunce da parte delle case discografiche.

Anche il nostro sito aveva offerto la possibilità di ricerca automatica delle canzoni su grooveshark, purtroppo tutti i link per ascoltare le canzoni che utilizzavano questo servizio sono inutilizzabili.

Nei prossimi giorni toglieremo la possibilità di ricerca automatica su grooveshark (ormai inutile)  dalla nostra interfaccia e cercheremo di togliere dalla lista delle canzoni ascoltabili quelle che hanno solo link a grooveshark. Per fortuna altri servizi di questo tipo, ad esempio goear funzionano ancora…

La battaglia delle major per impedire l’accesso gratuito alla musica continua, ma secondo noi sono i colpi di coda di un modello di commercializzazione della musica ormai obsoleto. Le case discografiche dovranno necessariamente fare i conti con la rete e prima o poi saranno costrette ad arrendersi ai tempi che stanno cambiando.

Voi non potete fermare il vento
gli fate solo perdere tempo.
..

 

Aggiornamento: il “nuovo grooveshark” era probabilmente un falso, solo un altro sito di ricerca di mp3 e comunque è stato chiuso a sua volta.

Posted in Infrastruttura Web | Tagged Case discografiche, Copyright, Goear, Grooveshark

Il Nuovo Bella Ciao

By Antiwar Songs Staff on 7 Maggio 2015

Bella ciao

Sono note le controversie suscitate dai versi di “O Gorizia tu sei maledetta” mezzo secolo orsono (era il 1964) nel corso dello spettacolo messo in scena dal Nuovo Canzoniere Italiano per il Festival dei Due Mondi di Spoleto.

[Michele Straniero], avendo sostituito nell’esecuzione di O Gorizia tu sei maledetta Sandra Mantovani, vittima di un abbassamento di voce, cantò infatti una strofa non prevista (Traditori signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta/ scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù) che suscitò in sala la reazione di un ufficiale e di talune signore impellicciate, mentre nelle serate successive lo spettacolo sarebbe stato costantemente disturbato da gruppetti di fascisti. Quello scandalo al centro dell’interesse giornalistico per oltre una settimana sarà peraltro il miglior lancio per I Dischi del Sole, che potenziano così la loro presenza politico-culturale nel paese.

(Cesare Bermani, da A – rivista anarchica)

Quel “Bella Ciao” curato da Roberto Leydi e Filippo Crivelli su proposta di Nanni Ricordi, su testi di Franco Fortini con un cast composto da Caterina Bueno, Maria Teresa Bulciolu, l’ex-mondina Giovanna Daffini, Giovanna Marini, Sandra Mantovani, Silvia Malagugini, Cati Mattea, il Gruppo Padano di Piàdena, Michele L. Straniero, Gaspare De Lama, portò sul palco borghese del Teatro Caio Melisso canti e musiche di contenuto politico, amoroso, religioso, ballate, strambotti licenziosi, canti di lavoro, di carcere, di emigrazione, rivelando la presenza del mondo popolare.

Pubblicato l’anno successivo, il disco “Le Canzoni di Bella Ciao” consacrò un duraturo stile di riproposta del folk, che era stato preceduto dall’esperienza torinese del Cantacronache e dalle ricognizioni di Lomax e Carpitella. In occasione del cinquantenario dello spettacolo originale, nasce l’idea di uno spettacolo (originariamente un’unica rappresentazione l’11 giugno presso la Camera del Lavoro di Milano) e di un Convegno di studi all’Università Statale, che ridiscuteva quell’importante tappa della storia culturale del nostro Paese. Dalla data unica si è passati a una serie di concerti che nello scorso aprile hanno attraversato città del Nord e del Centro (per l’estate è già previsto un altro tour, che prevede, tra  le altre date, il 23 giugno a Ravenna Festival, il 14 agosto a Concerti nel parco a Roma, il 9 ottobre a Reggio Emilia) ed è stato realizzato il disco “Bella Ciao”, pubblicato da Materiali Sonori.

Per una dettagliata recensione e intervista con i protagonisti del nuovo “Bella ciao” rimandiamo al completissimo articolo su Blogfoolk (da cui abbiamo ripreso questa introduzione). Segnaliamo qui la scaletta del disco in uscita con i link alle canzoni presenti sul nostro sito:

La Lizza delle Apuane
Bella Ciao (delle mondine)
Bella ciao (partigiana)
Povere filandere
Tutti mi dicon Maremma
Porta Romana
Amore mio non piangere
Sant’Antonio a lu desertu
Son cieco e mi vedete
Cade l’uliva
La Lega
No mi giamedas Maria
Stornelli mugellani
Mia mamma veul che fila
O Gorizia
La mamma di Rosina
Addio a Lugano

Bella ciao ieri e oggi

Posted in Album, Anniversari | Tagged Alessio Lega, Bella ciao, Caterina Bueno, Elena Ledda, Franco Fabbri, Ginevra Di Marco, Giovanna Daffini, Giovanna Marini, Lucilla Galeazzi, Riccardo Tesi

Y el canto de todos, que es mi propio canto

By Antiwar Songs Staff on 6 Maggio 2015

Violeta

Gracias a la vida è forse il più bell’inno alla vita in forma di canzone che sia mai stato scritto al mondo, quindi sarebbe già di per sé una canzone contro la guerra.

Può essere che sia una delle dieci canzoni più famose di tutti i tempi, e del tutto giustamente. È, del resto, una canzone che dice già tutto da sé, e una canzone che va diritta dentro ad ognuno di noi.

Fu scritta nel 1965 per una delusione d’amore; ed all’oggetto di quella delusione, Gilbert Favre, Violeta Parra volle comunque dedicarla per ringraziare la vita. Nel 1966 Violeta la incise a Santiago, accompagnata dai figli Ángel e Isabel; fu poi inserita nell’album intitolato Las últimas composiciones. Il 5 febbraio 1967 l’autrice di questo stupendo inno alla vita si suicida nel suo tendone da circo.

Non fu una canzone molto nota fino al 1971, quando l’argentina Mercedes Sosa, la Voz de América, la incise contribuendo a renderla notissima prima in Cile, e poi in tutto il mondo.

Con il golpe fascista di Pinochet, nel 1973, divenne praticamente un inno internazionale contro la dittatura, dato che è precisamente in quest’ottica che molta della sua fama planetaria deve essere letta: un inno alla vita contro la morte.

Nel 1974 venne incisa da Joan Baez, da Herbert Pagani, da Gabriella Ferri (anche lei morta suicida) e dalla finlandese Arja Saijonmaa, che la ha cantata sia nella sua madrelingua che in svedese. Questa versione era la canzone preferita dal primo ministro svedese Olof Palme socialdemocratico pacifista misteriosamente assassinato nel 1986.

Posted in Canzoni | Tagged Cile, Joan Baez, Mercedes Sosa, Violeta Parra

Rizitika

By Antiwar Songs Staff on 19 Aprile 2015

rizzitica

Nel 1971 il genio del musicista Yannis Markopoulos incontrò Nikos Xylouris, che del rizitiko, il canto tradizionale cretese delle “pendici” (ρίζες) delle alte montagne, era il massimo interprete vivente con la sua lira. Ne nacque un album storico, e non solo a Creta o in Grecia: Rizitika.

psaronikosxyl

Era un album contenente undici brani (nove canti e due strumentali) della più antica tradizione popolare cretese, arrangiati e orchestrati con estremo rispetto da parte di Markopoulos e interpretati (o eseguiti alla lyra, di cui era il massimo virtuoso) da Psaronikos Xylouris (nella foto sopra assieme al fratello Andonis). Solo con grande ritardo i Ριζίτικα sono stati strutturati in modo adeguato all’interno del sito, e integrati con quelli mancanti (l’inserimento del primo, Αγρίμια κι αγριμάκια μου, risale addirittura al 1° settembre 2007):

“- O mie bestie selvatiche,
miei cervi ammansiti,
ditemi, dove sono i posti dove state,
dove sono le vostre tane?

– I dirupi sono i posti dove stiamo,
le alte cime sono le nostre tane,
le anguste grotte della montagna
sono le nostre dimore.”

Si può dire che questa sia la prima “grande pagina” della Sezione Greca (Ελληνικό Τμήμα) di questo sito che sia stata costruita dopo la scomparsa di Gian Piero Testa, a cui la Sezione è stata intitolata; a differenza di come era solito fare Gian Piero, che costruiva le sue pagine in modo unitario (inserendo, cioè, tutti i brani in un’unica pagina), qui è stata costruita una pagina per ogni brano, con gli opportuni rimandi e link. Non cambia però minimamente la sostanza; quel che, purtroppo, invece cambia per forza di cose è la mancanza di interazione con Gian Piero, il cui livello di conoscenza non solo della canzone e della musica di Grecia, ma dell’intera sua cultura e letteratura artistica e popolare era semplicemente inarrivabile.

Dell’essenza dei Ριζίτικα proposti da Markopoulos e Xylouris (e in parte eseguiti ancora dal fratello di Nikos, Andonis Xylouris “Psarandonis”) si parla meglio in alcune introduzioni ai singoli brani; in parte canti di lotta e resistenza e in parte brani di altra natura (ma comunque riconducibili sempre a una tradizione dalle quale emergono le dure condizioni di vita di una società arcaica), il loro insieme, così come strutturato e arrangiato dagli autori, era rivolto al presente. 1971. I grandi poeti greci esiliati o ridotti al silenzio si servono regolarmente della mitologia come metafora (Seferis e Ritsos in primis); ma una metafora sempre chiarissima e inoppugnabilmente diretta contro l’oppressione. Il fatto di riproporre antichissimi canti di lotta e di resistenza intendeva mettere in chiaro la vera natura della tradizione greca; e non è un caso che almeno due dei rizitika presenti nell’album erano stati anche canti della Resistenza armata antifascista durante l’Occupazione, dopo esserlo stati della Resistenza antiturca nei secoli passati. È il caso di quello che è il più antico dei canti presenti nell’album, Ο Διγενής [O Digenis], risalente in ultima analisi alla tradizione dei guerrieri Acriti del XII secolo e dei loro canti che rappresentano gli albori della letteratura neogreca. Tale canto, che fece parte di quelli della Resistenza antiturca del XVIII e XIX secolo, fu intonato anche dai partigiani greci durante l’occupazione nazifascista:

” Digenis agonizza
ma la terra ne ha paura
e trema la pietra tombale:
come farà a coprirlo?
Ché nel guardarla
dice parole di valoroso:

Magari la terra avesse scale
e il cielo maniglie
per farmici salire
e farmici aggrappare,
per ascendere al cielo,
per mettermici a sedere
e per farlo tremare! “

E non è un caso che lo stesso Xylouris prese proprio il rizitiko con cui si apre l’album, il terribile Πότε θα κάνει ξαστεριά, per dare sostegno e incitamento agli studenti del Politecnico ateniese in rivolta, nel novembre del 1973.

xylopoly

Riproponendo questa tradizione secolare, Markopoulos e Xylouris giocarono una terribile beffa alla Hounta che cianciava e blaterava di “tradizione ellenica” quando l’unica sua autentica tradizione era quella dei servi. E, andando al Politecnico insorto a cantare Pote na kanei xasterià, Xylouris volle indicare chiaramente chi egli considerasse i veri portatori della tradizione di libertà della Grecia: gli studenti antifascisti. Per questo motivo, e anche nei brani che apparentemente sembrano meno collegati a tutto questo, i Ριζίτικα sono un’opera fondamentale nella Resistenza alla dittatura. Come tale, è stata inserita integralmente.

Posted in Album | Tagged Grecia, Nikos Xylouris, Politecnico 1973

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