Antiwar Songs Blog

il Blog delle Canzoni contro la guerra

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La Grecia è in svendita

By Antiwar Songs Staff on 8 Novembre 2013

Riceviamo dall’amico Gian Piero Testa di ritorno da Atene:

Non che proprio me lo meritassi in forma tanto ampia: ma i miei antichi sodali greci, Babis, Litsa e Thanassis, con grandi fatiche e spese hanno voluto dedicarmi una giornata di festeggiamenti, cui hanno preso parte più di cinquanta dei loro amici, solo perché da parecchi anni nella mia modesta cerchia di conoscenze cerco di rivelare un’immagine del loro Paese meno frettolosa e superficiale di quella che generalmente abbiamo noi Italiani.

Presentazione GPT

Domenica scorsa, 3 di novembre, una piccola folla di persone che mi vedevano per la prima volta mi ha accolto con un calore e una riconoscenza tali da produrmi una commozione mai provata prima. E pensare che di anni sul groppone ne ho ormai in sovrabbondanza. Il diletto che traggo dalla mia occupazione preferita, che consiste nel tradurre per me stesso e per gli amici i poeti neogreci la cui opera ha incontrato i musicisti, ha fatto di me un “filelleno”, degno – secondo una nobile e ancor viva tradizione – del loro affetto.

Ho approfittato per rivedere, dopo troppi anni di assenza, l’Atene di oggi. Una città che si mostra assai più moderna e “capitale” di quanto l’avessi conosciuta, prima delle Olimpiadi del 2004. Le metropolitane la rendono percorribile quasi in ogni senso; le vie e le aree pedonalizzate si sono moltiplicate; il museo dell’Acropoli è un gioiello e un modello che da solo merita il viaggio. Si possono bellamente godere i risultati dell’enorme sforzo che la Grecia ha compiuto nell’ultimo decennio, fino a sfiancarsi e precipitare nella situazione nella quale adesso versa. Perché i Greci (io non frequento, ovviamente, i ceti elevati) hanno altro da pensare, invece di godersi la “òmorfi poli” nella quale vivono riesumando astuzie di sopravvivenza dei tempi di guerra. Io non li ho potuti visitare, ma mi dicono che gl’impianti olimpici, che portano anche la firma di Calatrava, stanno decadendo perché mancano i denari per l’ordinaria manutenzione. I musei e i siti archeologici hanno orari ridotti, perché il personale è stato tagliato per ordine della Troika. I prezzi di quasi tutte le merci e dei servizi sono precipitati, al punto che quasi mi vergognavo di approfittarne chiedendo la riduzione accordata agli anziani: ma ciò non costituisce affatto un guadagno, perché l’euro domina, e con quella stessa moneta i Greci devono procurarsi ciò che ci vendono a prezzi irrisori. All’ Archeologico, se si è anziani come me, si può vedere il Poseidone dell’Artemisio spendendo 3 euro 3. I parcheggi dei taxi, un tempo sempre vuoti, perché le vetture stavano sempre in movimento, ora traboccano e formano nelle piazze deprimenti macchie gialle. Non solo è colpa del metrò, che funziona bene e ti fa liberamente circolare un’intera settimana con solo 14 euro: è che non ci sono soldi per la benzina e neppure per una corsa in un’auto pubblica. L’autostrada per Corinto e Patrasso, sulla quale un tempo c’era da impazzire, è percorsa da (pochi) camion e furgoni. Di automobili quasi non se ne vedono. E potrei continuare. La Grecia è in svendita.
In una settimana, mentre mi trovavo ad Atene, ne sono successe di cose. Un eccidio di oscuri militanti nazifascisti eseguito con tecnica mafiosa davanti a una sede periferica di Alba Dorata, che ha ridato fiato a quei bastardi e ai poliziotti che li coccolano. Uno sciopero generale che prometteva fuoco e fiamme, ma che si è spento sotto gli improvvisi acquazzoni di mercoledì. Una visita della Troika, che ha accordato al ministro dell’Economia un quarto d’ora di colloquio: colloquio che si è concluso con le parole di uno dei “visitor”: “E adesso non vada a dire fuori di qui che addolcirete le misure, perché semplicemente le misure le applicherete”.
Si tratta, “semplicemente”, di togliere il lavoro ad altre 12.000 persone da qui a febbraio.

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Hip-Hop generation

By Antiwar Songs Staff on 8 Novembre 2013

Tomas-Young-army-veteran

La generazione degli anni 80, che negli USA è chiamata “Hip-Hop generation” è quella che più di ‎ogni altra ha pagato il tributo di sangue nelle guerre in Afghanistan e in Iraq. Certo, si può dire che ‎fossero (e siano ancora oggi) tutti volontari i soldati statunitensi che decidono di andare a ‎combattere laggiù, ma molto spesso si tratta di giovani non abbienti, ricattati col miraggio di ‎ottenere la cittadinanza americana (se immigrati) o di vedersi pagati gli studi al rientro dal servizio ‎militare. E invece tanti di loro, imboniti da proclami stantii e da menzogne (“un’opportunità per ‎girare il mondo, per costruirsi un futuro”, “un’occasione per rendersi autonomi e quindi liberi”, ‎‎“non siamo in guerra, portiamo la pace e la libertà a chi non ce l’ha”) sono poi tornati a casa in una ‎busta di plastica avvolta dalla bandiera a stelle e strisce oppure mutilati o ancora pazzi o anche ‎malati per via dell’uranio impoverito…‎

Somebody better ask somebody that
The people that’s most affected, by this war
Are the so-called hip-hop generation

Paris – A.W.O.L.

Avrebbero fatto meglio – è la considerazione finale del brano dei Paris – a diventare “C.O.” (obiettori di ‎coscienza), “A.W.O.L.” (Absent WithOut Leave, disertore)…‎
Perché la guerra non è altro che dolore.‎

I guess I should have been a C.O., and kept up a file
Shoulda listened when my homies said we murder for oil
Now I’m fuckin with this wheelchair, ain’t nuttin the same
And I’m knowin confrontation’s mo’ than video games
War is pain

Nella foto: Thomas Young, veterano della guerra in Iraq, costretto sulla sedia a rotelle.

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Consigli alle ragazze

By Antiwar Songs Staff on 7 Novembre 2013

Langonnet

E Parrez Langonned era una canzone tradizionale, nella quale si diceva che bisognava fare il servizio militare prima di pensare alle ragazze…io ho cambiato la canzone dicendo che le ragazze di Langonnet dovevano essere congratulate se cornificavano i ragazzi che partivano per il militare.

Alan Stivell

I viaggi hanno avuto fine,
il mio tempo era terminato
e sono tornato al paese
dopo finito il servizio

L’usignolo si levava
e cantava una melodia,
ritrovata la Bretagna
ero arrivato a casa.

La prima che ho visto
era la servetta,
e le ho domandato
di avvertire la mia ragazza

“È là nella grande sala
con tutta la gioventù,
dei suonatori la aspettano
per andare in chiesa.”

Quando ho sentito questo
sono rimasto stupefatto,
son corso all’altro capo del paese
e là l’ho vista

Avete capito, compagni
e vi do un avvertimento:
se volete essere traditi
andate a fare il militare

E vi faccio i complimenti
a tutte voi, ragazze
che fate cornuti i ragazzi
che vanno a servire la Francia!

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Quattro Novembre. Noi non applaudiamo.

By Antiwar Songs Staff on 4 Novembre 2013

Grazie de che?

Grazie Ragazzi. Così lo spot del ministero della Difesa che ci presenta la passerella di eroi rientrati dalle “missioni di pace” osannati dalla folla. La realtà è ben diversa. Il quattro novembre si potrebbe forse festeggiare non le forze armate ma la fine di uno dei più terribili massacri della storia dell’umanità, quella che persino un papa definì un'”inutile strage” (mentre quelle perpetrate qualche tempo dopo dai franchisti protettori della fede furono invece stragi utili, ma questa è un’altra storia). Sembra invece di essere rimasti ai tempi dei comunicati ufficiali, della vuota retorica dei bollettini della vittoria.

Per quanto ci riguarda piuttosto che applaudire i loro ragazzi di ritorno dall’Afghanistan e pronti a essere schierati contro i temibili talebani della Val di Susa preferiamo celebrare il contadino ventiduenne che nel 1918 scrisse:

Per andare a casa dovremo fare così: abbandonare le armi e andarcene; e agli ufficiali che ce ne chiedessero ragione rispondere che si agirebbe così per ordine di noi stessi; e se volessero fare qualche cosa sarebbe facile metterli a posto.

Ammesso “in pubblica udienza” il fatto a lui addebitato, fu condannato a morte.

Oggi un presidente quasi novantenne andrà a fare il suo consueto esercizio di retorica davanti alla tomba di un ragazzo mandato a morire per un pezzo di terra, e al quale hanno tolto anche il nome. Gli dedichiamo due canzoni.

Così oggi sei il milite ignoto,
morto in guerra nessuno sa come,
dopo averci lasciato la pelle,
c’hai rimesso per sempre anche il nome.

Ma non sarai certo ignoto ai compagni,
che con te avran lavorato,
non sarai certo ignoto alla donna,
che ti avrà ogni notte aspettato.

Non sarai certo ignoto agli amici,
che ti avran dedicato le sere,
nel ricordo dei tempi felici
in cui potevano offrirti da bere.
Come sei invece ignoto a quelli,
per cui tutto ciò è stato un affare,
che cantando siam tutti fratelli,
ti ricordano intorno a un altare.

(Claudio Lolli)

Non mi ricordo in quale guerra
in quale cielo in quale mare
o forse era un palmo di terra
che io dovevo conquistare.
Una bandiera sventolava
ma non ricordo più il colore
quel giorno mi toccò morire
non mi ricordo più per chi.
Ricordo solo il mio primo amore
ch’era lontano ad aspettare
e che piangeva lacrime amare
il giorno ch’io partii per non tornare più.

(I Gufi)

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Una storia sbagliata

By Antiwar Songs Staff on 1 Novembre 2013

Pasolini

Ma quella notte volevo parlare
la pioggia il fango e l’auto per scappare
solo a morire lì vicino al mare
ma quella notte io volevo parlare
e non può, non può, può più parlare
non può, non può, può più parlare.

Giovanna Marini, Lamento per la morte di Pasolini

Nella notte tra il 1º novembre e il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini venne ‎brutalmente assassinato all’idroscalo di Ostia. Il suo omicidio rimane ancora una delle tante pagine ‎oscure della Storia d’Italia.‎
‎“…Ogni giorno vengono assassinati, aggrediti, ‘suicidati’ decine e decine di omosessuali, dal nome ‎sconosciuto e che finiscono perciò solo nella cronaca nera. Noi omosessuali infatti siamo sempre ‎stati solo ‘cronaca nera’. Il nostro ambiente è ‘torbido’, ‘squallido’, e se qualcuno di noi ci rimette ‎la pelle, beh, è un finocchio di meno…”, così scriveva Angelo Pezzana, fondatore del FUORI, in ‎quei giorni su L’Espresso, e più o meno così riscriveva non molto tempo fa Franco Grillini, ‎presidente dell’Arcigay…‎

Ma sull’assassinio di Pasolini si sono fatte molte altre congetture, alimentate nel tempo da continue ‎nuove rivelazioni: furono i fascisti per via del suo film “Salò”, oppure furono i servizi segreti per ‎‎via delle trame di potere che Pasolini si preparava a rivelare in “Petrolio”, il libro che stava ‎scrive‎‎ndo?‎

Federico Zeri paragonò la morte di Pasolini a quella del Caravaggio, un artista sommo, un gigante, ‎ma un intemperante, un non allineato, un personaggio scomodo, considerato “fetido e putrido” dal ‎Potere e dai suoi sgherri ed accoliti, che lo annientarono…‎

Che si sia trattato dell’assassinio di un frocio – il cui ‎‎etimo fuggente ‎deriva comunque dalla guerra, dai “f(e)roci” Lanzichenecchi che nei loro “sacchi” si inchiappavano ‎femmine e maschi, o da “français/fronscè”, altri occupanti anche se dai modi un po’ più finicchi dei ‎mercenari tedeschi – oppure di uno dei tanti episodi oscuri dell’epoca della “strategia della ‎tensione”, in ogni caso crediamo che ‎‎una storia come questa, seppur ‎sbagliata, abbia tutta la dignità di stare sulla CCG/AWS.

È una storia da carabinieri
è una storia per parrucchieri
è una storia un po’ sputtanata
è una storia sbagliata.

Storia diversa per gente normale
storia comune per gente speciale
cos’altro vi serve da queste vite
ora che il cielo al centro le ha colpite
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite.

Fabrizio De André / Massimo Bubola, Una storia sbagliata

Come nasce una canzone? Direi che buona parte del senso e del valore della canzone sta prima di tutto nel suo titolo, cioè Una storia sbagliata, vale a dire una storia che non sarebbe dovuta accadere. Nel senso che in un clima di normale civiltà una storia del genere non dovrebbe succedere. E poi mi pare ci siano altri due versi che a mio parere spiegano meglio di altri il senso della canzone: “Storia diversa per gente normale / storia comune per gente speciale”. Laddove per “normale” si deve intendere mediocre e poco civilizzato e per “speciale” normalmente, civilmente abituato a convivere con la cosiddetta diversità. Mi spiego meglio: per una persona matura e civile direi che è assolutamente normale che un omosessuale faccia la corte ad un suo simile dello stesso sesso. E assolutamente normale anche che se ne innamori. Dovrebbe esserlo anche per il corteggiato eterosessuale che ha mille modi di difendersi senza ricorrere alla violenza. Purtroppo la cultura maschilista e intollerante di un passato ancora troppo recente, ed allora ancora più recente di quanto non lo sia adesso, e che definirei un passato ancora recidivo, ha fatto credere alla maggioranza che il termine normalità debba coincidere necessariamente con il termine intolleranza. Ecco, un altro aspetto tragico che abbiamo voluto sottolineare nella canzone per la morte di Pasolini è quello legato ad una moda purtroppo ancora adesso corrente, e che si ricollega anche lei al clima di ignoranza e di caccia al diverso. E cioè il fatto che della morte di un grande uomo di pensiero sia stata fatta praticamente carne di porco da sbattere sul banco di macelleria dei settimanali spazzatura e non solo di quelli. Il verso “È una storia per parrucchieri” vuol dire che è una storia che purtroppo la si leggeva allora e ogni tanto la si legge ancora oggi sulle riviste equivoche mentre si aspetta di farsi fare la barba oppure la permanente.

(Fabrizio De André)

Tra le tante canzoni dedicate a Pasolini ce n’è una, non molto famosa, interpretata dalla Casa del Vento con Ginevra Di Marco:

Che diresti della morale
Dei ricatti della religione
Che il piacere è un peccato è una colpa
E che è giusto solo un tipo di amore.

Che diresti se dopo trent’anni
Ti dicessi che è rimasto uguale
Sei ancora a volare.

[…]

Che diresti del potere di pochi
Che distrugge tutta la terra
Questo cielo che vomita fuoco
Civiltà che fabbrica guerra.

Il fiore del male

e in effetti ci sarebbe proprio da chiedersi che direbbe Pasolini del mondo di oggi.

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Born in The Usa. L’inno di chi non vuole omologarsi

By Antiwar Songs Staff on 1 Novembre 2013

bruce-springsteen-born-in-the-usa

Articolo di Alberto Crespi da L’Unita’ del 29/5/2004

Sono passati vent´anni e il “new world order”, il nuovo ordine mondiale, sembra cosa fatta. La citazione è rigorosamente di Bruce Springsteen, ma non è tratta da “Born in the U.S.A.“, il disco di cui ricordiamo il ventennale: viene da “The Ghost of Tom Joad”, un disco che di “Born in the U.S.A.” è il diretto discendente politico (anche se musicalmente si lega assai di più a “Nebraska”). Chissà se Bruce se lo sarebbe aspettato: lui, nelle canzoni, non fa mai dichiarazioni politiche “dirette”, anche se evocando lo spettro di Tom Joad (l´emigrante/bracciante/fuggiasco di “Furore”, libro di John Steinbeck e film di John Ford) aveva fatto chiaramente capire da quale parte stava. Dalla parte di chi cerca di attraversare il Rio Grande da Sud, per entrare nel Paese dei Balocchi (in un film sugli schermi in questi giorni, “The Day After Tomorrow” di Roland Emmerich, sono invece i “gringos” a tentare la traversata diretti a Sud, perché l´effetto-serra e il mancato rispetto del protocollo di Kyoto rischiano di sommergere gli Stati Uniti sotto una gigantesca e vindice inondazione). Forse, a distanza di tanti anni, Springsteen ha fatto un disco come “The Ghost of Tom Joad” per non essere frainteso. Perché tanto tempo fa, all´uscita di “Born in the U.S.A.”, il fraintendimento ci fu. Eccome. Erano anni di rambismo rampante (in realtà anche Rambo fu frainteso: il primo film, quello diretto da Ted Kotcheff, era tutt´altro che forcaiolo). Bruce ebbe la strabiliante forza poetica di comporre un brano – qui parliamo di “Born in the U.S.A.”, poi sarà utile allargare il discorso all´album – che era un lamento con la struttura musicale dell´inno. Infatti il pezzo divenne una delle più grandi canzoni da stadio di tutti i tempi: quando Bruce lo intonò, al concerto di San Siro (unica data italiana della tournée che fece seguito all´album, tra l´84 e l´85), lo spettacolo di 80.000 pugni levati fu semplicemente indimenticabile, riempì lo stadio di una forza e di un´emozione compatta e condivisa che nessuna partita di calcio (e San Siro, già leggendario di suo, ne ha viste non poche) era mai riuscita a creare. Sì, “Born in the U.S.A.” sembrava un inno: un inno americano alternativo a “The star spangled banner”, e non a caso il timbro delle chitarre distorte richiamava alla memoria il sound di Jimi Hendrix, storpiatore primario dell´inno Usa ufficiale. Solo che le parole non erano da inno: le parole erano un canto dolente sulla generazione dei reduci del Vietnam. Il protagonista della canzone torna a casa dalla guerra e non ha più lavoro; va a consultare il suo “v.a. man”, il consigliere per i veterani, una figura vicina al nostro assistente sociale, e quello gli dice “son, don´t you understand?”, figlio, non capisci?

E così il reduce, che era stato mandato in una “terra straniera” a combattere “l´uomo giallo”, e che aveva lasciato il fratello a Khe Sahn ritrovandosi come suo unico ricordo una foto con “a woman he loved in Saigon”, una donna che amava a Saigon, se ne rimaneva lì nella sua America industriale e devastata (il New Jersey, probabilmente) dove le fabbriche sono chiuse e sono dieci anni che lui “brucia lungo quella strada”: “nowhere to run, nowhere to go”, nessun posto dove andare.

Questo era il senso della canzone, nemmeno tanto riposto: e a quel furbetto di Ronald Reagan avremmo dovuto rispondere “son, don´t you understand?”, quando tentò di appropriarsi della canzone nella sua campagna elettorale (sarebbe stato rieletto, purtroppo) probabilmente senza averne mai letto il testo. Figliolo, non capisci? Questo non è uno che vota per te. Questo è uno che dal reaganismo ha avuto solo dolori, delusioni, disoccupazione. Eppure l´equivoco nacque. Un po´ per la musica, sicuramente: quel giro di sei accordi che apre la canzone, e sul quale poi si appiccica il titolo/ritornello, era perfetto anche per aprire i comizi di un uomo politico. Un po´, fu il titolo: mettete quella musica assieme al titolo, togliete il resto della canzone e potete ottenere un roboante grido di guerra.

Reagan la capì, o la volle capire, così. Non sapeva che il titolo veniva da lontano con quel suo significato neutro, da ufficio dell´anagrafe: nato negli U.S.A., càpita a un sacco di gente. Bruce l’aveva, diciamo così, “rubato” a un cineasta, il regista Paul Schrader (“American Gigolo”, “Blue Collar”, la sceneggiatura di “Taxi Driver” di Scorsese), che gli aveva passato un suo copione così intitolato, nella speranza che il cantante gli scrivesse la colonna sonora. Il film lì per lì non si fece, (nel cinema succede spesso), e sia Schrader che Springsteen hanno sempre raccontato che il copione era finito in un cassetto e il titolo riemerse dalla memoria di Bruce in modo quasi inconscio. Certo il regista ci restò male, ma Springsteen non negò mai l´accaduto e quando poi Schrader riuscì a “montare” il progetto gli regalò una canzone, “Light of Day”, rimasta a lungo inedita salvo la colonna sonora del film omonimo (dove la esegue Joan Jett, anche interprete accanto a Michael J. Fox). Era una storia di rockers operai, di gente che lavora duro e usa la musica come valvola di sfogo: molto “springsteeniana”, Schrader aveva visto giusto. Il film aveva una valenza duplice, come càpita quasi sempre nella cultura americana quando la critica sociale incontra il patriottismo: la prima sa essere dura, serrata, ma il secondo in America è una cosa maledettamente seria anche per i “radical” più arrabbiati, e questa è una cosa che noi europei (forse, soprattutto noi italiani, che della patria abbiamo un’idea molto calcistica e poco radicata) fatichiamo sempre a comprendere. “Born in the U.S.A.” è un titolo che può essere recitato, al tempo stesso, con amarezza e con orgoglio. Era così per Schrader ed era sicuramente così anche per Springsteen, anche se nella canzone, a leggere bene le parole, è l´amarezza a prevalere.

Springsteen 84

Per gli “springsteeniani” doc, club al quale l´autore di queste righe afferma senza pudore di appartenere, il dubbio non ci fu mai, la “captatio” di Reagan sembrò immediatamente una gaffe e la risposta di Bruce fu liberatoria ma scontata. Era ovvio che le cose stavano così! Però i media ci cascarono. Le immagini di Bruce in concerto, con la bandana (lo stesso indumento di Rambo!), contribuirono all’equivoco. Si cominciò a parlare di “rock reaganiano”. Ribadire oggi che non fu mai un problema nostro serve fino a un certo punto. In realtà il problema era anche nostro. Per due motivi, uno personale (quindi secondario) e uno globale. Quello personale – di tutti gli “springsteeniani”, non solo di chi scrive – era che con “Born in the U.S.A.” il nostro eroe diventava patrimonio comune. Succede sempre, quando un artista amato dagli adepti diventa una star mondiale: si è gelosi! Bruce era già famosissimo, ma “Born in the U.S.A.” diventò il secondo disco più venduto di sempre dopo “Thriller”, trasformando il suo autore in un fenomeno mondiale. E se noi, che conoscevamo Bruce dai tempi di Asbury Park, sapevamo bene che non era reaganiano e non si sarebbe mai venduto, i ragazzini che usavano “Dancing in the Dark” per ballare in discoteca che ne sapevano? Qui sta il nocciolo, e si arriva al problema globale: quando un disco vende milioni di copie in tutto il mondo diventa anche un fatto di costume, ed entra in un circolo mediatico che anche l´artista stesso fatica a controllare. Bisogna dire che Bruce fu, ed è ancora, bravissimo: la gestione oculata, non inflazionata, della propria immagine e delle proprie parole è una cosa in cui è veramente un fenomeno. Ma l’84 fu il momento della carriera in cui rischiò grosso: avesse sbagliato una mossa, avrebbe insidiato il trono di Madonna e di Michael Jackson, invece rimase se stesso e ormai, a 54 anni compiuti, non è più in pericolo.

Il vero aiuto gli venne da dentro, dalle canzoni, dalla musica, e dalla consapevolezza di sé. Usiamo “canzoni” al plurale perché, quando si passa a parlare di “Born in the U.S.A.”-disco, è giusto ricordare che si tratta di una raccolta di pezzi semplicemente mirabolante (non a caso quasi tutti divennero singoli di successo). E furono le altre canzoni a salvare “Born in the U.S.A.”-canzone, a illuminarne di riflesso il significato. Furono la paura di “Cover Me”, i ricordi adolescenziali di “Glory Days”, il manifesto generazionale di “No Surrender”, persino la sana ambiguità di “Bobby Jean” (il cui testo può essere riferito sia a una donna che a un amico, con spostamenti di senso e latenze omoerotiche estremamente stimolanti: la risposta migliore a chi accusa Bruce di essere “machista”). Fu, soprattutto, il brano-gemello di “Born in the U.S.A.”, “My Hometown“: il paesaggio è lo stesso, una città dove le fabbriche sono chiuse ed è arrivata la violenza (razziale, stavolta); ma il personaggio, anziché un reduce senza lavoro, è un padre di famiglia che il lavoro rischia di perderlo, e pensa (come Tom Joad!) di emigrare, di andare a Sud, ma intanto porta in giro il suo figlioletto in auto, lo fa sedere sulle sua ginocchia davanti al volante e gli dice di “take a good look around”, di guardarsi bene attorno: “this is your hometown”, questa è la tua città. Ed è già una “city of ruins“, una città di rovine, titolo di un pezzo che Bruce avrebbe scritto molti anni dopo.

Musicalmente, “Born in the U.S.A.” è un inno rock mentre “My Hometown” è una ballata che riprende, con un arrangiamento appena più ricco, le atmosfere di “Nebraska”: e quindi anticipa quelle di “Tom Joad”. Questo per ribadire che il disco oggi ventenne era, stilisticamente, molto eclettico: una sorta di catalogo di ciò che Bruce poteva e voleva fare con la E Street Band. C’era persino un brano quasi “disco”, l´unico che anche a distanza di vent’anni continuiamo a non amare: “Dancing in the Dark”. Però lo ama lui, e lo amano tanti ragazzi più giovani di noi, che ai concerti vogliono anche ballare, per cui va bene così: Bruce continua a riproporlo in concerto e ogni volta è una festa. Non è sicuramente un caso che anche il brano “Born in the U.S.A.” venga sempre suonato dal vivo, ma spesso in versione “unplugged”, voce e chitarra: così l´inno sparisce e rimane solo il lamento. Gli equivoci sono finiti. All´epoca, Bruce si salvò dall’omologazione e dall’edonismo reaganiano grazie ai suoi valori profondi e alla forza della musica. Oggi, vent’anni dopo, è vivo e vegeto e lotta sempre insieme a noi. I ragazzi del “new world order” fanno di tutto per farci sentire soli, ma finché noi abbiamo Bruce, e lui ha noi, non ci riusciranno.

NOTA: Abbiamo corretto una svista in quest’ottimo articolo di Alberto Crespi: l’inno americano è “The Star Spangled Banner” e non, com’era scritto nell’articolo originale, “Stars and Stripes” (quella è la bandiera…)

Sul nostro sito non perdetevi la versione livornese della title-track, che abbiamo letto addirittura in diretta su Controradio di Firenze anni fa.

Budello ‘ane so’ nato ‘n una città di morti
messo appena ‘n piede ‘n terra, giù carci peggio ‘a’a’n zomaro
dé, diventi peggio d’un cane smusato di nidio
e passi tutta la vita solo a cercà ‘n refugio

Perché so’ nato nell’Uessé
So’ nato nell’Uessé
So’ ameriàno, dé!
So’ nato nell’Uessé…

Posted in Album | Tagged Born in the U.S.A., Bruce Springsteen, Vietnam

Lou Reed 1942-2013

By Antiwar Songs Staff on 28 Ottobre 2013

Lou-Reed2

Lou Reed se n’è andato una domenica mattina d’ottobre.

Gli abbiamo reso un piccolo omaggio con un extra speciale, Sunday Morning, la canzone che apriva “The Velvet Underground & Nico”, un album che – come disse Brian Eno – avrà venduto originariamente 30.000 copie ma tutti quelli che ne hanno comprato una copia hanno poi fondato una band.

Svegliarsi una domenica mattina, un apparente risveglio tranquillo, ma con il fantasma degli anni sprecati, la paranoia di avere il mondo intero dietro le spalle, la depressione, l’ansia strisciante, i postumi dell’eroina…

Domenica mattina, gloria all’alba
ma c’è una sensazione d’irrequietezza che m’accompagna
Le prime luci dell’alba, domenica mattina
E gli anni sprecati sono appena dietro di te

Attento! Hai il mondo intero alle tue spalle
c’è sempre qualcuno intorno a te che chiamerà
ma non è niente

Ma abbiamo voluto ricordare Lou Reed anche con una canzone più recente e altrettanto famosa, tratta da un album interamente dedicato a New York, in cui scriveva dei fortissimi contrasti della “Grande Mela” e sulla solita guerra dei centomila anni: Dirty Blvd.

Portatemi gli affamati, gli stanchi
i poveri e gli piscerò addosso
questo è ciò che la Statua dell’Intolleranza dice
le vostre masse di poveri accalcati
picchiamoli a sangue
facciamola finita
e buttiamoli nel viale

Lou Reed da adolescente fu sottoposto ad elettroshock per “curarlo” dalla omosessualità (o bisessualità). Da questa esperienza devastante nacque una canzone dal titolo eloquente “Kill Your Sons“.

Posted in Artisti, In ricordo | Tagged Lou Reed, New York, The Velvet Underground

Il latte nero dell’alba

By Antiwar Songs Staff on 25 Ottobre 2013

Celan_passphoto_1938

Paul Celan è uno dei massimi poeti di cultura ebraica del secolo scorso.
Nato in Romania, morto a Parigi, scriveva in tedesco. Come tanti artisti ha cambiato tante patrie, senza mai trovarne una.
I suoi genitori morirono in campo di concentramento, mentre lui si salvò dalla cattura. Paul Celan visse tutta la sua esistenza con l’ossessione di non avere fatto abbastanza per salvare i suoi e, in fondo, con il senso di colpa per essere sopravvissuto, per non essere morto con loro: la memoria dello sterminio dei suoi genitori e del popolo ebraico, la memoria delle violenze della guerra, lo ossessionò al punto tale che, infine, si suicidò, buttandosi nella Senna dal Pont Mirabeau.

La sua poesia più famosa è Todesfuge (Fuga di Morte) messa in musica da Diamanda Galas. La poesia è un potente grido di dolore che descrive la realtà del campo di concentramento, denuncia la condizione dei prigionieri, e mette a nudo la crudeltà dei carcerieri nazisti nella sua elementare banalità quotidiana. Il titolo, originariamente Todestango, coniuga la morte con il ritmo musicale proprio della Fuga, che Celan si propone di riprodurre nell’andamento dei suoi versi; in esso è da vedersi anche un richiamo diretto all’imposizione umiliante, inflitta dai nazisti agli ebrei prigionieri dei campi, di suonare e cantare durante le marce e le torture.

Latte nero dell’alba noi beviamo la sera
Noi beviamo sia a pranzo sia a colazione noi lo beviamo di notte
Noi beviamo e beviamo
La morte è un maestro in Germania i suoi occhi sono blu
Lui mi colpisce con una pallottola di piombo egli mi colpisce sicuramente
Un uomo abita in una casa i tuoi capelli dorati Margarete
Egli aizza i suoi mastini e ci regala una tomba nell’aria
Egli gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro in Germania

 

Dalla stessa poesia il violinista Michele Gazich ha tratto una bellissima canzone intitolata Il latte nero dell’alba.

La notte beviamo il latte nero dell’alba
La notte beviamo il latte nero dell’alba
La notte beviamo il latte nero dell’alba
La notte beviamo il latte nero dell’alba

Vivere scrivere cicatrizzare l’odio
Vivere scrivere cambiare lingua cambiare città
Vivere scrivere amare amare amare ancora
Vivere scrivere anche se tutto intorno muore

Vivere scrivere nuovi libri per nuovi occhi
Vivere scrivere per le orecchie annoiate del boia
Vivere scrivere sento il rumore delle nuove catene
Vivere scrivere anche se tutto intorno muore

Il latte nero dell’alba è quello che bevevano ogni mattino gli ebrei che sapevano di dover morire; il latte nero dell’alba lo bevve Paul Celan, prima di sprofondare nella terribile pace della morte, nel grande cuore nero delle acque del fiume.

Ma il fiume questa notte è un grande cuore nero
E mi accoglie
E mi stringe
E spegne il mio dolore

Il brano è diviso in sezioni musicali diversissime: sezioni concitate alternate ad altre di riflessione e pace. Gazich racconta, con scansione al contempo lirica e narrativa, con una voce che non nasconde nulla del male del vivere e che per questo non può lasciarci indifferenti, la vita e la morte di Celan.

Sul sito la canzone è già stata tradotta in polacco ed in greco.

Posted in Canzoni, Poesie | Tagged Diamanda Galas, Michele Gazich, Paul Celan, Shoah

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